Utopie e distopie - Un saggio di Mario Fierli
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La lettura del libro di Mario Fierli potrebbe essere un ottimo antidoto per riattivare il pensiero critico, antidogmatico, in cui la tecnica riacquista, senza demonizzazioni, il ruolo che le compete nella formazione dell’uomo di domani. Il nuovo bel libro di Mario Fierli si legge con grande leggerezza e divertimento. Tanto per essere chiari, sono lodi, non critiche. L’argomento potrebbe indurre a trattazioni seriose, accademiche, capaci di produrre più tomi, visto anche l’arco di tempo in cui si svolge. Qui invece siamo di fronte a “sciabolate” (tre, per la precisione) che tagliano le epoche con lame ben affilate, che tracciano itinerari insoliti e, per chi scrive, anche inattesi. Uno su tutti quello che insegue Jules Verne nella sua dimensione distopica, da me mai neppure ipotizzata fin da quando, poco più che bambino, leggevo con grande passione e tranquillizzante ottimismo i suoi romanzi “positivi”, che mi parlavano di nuove scoperte scientifiche e di fede del progresso. A dipanare uno dei fili rossi della narrazione è il ruolo della tecnica, definire la quale era già un’impresa non facile al tempo dei greci[1]. Techne significa “arte, mestiere”, che si differenza dalla poiesis, “creazione assoluta, ex nihilo” e ha in sé la necessità di disporre di materiale preesistente, che poi andrà intessuto (tek, radice indoeuropea di “tessere”) a seconda delle necessità del momento. La traduzione latina di techne con “ars” – con i relativi equivoci interpretativi - ebbe la meglio per tutto il Medioevo. Di tecnical come aggettivo si parla per la prima volta in Inghilterra, nell’ambito del nascente empirismo del XVII secolo, ma ancora l’Encyclopédie di D’Alembert e Diderot (1764), parla di sciences, arts e métiers. In italiano, il sostantivo “tecnica” si fa risalire addirittura solo alla fine del XIX secolo. L’altro filo è quello della utopia/distopia, “luogo inesistente o benigno”, a seconda delle interpretazioni che si danno della u- (“ou”, “non” o “eu”, “buono”) il primo, “luogo cattivo”, il secondo. Rintracciare nella storia dell’Occidente europeo questo duplice concetto si rivela quantomai appassionante e Mario Fierli ci guida alla riscoperta di testi più o meno noti, illuminandoli da questa prospettiva insolita e molto feconda. I due fili poi si intrecciano tra loro, in quanto la tecnica appare l’elemento generatore principale delle utopie e, più frequentemente, delle distopie. Su questo specchio l’Autore fa riflettere il volto di tanti grandi pensatori, da Socrate a Virgilio, da Bacone a Galileo, fino alle filosofie otto-novecentesche. L’immagine che se ne ottiene è, e non poteva essere altrimenti, densa di contraddizioni, di avanzamenti e precipitose retromarce, talvolta vissute anche all’interno della medesima persona, che contribuiscono a rafforzare l’idea per cui è nella tensione tra poli opposti che vive il pensiero, non nell’asserito raggiungimento di certezze, utopiche o distopiche che siano. Nell’ultima parte del libro (il terzo percorso), la più ardua per chi, come me, non è in possesso di adeguate competenze tecnico-scientifiche, è il pensiero contemporaneo che fa i conti con lo straordinario progresso tecnologico del ‘900. Un progresso che sicuramente atterrisce i più e genera distopie in misura maggiore che non utopie. Qui letteratura, scienza e fantascienza (nel senso di Asimov, un altro autore, a me “verniano utopista”, assai caro), cibernetica, informatica, IA mescolano le loro storie per darci un quadro che, nel complesso, è più oscuro e che luminoso, prevalendo, anche a detta dell’Autore, la distopia sull’utopia, giudicata “più noiosa” dal punto di vista letterario. Il ruolo satanico attribuito alle tecniche (opportuno l’inserimento nel testo dell’” Inno a Satana” di Carducci) perdura ancora oggi e, a tratti, sembra decisamente prevalere, assieme a un senso di inquietudine per un futuro che – come peraltro è sempre stato - non si può prevedere e di fronte al quale gli strumenti della razionalità e della “curiosità” paiono venir meno. Gli apocalittici stanno vincendo, il ripiegamento verso ideali (utopici? Distopici?) di una Natura ipostatizzata come buona, lontana da ogni artificio (come se la “natura” non fosse il più grande laboratorio fisico-chimico esistente!) hanno fatto breccia nelle scuole e nel mainstream. La lettura del libro di Mario Fierli potrebbe essere un ottimo antidoto per riattivare il pensiero critico, antidogmatico, in cui la tecnica riacquista, senza demonizzazioni, il ruolo che le compete nella formazione dell’uomo di domani. [1] Leggendo il testo mi è tornato alla mente il XVIII libro dell’Iliade, dove Efesto accoglie Teti, venuta nella sua officina per fargli fabbricare un nuovo scudo per il figlio Achille, con dei veri e propri automi: “venti tripodi in una sola volta faceva […] ruote d’oro collocava sotto ciascun sostegno, perché da soli entrassero nell'assemblea divina, poi tornassero a casa, miracolo a vedersi.” E più avanti (v. 418 e ss.): “… schiave d’oro simili in tutto a giovani in carne e ossa sorreggevano il loro signore; nel petto hanno senno e voce e forza e sanno lavorare per dono degli dei immortali.” Claudio Salone
Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/ Insight - Free thinking for global social progress
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