Draghi e Merkel concordano su un punto: Spagna e Italia devono prima chiedere esplicitamente soccorso ai Fondi di salvataggio europei.e sottoporsi a un nuovo programma di auaterità e "riforme", rendendo sempre più esplicita la condizione di semi-colonie.
Quella che è stata definita la più grave crisi capitalistica da oltre mezzo secolo sembra cambiare segno ogni giorno, con il passaggio dalla delusione all’euforia delle borse e all’altalena degli spread. E’ quello che è successo dopo l’ultima riunione della BCE e le dichiarazioni di Draghi. Ma cosa ha veramente detto il presidente della BCE per suscitare reazioni apparentemente così contraddittorie?
In effetti, Draghi aveva detto, e ha ripetuto con grande determinazione, che la BCE difenderà l’euro e che la speculazione sulla sua disintegrazione ha sbagliato i conti. Un’affermazione importante, ma non stupefacente. Paradossale sarebbe una dichiarazione costellata di dubbi e incertezza per un presidente che è nel primo anno del suo esercizio su otto, e che fallirebbe miseramente la sua missione se l’euro si dissolvesse, mettiamo, nei primi due anni della sua presidenza. Da questo punto di vista, Draghi non si è lasciato incantare dalle sirene fondamentaliste della Bundesbank e, in violazione del galateo diplomatico di Francoforte, ha messo in piazza la solitaria e sterile opposizione di Weidmann che ne è il nuovo presidente.
Poteva farlo tranquillamente senza pesanti ripercussioni dal lato della Germania? La risposta è sì, perché Draghi sa di essere coperto dalla cancelliera Merkel che non può consentirsi di arrivare alle elezioni dell’autunno de 2013, avendo fatto a pezzi la creatura del suo grande sponsor e predecessore, Helmut Kohl. Draghi sa che può chiamare il bluff dei falchi della Bundesbank, schierandosi per una linea di difesa flessibile dell’euro, con la garanzia della cancelliera.
Ma questo è solo un lato della medaglia. Lo schema Draghi-Merkel implica un altro aspetto fondamentale. Angela Merkel può sostenere la sua linea di difesa dell’euro, e perciò di assistenza ai paesi in difficoltà, a una condizione precisa. La condizione è che i paesi “malati” della periferia, in sostanza Spagna e Italia (la Grecia è, senza molte lacrime, considerata perduta), siano sottoposti al rigido controllo e alle condizioni di autolesionista austerità già imposte ai paesi in difficoltà sin dall’inizio della crisi.
Ed è esattamente quello che Draghi ha messo in campo. I governi di Spagna e Italia possono essere assistiti di fronte all’assedio della speculazione, ma devono prima chiedere esplicitamente soccorso ai Fondi di salvataggio europei. L’Europa stabilirà le condizioni per concedere l’aiuto e gli strumenti per controllarne l’attuazione.
Mariano Rajoy, dopo una disperata resistenza, ha annunciato la messa sotto tutela della Spagna. E ha accompagnato l’annuncio con l’impegno ad assumere altre catastrofiche misure di austerità in un paese già stremato da una disoccupazione del 25 per cento, che ha precedenti solo nella Grande Depressione degli anni Trenta. Monti ha provato a tergiversare, ma dopo le ultime dichiarazioni di Draghi è destinato a seguire Rajoy e a chiedere la protezione dei Fondi di salvataggio, come condizione per ottenere l’intervento della BCE nell’acquisto di titoli di stato in grado di frenare la speculazione.
Ma qui interviene la seconda novità. L’intervento della BCE riguarderà solo l’acquisto di titoli di stato a breve scadenza. Questo significa che i tempi di maturazione del debito saranno progressivamente accorciati e che l’intervento potrà essere immediatamente sospeso se le condizioni imposte non dovessero essere rigorosamente osservate. Così l’austerità che ha spinto l’Italia verso la recessione e un inarrestabile aumento della disoccupazione diventerà il criterio di gestione della politica economica e sociale a tempo indeterminato.
In questo quadro di intransigenza verso i paesi dilaniati dalla speculazione, di cui peraltro la Germania si avvantaggia con l’azzeramento dei tassi di interesse, la linea Merkel è salvaguardata e rafforzata. E Draghi ottiene una maggiore autonomia nei confronti dei falchi miopi della Bundesbank in cambio del sostegno a ciò che è centrale nella politica di controllo dell’eurozona da parte di Berlino.
Può darsi che il disegno sfugga di mano, così come è già successo per la Grecia. Il futuro dell’euro rimane precario. Ma se lo scenario rimane profondamente incerto, l’unica certezza è che i paesi in difficoltà dovranno accettare un regime di commissariamento permanente. La speculazione diventa non il nemico da combattere con la potenza di fuoco di cui potrebbero disporre le autorità europee, ma lo strumento di deterrenza e di ricatto nei confronti di ogni tentativo di ripresa di autonomia dei paesi sottoposti al controllo dell’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles.
Il governo Monti anche per la prossima legislatura come in Europa preferirebbero, o quello che dovesse succedergli, avranno, nello schema Merkel-Draghi, le mani legate. L’austerità e l’inesausta richiesta di riforme strutturali sarebbero senza soluzione di continuità la linea guida dei prossimi governi. La crescita sarebbe rinviata a un’altra fase, forse a un’altra decade.
L’agenda politica, come scrive con soddisfazione Giavazzi sul “Corriere” di sabato è precostituita. Che si voti in autunno o nella prossima primavera non conta. Le differenze fra i partiti chiamati a governare diventano secondarie e pleonastiche. Il voto popolare, destinato in democrazia all’elezione di governi con diversi programmi politici, diventa un elemento ridondante. Ma non chiamatela sospensione della democrazia; lo è, ma non bisogna dirlo.
Se Monti rimarrà al governo, come molti anche a sinistra auspicano, sarà pur sempre votato dalla maggioranza parlamentare. E, nel caso, dovesse essere sostituito da Bersani, con o senza l’appoggio di Casini, l’Europa sarà meno entusiasta, ma l’agenda politica è, per l’appunto, precostituita e inalterabile.
Di questo scenario non si può incolpare Draghi che gioca la sua partita sul proprio terreno. Ma ciò che stupisce è che in Italia è sospeso il dibattito sul futuro della politica, e sul destino di semicolonia che si annuncia. Una semicolonia triste, nella quale le classi dirigenti accettano la deriva senza reagire, quasi con compiaciuto disincanto, come qualcosa di fatale e irreversibile.