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In America, con l’avvento di Franklin D. Roosevelt, e del New Deal fu impressa una svolta radicale verso la soluzione della crisi. In Europa assistiamo a una politica di controriforme sociali che aggravano la crisi.
La crisi che attraversiamo fu inizialmente paragonata a quella del 1929. C’era di che essere allarmati. Ma, al tempo stesso, maturò la speranza che, anche avendo diagnosticato per tempo la malattia, i governi sarebbero intervenuti per bloccarne l’evoluzione ed evitare il disastro sociale della Grande Depressione degli anni Trenta. Disgraziatamente le cose sono andate nel peggiore dei modi.
Sono passati tre anni e in America si discute apertamente del rischio di una nuova recessione. In ogni caso la disoccupazione è più alta di quella che Barak Obama aveva trovato al momento del suo insediamento alla Casa Bianca. E all’inizio di settembre, in un drammatico discorso al Congresso, ha chiesto l’approvazione urgente di un piano di 450 miliardi di dollari per tentare il rilancio dell’economia e dell’occupazione.
Non sappiamo se saranno sufficienti. Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton, ha scritto che sarebbero stati necessari almeno 1000 miliardi di dollari a favore delle fasce sociali più deboli e per un grande piano di investimenti infrastrutturali. C’è poi c’è l’incognita dell’opposizione repubblicana e del radicalismo fondamentalista dei Tea Party che minaccia di snaturare le misure messe in campo da Barak Obama.
Queste le incertezze della situazione americana dove la crisi finanziaria è scoppiata. Ma in Europa le cose vanno peggio. La linea che prevale, assurdamente, non è quella del rilancio dell’’economia e dell’occupazione, ma dell’”austerità”, come si dice con espressione ambigua, che, in realtà, significa una politica di deflazione e di ristagno, quando non di recessione, dell’economia.
Ora si torna a evocare il rischio sempre più concreto del default greco. Eppure non si può fare a meno di ricordare che tre anni fa, quando il nuovo governo Paparndreu onestamente dichiarò che il precedente governo conservatore aveva lasciato un disavanzo molto più alto di quello dichiarato, sarebbe stato possibile concordare un piano di rientro in un tempo ragionevole. Invece con la richiesta di misure di risanamento così onerose da essere inattuabili si è trasformata una crisi di liquidità di possibile soluzione in una crisi di solvibilità che appare ormai irrisolvibile.
Il caso della Spagna è a sua volta indicativo. Si sostiene che le difficoltà dei paesi dell’euro dipendono da un’irresponsabile politica di bilancio. Ciò non era assolutamente vero per la Spagna che arrivava alla crisi immobiliare con un debito pubblico molto al di sotto della media europea e dei parametri di Maastricht. Il paese si trovò nella spirale di una crisi immobiliare interna aggravata dal contesto internazionale, che colpiva una parte del sistema bancario, Il balzo in avanti del disavanzo pubblico, conseguente alla crisi, poteva essere fronteggiato in una condizione normale di ripresa dell’economia favorita da interventi di spesa pubblica. Ma le autorità comunitarie hanno imposto insieme il salasso del bilancio e le famigerate riforme di struttura con l’inevitabile peggioramento della situazione economica, la rottura dei rapporti sociale e la crisi del governo socialista.
Il caso italiano è il più recente, ma non necessariamente l’ultimo, di una politica governata dall’effetto domino. All’Italia è stato chiesto prima l’azzeramento del disavanzo entro il 2014, poi di anticiparlo entro i prossimi due anni con una manovra restrittiva di oltre cinquanta miliardi. Una condizione che qualsiasi studente del primo anno di Economia sa che comporta la conseguenza inevitabile il blocco ulteriore della crescita che, a sua volta, rende più difficile, in un circolo vizioso, la riduzione dell’debito.
Ma qui conviene tornare al confronto iniziale con la crisi del ’29. In America, con l’avvento di Franklin D. Roosevelt, fu impressa una svolta radicale in direzione della ripresa economica e della lotta alla disoccupazione. Tra il ‘33 e il ‘35 furono messi al lavoro con l‘intervento diretto dello Stato milioni di lavoratori e di giovani per costruire strade, ponti, dighe, centrali elettriche, e i parchi che ancora oggi ammiriamo viaggiando negli Stati Uniti.
Ma non basta. Gli interventi più memorabili furono l’instaurazione della Social Security, il sistema pensionistico pubblico, l’indennità di disoccupazione, il welfare per le madri single con figli a carico, il salario minimo legale, oltre alla riforma sindacale – la famosa Legge Wagner - che nei decenni successivi consentì uno straordinario sviluppo del sindacalismo americano. Insomma, la più grande politica di riforme sociali che si ricordi in un paese democratico come strumento d’intervento contro la crisi e, insieme, come strumento per una società più giusta, combattendo l’esplosione delle diseguaglianze che aveva caratterizzato i ruggenti anni Venti.
Al confronto non possiamo non guardare con disappunto a quello che succede in Europa nella crisi di oggi. Le autorità dell’Unione europea, dalla Banca centrale alla Commissione europea e ai governi di destra che dominano nella maggior parte dell’Unione ,si esercitano in un coro assordante diretto a imporre, sotto la minaccia dei mercati finanziari, le “riforme di struttura”. In sostanza, un’ulteriore stretta sui regimi pensionistici, la deregolazione finale dei mercati del lavoro di contrazione dei sistemi di welfare, la privatizzazione dei servizi pubblici.
Il caso italiano rientra in questo quadro. L’Italia ha certamente un cattivo governo di destra, anzi il peggiore nell’ambito dell’Unione. Ciò non ostante, il debito pubblico , pur essendo storicamente molto alto, toccando il 120 per cento del Pil, è stato contenuto nel corso della crisi, e il disavanzo pubblico sarà, secondo le stime correnti, il più basso tra i maggiori paesi dell’eurozona dopo la Germania. Questo non è bastato per frenare la caccia dei mercati finanziari a una nuova preda, la più grossa, dopo le iniziali di piccola taglia, come la Grecia, l’Irlanda,il Portogallo e poi la Spagna.
La BCE, le autorità di Bruxelles e la signora Merkel hanno fatto sapere con lettere “riservate” e dichiarazioni pubbliche che il governo italiano doveva assumere altre misure di austerità dopo quelle già varate nell’estate per accelerare, come abbiamo visto, il pareggio del bilancio. Ma non basta. Nel decreto legge della “manovra” finanziaria il governo Berlusconi ha inserito una norma priva di qualsiasi riferimento alla questione del bilancio pubblico. Vale a dire, la possibilità di fissare con accordi aziendali la libertà di licenziamento senza giusta causa. Una misura che Confindustria e destra inseguono da anni. E che nel 2002 il governo Berlusconi di allora dovette ritirare dopo la più grande manifestazione operaia e popolare della storia della Repubblica.
Ebbene oggi viene riproposta e varata, all’inizio quasi clandestina, per decreto, chiaramente profittando della crisi. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso dello scontento e della protesta, rafforzando le ragioni dello sciopero generale del 6 settembre. Uno sciopero non sorprendente rispetto ad altri che si sono visti nel corso dei mesi in Grecia, Spagna, Portogallo, Francia. Ma certamente sorprendente per il fatto che la CGIL ha dovuto proclamarlo da sola, mentre CISL e UIL lo condannavano come inutile . In effetti, lo sciopero ha mobilitato non solo i lavoratori ma anche pensionati, giovani disoccupati e precari, costruendo un importante momento di unità e solidarietà, e ristabilendo un forte rapporto con i partiti della sinistra e, in primo luogo col PD, a dispetto del dissenso di alcune frange interne.
Non ostante il successo dello sciopero generale, com’era prevedibile, la norma sui licenziamenti è rimasta nel decreto del governo ma, violando come ha sostenuto Umberto Romagnoli e come ha scritto Mario Rusciano (www.eguaglianzaeliberta.it) i contratti nazionali, lo Statuto dei lavoratori e la stessa Costituzione, è del tutto improbabile che possa diventare operativa.
Ma nel disegno del governo vi è qualcosa di più. Si vuole portare a compimento un disegno che stravolge la struttura della contrattazione e della rappresentanza sindacale. In sostanza la liquidazione del contratto nazionale e lo spostamento del baricentro della contrattazione a livello aziendale. Questo disegno ha l’appoggio non solo del padronato ma anche di un ampio schieramento politico di destra e di un’ ala di economisti e giuristi del lavoro supposti (o autoproclamati) di centro-sinistra.
L’ argomento portato a sostegno di questo cambiamento strutturale del modello contrattuale starebbe nella necessità delle imprese di far fronte alle esigenze di competitività imposte dalla globalizzazione. Dal punto di vista dei lavoratori si tratta di una motivazione infondata e perfettamente rovesciabile. E’ proprio nel quadro della globalizzazione che l’azione collettiva, frammentata a livello aziendale, pone il sindacato e il lavoratori in una permanente condizione di ricatto, e rompe il quadro di riferimento nel quale si muovono le stesse aziende.
Ne abbiamo visto un esempio clamoroso in Italia con la Fiat. Marchionne, amministratore delegato della Fiat-Chrysler, ha chiesto di rompere il rapporto con il contratto nazionale dei metalmeccanici e di accettare un generale peggioramento delle condizioni di lavoro. In pratica senza negoziare, ma ponendo come alternativa la chiusura dello stabilimento di Pomigliano nei dintorni di Napoli, e quello storico di Mirafiori a Torino, che un tempo fu la più grande fabbrica automobilistica europea. La CISL e la UIL in rottura con la FIOM- CGIL hanno sottoscritto l’accordo e i lavoratori in un referendum imposto dall’azienda hanno approvato sotto ricatto l’accordo, essendo l’alternativa alla chiusura delle fabbriche e alla perdita del lavoro.
E’ bene dire che non si tratta di un’invenzione estemporanea, o dovuta alla particolare aggressività di un’azienda. E’ il modello americano, per l’appunto basato sulla contrattazione aziendale, che nel corso degli ultimi decenni, con l’avanzare della globalizzaizone, ha pressoché distrutto il sindacato americano ridotto a rappresentare nel settore privato il 7 per cento dei lavoratori. Il risultato è stato la stagnazione dei salari, il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’esplosione della diseguaglianza.
Con il venir meno dell’unità e della solidarietà che è il terreno sul quale si operano le mediazioni necessarie del contratto nazionale, e si fissano anche le regole e i confini della contrattazione aziendale, la condizione di isolamento nella quale si trovano i lavoratori e il sindacato nel confronto frammentato fabbrica per fabbrica, l’arretramento del sindacato in un’azienda, quasi sempre imposto sotto il ricatto dell’’occupazione, diventa il paradigma del negoziato in tutte le altre aziende. Non è una soluzione per fronteggiare i rischi connessi alla globalizzazione, ma il modo di fare dei lavoratori la vittima sacrificale.
In questo quadro, il disegno neo-comservatore che attraversa l’Unione europea, e in particolare l’eurozona, è stato al centro, e continuerà a esserlo, della protesta e della mobilitazione popolare nei che hanno segnato l’ultimo anno. Ma sembra mancare nello schieramento politico della sinistra una chiara consapevolezza del fatto che le classi dirigenti stanno spregiudicatamente usando la crisi per costruire una condizione di arretramento delle classi lavoratrici nei rapporti sociali di potere.
Contrariamente a quelle che potevano essere le speranze di una crisi affrontata tenendo conto delle lezioni della storia della Grande Depressione, siamo di fronte a un rovesciamento teorizzato e praticato di quello che all’inizio della crisi fu evocato come un possibile nuovo New Deal. E’ necessario battere la sfiducia e l’apatia per ricostruire un terreno di iniziativa comune fra sindacati, partiti della sinistra e cultura progressista. Lo slogan delle grandi manifestazioni di massa delle donne giustamente recitava.”Se non ora, quando?”
(Articolo in corso di pubblicazione su Revista de Estudios, CC.OO).