Una Costituzione venuta dal futuro

Sottotitolo: 
Settant’anni di storia del sindacato e i dubbi irrisolti su democrazia e rappresentanza.

In tutti i paesi europei, e segnatamente nel nostro, quella del diritto sindacale e del lavoro non è soltanto una storia di regolamenti di fabbrica e di concordati di tariffa. Ad esclusione del periodo fascista caratterizzato da una legificazione cingolata che distrusse un sistema sindacale statu nascenti, è anche una storia più dottrinale che legislativa e più giurisprudenziale che dottrinale.

Perciò, nascita e sviluppo del diritto sindacale e del lavoro documentano la falsità del secolare dogma secondo il quale il giudice è la bocca della legge. Anzi, costituiscono la più eloquente conferma che l’interpretazione (giudiziaria o dottrinale che sia) non è passiva esegesi, perché non implica un’attività meramente cognitiva. Come sostiene un’importante corrente di pensiero, è una fase interna del processo di produzione del diritto di cui l’interprete è il protagonista. Insomma, il suo ruolo è creativo. Raramente la norma legislativa è autosufficiente. O è figlia di un passato che non c’è più o sacrifica la complessità della realtà effettuale, proponendone una rappresentazione deformata. Per questo, il mestiere dell’interprete  consiste nel mediare tra il testo nella sua nudità letteraria ed il contesto nella concretezza e attualità del quale l’interprete non può non situarlo perché è lì che lui agisce e ne è figlio.

Nell’area dei rapporti sindacale e di lavoro, è stato così quando tutto cominciò, un secolo fa o poco più. E’ stato così anche nel dopo-costituzione, quando l’insieme dei precetti costituzionali sfuggiva ai radar azionati dai mass-media, dagli educatori scolastici e dagli stessi operatori giuridici. In larga misura, è tuttora così. L’universo dei principi e dei valori costruito dai padri costituenti stenta ad essere metabolizzato dai ceti delle professioni giuridiche in modo da predisporli a collocarsi in una prospettiva costituzionalmente orientata. Può darsi che, nell’immediato, tanta riluttanza verso l’innovazione ordinamentale – al limite dell’indifferenza e persino della rimozione – fosse comprensibile o addirittura giustificabile.

L’innovazione era prorompente e – come succede alle buone costituzioni – anche la nostra è una costituzione presbite: vede nitidamente le cose lontane, in maniera approssimativa quelle vicine. Fatto sta che il diritto sindacale e del lavoro formalmente non abrogato ha potuto sopravvivere nei discorsi giuridici tra parlanti che, propensi come certi viandanti a non disfarsi delle vecchie scarpe anche se sono sfondate perché non affaticano i piedi, erano ostili a radicali e rapidi cambiamenti. Ciò non ha impedito che i cerotti applicati dalla giurisprudenza e la razionalizzazione dottrinale rendessero il diritto sindacale meno deficitario nella pratica e il diritto del contratto di lavoro meno antiquato culturalmente.

Il luogo in cui la micro-discontinuità, che è la costante evolutiva di un intero settore dell’ordinamento, celebra la sua apologia è il contratto collettivo. La vicenda della sua regolazione è paradigmatica: e ciò perché non è dato registrare breack risolutivi, ma nemmeno black-out. Tant’è che il contratto c.d. di diritto comune non è che la brutta copia del contratto collettivo introdotto dalla “fascistissima” legge del 1926 soppressa nel 1943 e, sia pure con adattamenti non secondari, sognato da padri costituenti lieti di poter dire “Lazzaro vive ancora”.

Dico subito che governanti, sindacati e lavoratori avevano (ed hanno) motivo di compiacersi per l’abilità argomentativa che soprattutto la giurisprudenza dava prova di possedere risolvendo problemi tecnico-giuridici che solo una legge di attuazione dell’art. 39 avrebbe potuto risolvere. Dal problema dell’inderogabilità (tranne che in melius) del contratto collettivo a quello della sua obbligatorietà generale (almeno limitatamente alle tabelle salariali). Nel complesso, infatti, si è realizzato un risultato (certamente inferiore, ma) simile a quello ottenibile attraverso il riciclaggio di pezzi del diritto corporativo. Anzi, frequenza ed ampiezza della trasposizione dell’eguale nel diseguale dimostrano che lo stesso sindacato optò per la devoluzione al potere giudiziario di un compito che attiene alla sua mission ego-altruistica ed invece gli è temporaneamente inibito. E’ il compito di tutelare il lavoratore con riguardo meno alla sua (eventuale) veste di associato che a quella (pressoché certa) di utente del servizio di più largo consumo gestito dal sindacato: la contrattazione collettiva. Così si esprimeva, tra molti altri, Mario Rusciano più di vent’anni fa.

Per questo, la transizione dalla rappresentanza sindacale di tipo politico-istituzionale e dunque di diritto pubblico – acquistata a prezzi proibitivi in età corporativa – alla rappresentanza privatistico-associativa di diritto comune propria dell’età successiva è rimasta incompiuta. La rappresentanza sindacale si è staccata dal modello di rappresentanza volontaria di cui discorrono i manuali di diritto privato per diventare una sottospecie della rappresentanza politica di cui discorrono i manuali di diritto pubblico. Pertanto, poiché la percentuale dei sindacalizzati è rimasta costantemente al di sotto di un terzo della popolazione attiva, è stata la giurisprudenza ad impedire che uscisse dal senso comune l’equiparabilità da contratto collettivo di categoria a un grande serbatoio idrico bisognoso dell’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica.

Quindi, è stata la giurisprudenza a farsi carico d’insegnare ad una dottrina legata alla tradizione pandettistica come sia possibile, in un sistema di civil law, servirsi dell’empirismo del common law che permette di adottare gli espedienti idonei ad ottenere soluzioni provviste di un elevato tasso di desiderabilità sociale. Stavolta si trattava di far giungere la corrente elettrica in tutte le abitazioni, anche le più periferiche. Diversamente, lo stato di minorità in cui vivacchia la contrattazione collettiva di diritto comune l’avrebbe ridotta ad un’anatra azzoppata. La giurisprudenza ha realizzato l’intento sostituendosi al legislatore.

Ciò tuttavia non le è bastato per guadagnarsi l’incondizionata gratitudine di sindacati e lavoratori. Anche in materia di sciopero, stante l’astensionismo legislativo interrotto soltanto nel 1990 e limitatamente ai servizi pubblici essenziali, la supplenza giudiziaria ha raggiunto un’estensione mai vista in un sistema giuridico di civil law. Ma ha mantenuto a lungo un segno capovolto rispetto a quello che, nel medesimo arco di tempo, prevaleva in tema di contratto collettivo: più avaro che prodigo, più arcigno che fiducioso, più di chiusura che d’apertura. Ut erat in votis dei pubblici poteri. Ad essi, infatti, non poteva sfuggire che il retroterra culturale dei giudici e della generalità degli operatori giuridici li avrebbe portati a valutare ogni forma di sciopero in un’ottica prefettizia e dunque era ragionevole prevedere che avrebbero agito come severi custodi della pace sociale. Non sbagliarono i calcoli.

Nel 1970, però, facendo entrare “la costituzione nelle fabbriche”, come auspicava negli anni ‘50 Giuseppe Di Vittorio, toccherà allo Statuto dei lavoratori dimostrare che il difetto genetico del presbitismo costituzionale può convertirsi in virtù salvifica. Lo Statuto segnò un nuovo inizio. Ma, a distanza di mezzo secolo, è arrivato il momento di riprendere l’itinerario e tentare, se non di completarlo, di compiere significativi passi in avanti.

Mi chiedo se il sindacato del nostro tempo sia disposto a dare l’esempio, pur sapendo che, per riuscirci, dovrà sciogliere i suoi dubbi irrisolti su democrazia e rappresentanza. Una democrazia più delegata che partecipata e una rappresentanza che va oltre il perimetro associativo.

Da più di settant’anni le parti sociali praticano un gioco che consiste nello stare fuori della costituzione senza, però, mettersi smaccatamente contro. La pratica ha originato una singolare situazione di a-legalità che vede le parti sociali perseguire obiettivi che stanno già dentro la cornice costituzionale, ma in maniera più o meno obliqua o indiretta.

Così, il Cnel configurato nell’art. 99 non ha un passato di cui gloriarsi né un futuro di cui fidarsi, perché le parti sociali prediligono l’informalità delle relazioni col potere pubblico e detestano le “gabbie” istituzionali. Sorte peggiore è toccata all’idea di stabilire forme di cogestione dell’impresa supplementari o alternative al conflitto: si direbbe che l’art. 46 non è neanche scritto. Un’altra norma, l’art. 40, ha dovuto aspettare che la Corte costituzionale facesse cessare con le sue sentenze la demonizzazione dello sciopero meticolosamente esorcizzato dal codice penale del 1930. Dal canto suo, la seconda parte dell’art. 39 è finita in fretta in un zona limbica che al fondatore del teatro dell’assurdo piacerebbe descrivere con un ossimoro di questo tenore: l’art. 39 è inattuato; probabilmente inattuabile e, tuttavia, sempre attuale.

Sembra un epitaffio sepolcrale; invece, non lo è affatto. Ne costituisce una solenne testimonianza il monumentale trittico interconfederale sulla rappresentanza sindacale del 2014. Il quale, se ha permesso a parecchi di sospettare che l’attuazione del disegno costituzionale sia oggi possibile più di quanto non lo fosse negli anni ’50, con tutti i suoi ritardi applicativi sembra confermare che l’art. 39 è destinato a somigliare ad una stella morta da cui continua ad arrivare la luce.  

Sta di fatto che soltanto il principio col quale esordisce è stato subito sdoganato: “L’organizzazione sindacale è libera” .

Non è poco. Ma non è abbastanza. Infatti, si è tradotto in un pluralismo sindacale inautentico, anzitutto perché si è affermato nel segno della subalternità ad un quadro politico profondamente inquinato. L’anti-fascismo, che era stato il collante della Resistenza e il motore della fase costituente, perde la sua centralità sia nel pensiero che presiede all’azione politica sia nel sentimento popolare dominante nel dopo-Liberazione e il suo posto viene preso dall’anti-comunismo. In effetti, la rottura del Patto di Roma del 1944 che aveva fatto nascere la Cgil unitaria rimanda all’esigenza di blindare, sul versante della rappresentanza sociale del lavoro, la conventio ad excludendum negoziata tra la DC e i partiti minori che – in epoca di guerra fredda – avrebbe impedito l’accesso all’area di governo delle forze politiche della sinistra.  

E’ da questo momento che la tentazione di emarginare la cultura giuridico-sindacale dei padri costituenti diventerà irresistibile. D’altronde, i partiti di massa potevano considerare se stessi moderni principi, e considerare loro fidati scudieri i sindacati, anche perché tanto quelli quanto questi non potevano, per incolpevole mancanza di esperienza diretta, nemmeno conoscere logiche e dinamiche delle relazioni sindacali in un regime democratico. Come osservò Alessandro Pizzorno, la Cgil si presentava all’opinione pubblica come il sindacato per il quale un buon risultato elettorale dei partiti di riferimento è meglio di un buon contratto.

Come dire: per la Cgil coeva all’avvento della Repubblica astenersi dal ricercare un’identità distinta da quella dei partiti non poteva essere una dolorosa rinuncia. Suo compito primario era quello di battersi per l’apertura di un ciclo storico che meritasse di essere ricordato come “secondo Risorgimento”: non più spettatore della costruzione dello Stato, il popolo vi partecipava col proposito di farne la sua casa. La stagione però non era la più propizia. Il potere costituito accreditava la Cisl come un avamposto piazzato in partibus infedelium sul quale il mondo delle imprese poteva contare per avere un partner più duttile e, al tempo stesso,  alla DC (come ai partiti suoi satelliti) assicurava una rappresentanza sociale del lavoro filo-governativa.

Dunque, il modello di contrattazione collettiva progettato dai costituenti era finito nell’orto delle ambizioni sbagliate. L’art. 39 rinvia ad una legge attuativa che stabilisca come  – allo scopo di ottenere la licenza di attivare una fonte di auto-regolazione che rompe il monopolio statuale della produzione di diritto – il sindacato possa presentare domanda di “registrazione nell’albo degli enti d’interesse collettivo istituzionalmente riconosciuti dallo Stato per farne delle persone giuridiche”: così si esprimeva Giuseppe Di Vittorio in qualità di deputato della Costituente.

Infatti, il modello costituzionale di contrattazione collettiva punta all’unicità del negoziatore in nome e per conto delle categorie e affida la soluzione dei dissensi che si manifestassero tra gli agenti sindacali durante le trattative alle maggioranze che si formano all’interno della delegazione trattante: la “rappresentanza sindacale unitaria”. Predeterminata in modo vincolante, quest’ultima si autogoverna sulla base di regole che ne fanno un “mini-parlamento” dove i sindacati registrati contano in proporzione al quantum accertato della rispettiva rappresentatività.

Viceversa, il modello instaurato di fatto si fonda sul principio del mutuo riconoscimento che gode tuttora ottima salute, come testimonia l’ampia diffusione della pirateria contrattuale praticata da organizzazioni padronali e sindacali senza decorosi pedigree. In forza di tale principio gli agenti contrattuali si scelgono reciprocamente. Il principio, che presuppone una condizione di libertà d’azione sconfinante nella discrezionalità, è coessenziale alla privatizzazione delle regole del gioco sindacale e anzi costituisce la vera riserva aurea custodita nel caveau della banca che sponsorizzò il solo diritto sindacale possibile.

Stando così le cose, s’intuisce facilmente che il principio del mutuo riconoscimento può produrre sul terreno delle relazioni industriali effetti penalizzanti paragonabili a quelli prodotti sul versante governativo dalla conventio ad excludendum. Effetti che – nella Fiat all’epoca di Sergio Marchionne – la Corte costituzionale avrebbe giustamente equiparato ad “una forma impropria di sanzione del dissenso che incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato” e, al tempo stesso, sulla libertà dei lavoratori di scegliere la rappresentanza che vogliono.

Inoltre, si comprende perché la Cisl abbia legato la propria identità all’intransigente difesa della libertà sindacale contro le ingerenze del potere pubblico e perché ne fosse tanto gelosa da vederla minacciata anche dal test di democraticità cui i sindacati devono sottoporre i propri statuti per essere registrati.

Infine, si comprende perché, con tutto il protagonismo legislativo cui rinvia, il mosaico composto dalle disposizioni costituzionali che riflette la cultura sindacale dei padri costituenti finisca per riecheggiare, per soggetti sociali traumatizzati dall’esperienza dello Stato padre-padrone, la legificazione cingolata del periodo fascista e la Cisl ne facesse oggetto di denuncia.

La sua polemica non era del tutto strumentale. E’ innegabile che nel codice genetico del sindacato immaginato dai costituenti è impressa la bipolarità che ne fa un soggetto con l’incarico di rappresentare gli iscritti in base agli ordinari meccanismi previsti dal diritto civile e, contemporaneamente, con una vocazione più inclusiva che volontaristico-associativa. “E’ un libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato”, diceva Vittorio Foa, “e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato” in quanto esercita una funzione para-legislativa. Sabino Cassese dirà che “è un’organizzazione ausiliaria dello Stato”.

Ciononostante, come rilevavo poc’anzi, la quota di potere decisionale spettante al sindacato all’interno dell’organismo unitario di negoziazione è proporzionata alla sua consistenza associativa. Il che significa che la fonte del potere negoziale risiede nella membership anche quando il sindacato dispone degli interessi dei senza-tessera in luogo del legislatore per assicurare alla generalità dei lavoratori, a prescindere da qualsiasi mandato associativo, trattamenti uniformi e inderogabili. Ne consegue che, non diversamente dal sindacato, il contratto collettivo ha natura duale e, analogamente a quello operante nel periodo corporativo, è un ibrido che ha l’aspetto del contratto e l’anima della legge.

Nel frattempo, però, è sopravvenuta una sostanziale differenza, che chiarisce come i padri costituenti non volessero buttare via l’acqua sporca col bambino dentro. L’ha introdotta il comma 3 dell’art. 39 imponendo al sindacato l’obbligo di darsi “un ordinamento interno a base democratica”, se vuole ottenere la registrazione ai fini dell’erga omnes – un obbligo, questo, che non ha riscontro nell’intera tipologia dei corpi intermedi, inclusi i partiti politici .

La democratizzazione del sindacato-associazione è obbligata perché, nei confronti del quivis de popuno non affiliato o dissenziente, il firmatario del contratto collettivo obbligatorio anche per lui si atteggia inevitabilmente come un’istituzione burocratica che agisce coi poteri vincolanti di un’autorità normativa.

Si dirà che, nonostante la disapplicazione dell’art. 39, il sindacato del dopo-costituzione si propone di contrattare per tutti e difatti ha l’abitudine, in sé lodevole, di rivolgersi alla generalità dei lavoratori coinvolti nelle vertenze chiuse o da chiudere con accordi. Magari, come accade di frequente, “saltando gli iscritti”: il che, commentava con un filo d’ironia Aris Accornero, “è soltanto un mezzo più comodo e un passaggio in meno”. Ancora più pertinente, però, è constatare che a questa prassi non si accompagna la verificabilità del diritto domestico. A voler dare retta ad un fine conoscitore dell’evoluzione statutaria in Cgil quale è stato Angelo Di Gioia, è un diritto che si compone di regole ricavabili più da uno “statuto-ombra” che da quello ufficiale. Anche per questo, anticipando quanto dirò a mo’ di conclusione, è temerario aspettarsi che l’effettività della democrazia interna sia esclusivamente cura e premura degli associati.

L’insistenza con cui la Cisl sottolineava l’incompatibilità dell’integrazione del sindacato nell’ordinamento giuridico statuale con la libertà che gli è costituzionalmente garantita non poteva non creare disagio alla Cgil. E ciò non solo perché la rivendicazione era sostenuta da ragioni che non potevano lasciarla del tutto indifferente, ma anche perché Giuseppe Di Vittorio in qualità di segretario generale della Confederazione qualcosa aveva da rimproverare a Giuseppe Di Vittorio deputato della Costituente che tutti considerano il padre putativo dell’art. 39.  In tutta onestà avrebbe potuto ammettere che la seconda parte dell’art. 39 non va oltre un disinvolto annuncio del tipo “armiamoci e partite”. Invece, proprio questo è il messaggio trasmesso dalla disposizione (il comma 3) che subordina la registrazione del sindacato al controllo di democraticità dello statuto.

Infatti, posto che l’omologazione alla legge di un contratto tra privati è indiscutibilmente un privilegio oneroso, essa  non può non implicare un costo; un costo che bisognerà precisare per attuare l’art. 39. Per certo, quest’ultimo non consente al sindacato di sommare ai vantaggi di cui gode come “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato” i vantaggi di cui si appropria come “soggetto di una funzione pubblica”. E ciò per due eccellenti motivi.

Primo: per quanto si voglia valorizzare la dimensione privato-sociale, essa non può comportare l’azzeramento della dimensione pubblico-statuale del sindacato. Ed è vero anche l’inverso. Ma la ricerca di un’equilibrata coesistenza di entrambe le componenti è eminentemente una questione di misura; di compatibilità coi principi fondativi della dmocrazia associativa: armiamoci e partite”, appunto. La questione appare complicata anche perché finora ci si è occupati moltissimo di quel che il sindacato fa. Pochissimo di quel che è. Infatti, chiunque decidesse di colmare la lacuna che affligge la letteratura giuridica e sociologica dovrebbe avere il garbo di Massimo Troisi e premettere educatamente: “scusate il ritardo”. Un ritardo che, poco prima di lasciarci per sempre, Gaetano Vardaro censurò dettando un bellissimo intervento per la rubrica-forum di Lavoro e diritto nel 1988. Sarà veramente “saggio”, scrisse, il giuslavorista che saprà persuadere la comunità scientifica e gli attori sociali che il diritto sindacale è destinato a misurarsi più coi problemi attinenti agli aspetti interni dell’organizzazione sindacale che con “quelli inerenti alla sfera dell’attività esterna”.

Il solo dato certo è che il comma 3 del’art. 39, se non va enfatizzato, nemmeno può essere trascurato al punto di non percepirne il non-detto: tutt’altro che un dettaglio; e. ove lo si considerasse tale, bisognerebbe sospettare che questo è uno dei casi in cui è proprio vero che nel dettaglio si nasconde il diavolo. Infatti, né l’interesse dell’associato né l’interesse dello Stato ad una gestione del sindacato ispirata a principi e criteri di democraticità è protetto dalla mera enunciazione dei medesimi. Entrambi sono lesi anche e soprattutto nell’ipotesi in cui l’autorità normativa del soggetto semi- privato al quale lo Stato devolve uno dei suoi compiti principali cessa di basarsi sul consenso democraticamente espresso e si corrompe di fatto in autorità-autoritaria.

A rigore, pertanto, per assicurare l’effettività della tutela dell’interesse sia dell’associato che dei terzi estranei e dunque anche dello Stato se ne dovrebbe invocare la giustiziabilità in sede giurisdizionale. In proposito, non si può non concordare con Francesco Galgano. A suo avviso, sarebbe una stravaganza che il medesimo Stato cui “l’art. 2 cost. assegna la funzione di garante dei diritti del cittadino in ogni formazione sociale della quale sia membro” concedesse l’immunità al sindacato, ossia ad una formazione sociale di centrale rilievo. Vero è che non c’è sindacato che non disponga di una giurisdizione domestica; ma è altrettanto vero che poco o nulla si sa della sua vitalità e che gli ordinari repertori giurisprudenziali sono pressoché muti in ordine alle controversie endo-associative.                                           Domanda inquietante: è vera democrazia una democrazia a-conflittuale?

Secondo: al di là delle intenzioni, l’art. 39 è legato all’art. 40 nel senso che formano una coppia di inseparabili i cui destini sono incrociati. Dopotutto, per quanto inespresso, sussiste un rapporto di corrispettività tra contratto collettivo erga omnes e conflitto. Un rapporto che sa di scambio politico. Come dire: se l’art. 39 riconosce la legittimità dell’esternalizzazione (dallo Stato a privati) della funzione di regolare l’area dei rapporti di lavoro, l’art. 40 non riconosce l’illimitata libertà dell’esercizio del diritto di sciopero. Non può anche perché lo sciopero parlava sinistramente ad un personale politico abituato ad una normativa che criminalizzava il conflitto sindacale. Sintomatica è la durezza  del più organico disegno di legge sindacale presentato nel 1951: lo sciopero può essere proclamato solo da sindacati riconosciuti dallo Stato, solo a contratto collettivo scaduto e solo per modificarne le clausole.                                           Per quanto sensibilmente attenuato, il sotterraneo legame riaffiora nel Testo Unico sulla rappresentanza sindacale visibilmente elaborato tenendo presente il dato costituzionale.

La performance progettuale delle parti sociali è riassumibile nella previsione delle modalità atte a conferire ai contratti collettivi l’efficacia erga omnes a condizione di migliorare la governabilità della fase di amministrazione dei medesimi. Dove governabilità sta per esigibilità degli obblighi contrattuali e l’esigibilità postula la solvibilità del sindacato come mallevadore della pace sociale in azienda; una pace che è tenuto ad assicurare adempiendo il dovere di influenzare intere collettività.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.

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