Un Primo Maggio di diseguaglianza

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Nella società complessa sono più complessi anche i conflitti e, tra questi, quelli in tema di lavoro ed eguaglianza. E anche qui risalta la diseguaglianza tra Nord e Sud del Paese.

° maggio 2020, festa del lavoro! Il periodo che viviamo non permette allegre riflessioni e festeggiamenti. S’inizia con un’utile precisazione linguistica: pochi hanno capito che “distanziamento sociale” e “distanziamento fisico” sono cose diverse. Il secondo è una necessità (speriamo transitoria) per evitare il contagio da vicinanza fisica tra persone. Su di esso che dire se non raccomandarne attenzione e rispetto? Invece distanziamento sociale evoca “diseguaglianza sociale”.

In questo senso, del Covid-19, esso sarà un effetto grave. Sono tante le diseguaglianze della nostra società, figuriamoci quelle della società post-pandemica. Persone che perdono il lavoro; lavoratori inattivi benché cassintegrati; piccoli imprenditori, commercianti e artigiani ridotti alla fame dopo il fermo dell’attività; lavoratori autonomi, partite Iva e professionisti bloccati perché facenti parte dell’indotto, per esempio, di centri culturali, d’arte e spettacolo . E’ vero, tutti dovrebbero essere aiutati dallo Stato, ma sarà davvero possibile neutralizzare con adeguate misure energiche il danno oggettivo che diseguaglianze e povertà arrecheranno alla convivenza civile? Come si fa allora a celebrare oggi il 1° maggio come “festa del lavoro”, col rischio di trasformarla nella “Giornata della diseguaglianza sociale”?

Si sa che la Costituzione, fondando sul lavoro (in ogni forma) la Repubblica democratica, è intrisa del “principio di eguaglianza”, perché è appunto il lavoro lo strumento essenziale della dignità e dell’ eguaglianza delle persone. Nell’art. 3 della Carta c’è la trama di quasi tutte le disposizioni costituzionali. Questa norma garantisce anzitutto (al co.1) l’eguaglianza formale, di derivazione liberale: tutti i cittadini sono eguali senza discriminazioni di sorta. Ma molto più importante è il comma 2: impone alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese”.

Qui la norma disegna un paradigma di società tra utopia e realtà: se è vero che nella società capitalistica un’eguaglianza sostanziale è difficile da raggiungere in pratica, è assai probabile che essa sia irrealizzabile in qualsiasi tipo di società umana. Tuttavia, letta alla luce del catastrofico contesto attuale, questa norma, raccordata a molte altre, offre spunti e suggerimenti non trascurabili per la cosiddetta “ripartenza” dell’economia italiana. Che dipende non solo dagli aiuti dell’Europa e dalle politiche di finanza pubblica del Governo, ma soprattutto da uno sforzo congiunto del mondo dei produttori (imprenditori e lavoratori).

a tragica esperienza del Coronavirus allora va sfruttata anche in positivo, approfittando delle aperture mentali che 
l’emergenza impone all’impresa e al lavoro. Non si tratta di negare l’immanente conflitto tra imprenditori e lavoratori (e tra le organizzazioni rappresentative dei contrapposti interessi), ma fermarsi ora al conflitto tradizionale è troppo semplice ed è inutile. Nella società complessa sono più complessi anche i conflitti e, tra questi, quelli in tema di lavoro ed eguaglianza. Tanto da suggerire alle istituzioni della Repubblica una rilettura di varie altre disposizioni costituzionali. Per prima l’art. 4: dove non solo “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, ma soprattutto “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Condizioni che storicamente mutano e costringono a inventare nuovi modi di atteggiarsi dei vari soggetti in conflitto, basati su una “partecipazione”, che può anche essere “conflittuale”, ma non può che mirare all’unico obiettivo della rinascita produttiva del Paese.

a pandemia, nella sua tragicità, offre spunti non marginali, da un lato, a ripensare l’organizzazione produttiva e, da un
altro lato, a rivedere la struttura sia della domanda sia dell’offerta di lavoro. Naturalmente anche qui risalta la diseguaglianza tra Nord e Sud del Paese. Il Nord più industrializzato e il Sud più terziarizzato. Per rimettere in piedi il Paese occorreranno enorme impegno e straordinarie competenze: anzitutto delle Istituzioni governative (centrali e locali), ma pure delle forze sociali a tutti i livelli. Ma occorre anzitutto una visione e una programmazione coerente, le cui fondamenta vanno poste in frequenti incontri di concertazione sociale.

’attuale pandemia certamente ha fatto molti danni, ma ha pure fatto scoprire nuovi modelli organizzativi: dal lavoro a distanza alla distribuzione degli orari, dalla necessità di migliorare la sicurezza sul lavoro all’incremento dei Centri per l’impiego; dalla revisione e unificazione degli ammortizzatori sociali alle semplificazioni burocratiche; dalla necessità di riconversioni industriali ai modi di combattere lavoro nero ed evasione fiscale; dall’importanza d’incrementare le strutture sanitarie e scolastiche alla nuova formazione professionale. Che riguarda l’offerta di lavoro, da rivedere indirizzando le competenze e la vocazione dei giovani verso discipline che corrispondono alla domanda di lavoro, coerente con la nuova struttura produttiva, specie nel campo dell’informatica. Un impegno straordinario, non so quanto compreso dalle litigiose forze politiche. Ma oggi è l’unica idea meno triste per “festeggiare” il 1° maggio.

{Articolo compaso sul Corriere del Mezzogiorno, il 1° maggio 2020]

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.

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