Una legge elettorale da cambiare

Sottotitolo: 
La legge elettorale cpme sintomo di crisi della nostra democrazia.

L’attenzione alle riforme istituzionali è ora concentrata su due temi: “presidenzialismo” e “autonomia regionale differenziata”. Il primo è una sorta di chimera: difficile da realizzare senza scardinare il sistema costituzionale con imprevedibili effetti devastanti. Il secondo è un problema complicato: l’attuale progetto Calderoli, penalizzando il Sud, pregiudica unità, eguaglianza e coesione nel Paese. Invece non si parla più della legge elettorale: problema non superato ma dimenticato. Eppure – mesi prima dell’ultima elezione – tutti i partiti (da destra a sinistra) ritenevano necessario rifare la legge elettorale. Elezioni passate, necessità scomparsa! I partiti hanno dimenticato le incongruenze della legge 165 del 2017, emanata solo tre mesi prima dell’elezione di marzo 2018. Hanno dimenticato pure la promessa, piuttosto vaga, che alla scadenza naturale della legislatura (primavera 2023) avremmo avuto una nuova legge con criteri chiari e razionali.

Poi la situazione politica, com’è noto, è precipitata e la legislatura s’è conclusa anticipatamente (luglio 2022). Così a settembre scorso s’è votato con l’orrenda legge del 2017. Forse, anche per la pandemia, il Parlamento non aveva avuto tempo (magari neanche voglia) di modificarla, nonostante l’urgenza d’un intervento in materia. Per tener conto: sia delle parziali incostituzionalità (dichiarate dalla Consulta) delle precedenti leggi elettorali; sia della notevole riduzione dei parlamentari. Che – voluta fortemente, anzi bandiera identitaria del M5S – richiedeva, con altrettanta urgenza, una legge elettorale coerente con lo stravolgimento della rappresentanza parlamentare. Fatto pernicioso che, tra l’altro, ha accentuato i lampanti difetti della 165/2017. Soprattutto l’assurda noncuranza del rapporto tra rappresentati e rappresentanti, dovuta all’enorme ampliamento dei collegi elettorali e all’intollerabile potere dei partiti di decidere l’ordine dei candidati in lista (praticamente gli eletti). Un’incredibile rottura del legame “territorio- cittadini-candidati”.   

La legge elettorale è un vecchio tormentone italiano, altro sintomo di crisi della nostra democrazia. Nelle democrazie mature la legge elettorale è cosa seria ed è un’eccezione modificarla. In Italia si sono succedute varie leggi: in ventidue anni sei elezioni con tre diverse leggi elettorali. Nel 2001 l’ultima elezione col cosiddetto Mattarellum. Poi nel 2006, 2008 e 2013 si votò col cosiddetto Porcellum (definito dall’autore, il leghista Calderoli, appunto una “porcata”). Nel 2018 e 2022 si è votato col cosiddetto Rosatellum (autore Rosato, all’epoca democratico). Sorvolando sulla parodia dei nomi, non s’è mai trovato un meccanismo elettorale imparziale: a garanzia d’una rappresentanza equilibrata realmente democratica. Ogni governo (di destra o di sinistra) ha cambiato la legge sotto elezione secondo la propria (presunta) convenienza. Sempre nel dilemma tra “maggioritario” e “proporzionale”, s’arriva al sistema “misto”: per salvare capre e cavoli, ma nella solita confusione tra aspetti politici e aspetti istituzionali della democrazia. Aspetti interdipendenti ma non paritari. Il meccanismo elettorale è sì un mezzo tecnico ma è soprattutto una scelta istituzionale. Influenza la politica ma non può esserne influenzata. Perciò la relativa legge richiede una decisione meditata, trasversale e condivisa del Parlamento. Quasi fosse una legge di rilevanza costituzionale. In quanto tale andrebbe fatta a distanza di tempo, e non alla vigilia, d’una consultazione, quando il clima è già surriscaldato dalla campagna elettorale. L’obiettivo dovrebbe essere la consapevolezza dei cittadini-elettori per semplificarne una scelta ponderata.

Se si riflette si capisce che un’adeguata e stabile legge elettorale ha rilevanti effetti sul corretto esercizio della sovranità popolare. Anzitutto sulla funzione costituzionale del partito: che non consiste nell’attribuzione a questo d’un potere autoreferenziale, ma nell’aggregazione dei cittadini-elettori che vi s’iscrivono per esprimere una volontà collettiva. La disaffezione di costoro dipende dall’estraneità alle decisioni politiche. Se i cittadini, a causa d’una cattiva legge, non conoscono e non scelgono i propri rappresentanti in Parlamento, non dialogano con questi e le esigenze della base non giungono al vertice. Si capisce che, negando ai cittadini-elettori l’effettiva partecipazione democratica, si scoraggia l’esercizio del diritto di voto e l’astensionismo arriva al 40%.

In definitiva, posto che la legge elettorale è di esclusiva competenza del Parlamento – e non del Governo, che peraltro ha già troppe cose da fare – non sarebbe male che le Camere, avendo davanti quasi un’intera legislatura, cominciassero a elaborare fin d’ora un progetto di legge elettorale degno del nostro sistema democratico, ovviamente nello spirito della Costituzione. Magari coll’aiuto – perché no? – d’un tecnico dell’intelligenza artificiale. Un bel segnale di prima, e prioritaria, riforma istituzionale davvero utile al Paese.

(Editoriale del Corriere del Mezzogiorno)

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.