Un patto suicida

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Il Patto Renzi-Berlusconi sulla riforma elettorale altera radicalmente l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione, e mette in discussione il normale funzionamento di un regime democratico.

In politica il metodo è spesso sostanza, com’è per la diplomazia nei rapporti internazionali. La scelta di Renzi di trattare direttamente con Berlusconi ha infuocato il dibattito e provocate lacerazioni nel Partito democratico.d, fino alle dimissioni di Cuperlo dal ruolo di presidente del partito. Il metodo è oggetto di pareri contrastanti: alcuni lo giudicano avventato e sbagliato, altri coraggioso e condivisibile. L'argomento di Renzi, nuovo segretario del partito,.è che il PD ha sempre sostenuto  che le riforme di carattere costituzionale devono coinvolgere anche i partiti di opposizione, e per, l’appunto, la rinata Forza Italia è il maggiore partito di opposizione e Berlusconi ne è il leader incontrastato.

E’ su questa base che Renzi difende il suo operato. L’aspetto più paradossale della vicenda si verificherà, tuttavia, nel breve giro di qualche mese, quando i nodi più delicati e controversi delle riforme costituzionali entreranno nel vivo del dibattito parlamentare. A quel punto, Berlusconi sarà stato assegnato a qualche forma di servizi sociali, se non consegnato agli arresti domiciliari, e il segretario del Pd sarà costretto a rendere visita al condannato, previa autorizzazione del magistrato di sorveglianza, nella sua residenza di Arcore o di via del Plebiscito, se non, forse, presso la comunità di Don Picchi.
 
Ma per quanto si possa discettare sull’opportunità del metodo, nel caso del patto Renzi-Berlusconi vi è una sostanza più profonda che il dibattito sul metodo rischia di oscurare. Una parte della stampa, dei costituzionalisti e dei politologi elogia la proposta di riforma elettorale per la sua idoneità a realizzare l’obiettivo della governabilità. Questo risultato è certamente realizzato dalla proposta di riforma con un abnorme premio di maggioranza che trasforma in una maggioranza assoluta un partito la cui rappresentatività non supererebbe un quarto del popolo elettore, considerato l’alto livello di astensione.

Ma, posto che la riforma è in grado di garantire la governabilità la domanda è se essa garantisca un normale regime democratico, secondo la tradizione delle democrazie che conosciamo in  occidente.

Sappiamo che la democrazia è un regime complesso e fragile, nel quale l’apparenza può mascherare la realtà. Non basta che periodicamente si celebrino comizi elettorali. Questo avviene anche nei paesi delle primavere arabe, come di recente abbiamo visto in Egitto col ritorno dei militari.

Dall’Esprit  des lois di Montesquieu in avanti, il concetto di democrazia è connotato dal principio inequivocabile della separazione dei poteri. Questo principio, e non il semplice rituale del voto, è il criterio che definisce il grado di democraticità di un regime. Le forme della divisione dei poteri possono presentare delle varianti, ma non può esserne vanificato il principio fondamentale, senza che il regime scada nell’autoritarismo più o meno camuffato.

Tre esempi profondamente diversi ma emblematici - gli Stati Uniti, la Francia e la Germania -  possono contribuire a chiarire il senso di ciò che in occidente è un regime democratico.

Nella democrazia americana, dove vige la più antica costituzione ”moderna”, il principio della separazione non solo ne costituì il motivo ispiratore, ma ne è rimasto, nel corso di oltre due secoli,  il paradigma intangibile. Barack Obama è il leader consacrato dal voto popolare e anche il capo di governo più potente dell’occidente. Ma il suo potere trova un limite invalicabile nel potere legislativo e di controllo del Congresso e nell’attività giudiziaria della Corte suprema. Il presidente degli Stati Uniti, pur legittimato dalla maggioranza del voto popolare, non ha la garanzia di una maggioranza di partito omogenea nei due rami del Congresso, potendo uno dei due, o addirittura, entrambi essere sotto il dominio del partito che non ha eletto il presidente. Obama, ormai al sesto anno di presidenza, dopo essere stato eletto con il secondo mandato, ha avuto la maggioranza dei due rami del Congresso solo nel primo biennio. Si può esercitare, non senza ragioni,  ogni forma di critica nei confronti della politica americana, ma è innegabile che il carattere sacrale della separazione dei poteri è il sale della bisecolare democrazia americana.

Se guardiamo all’Europa, troviamo in Francia il più alto grado di concentrazione del potere nel semipresidenzialismo della V Repubblica, inaugurata dal generale de Gaulle in condizioni storiche eccezionali, nel pieno della guerra di Algeria. Ma anche in questo caso, per la diversità della procedura e la dislocazione temporale delle elezioni, non sussiste alcuna garanzia di omogeneità fra la maggioranza del voto popolare che elegge il presidente della Repubblica e la rappresentanza parlamentare. Una distinzione che ha dato luogo al fenomeno della “coabitazione” fra due maggioranze diverse, l’una rappresentata dal presidente della Repubblica, l’altra dalla maggioranza parlamentare del  partito avverso che elegge il capo del governo – così come  si è verificato sotto le presidenze di Mitterand e di Chirac.

Ma il semipresidenzialismo francese è rimasto un caso isolato in Europa occidentale, mentre l’esempio più classico e limpido è quello della Germania, dove la governabilità è garantita dalla soglia di accesso del cinque per cento che impedisce la frammentazione della rappresentanza, il cui rischio non si voleva più correre dopo la catastrofe della Repubblica di Weimar. Il vantaggio evidente è, in questo caso, quello di associare governabilità e rappresentanza, rimanendo escluse con una soglia ragionevole, solo le formazioni considerate sprovviste di un significativo consenso popolare. 

Non a caso, abbiamo visto nelle recenti elezioni la cancelliera Angela Merkel conquistare il 42 per cento dei voti e il 49 per cento dei seggi e, tuttavia, costretta a comporre una maggioranza di governo con la SPD in una rinnovata “Grande coalizione”. La quale, peraltro, non era l’unica soluzione, dal momento che i socialdemocratici,  se avessero voluto, avrebbe potuto in alternativa formare il governo con i Verdi e la Linke, nata da una costola della sinistra.

Il modello tedesco, grosso modo, perfetto per la la capacità di combinare il principio della rappresentanza con quello della governabilità è stato periodicamente proposto nel dibattito italiano e, in particolare, dal Pd, ma poi se n’è perduta la traccia senza una plausibile spiegazione, inclinando verso un sistema bipartitico di tradizione anglosassone completamente estraneo alla storia politica italiana.

Il sistema proposto dal patto Renzi-Berlusconi non somiglia a nessuno degli esempi citati, così come non è paragonabile a quello spagnolo, dove non esiste un premio di maggioranza, escluso quello implicito nei collegi elettorali di dimensione ridotta. Nel caso del c.d.Italicum, si tratta, in effetti, di un modello che viola il principio fondamentale della separazione dei poteri, crea maggioranze assolute arbitrarie alle quali è conferito un abnorme potere di controllo sulle principali istituzioni che regolano la dialettica della vita democratica.

E’ chiaro che la riforma è una lacerazione dei principi fondativi della democrazia prevista dalla Costituzione, ed è del tutto  plausibile che sia censurabile dalla Corte, come lo è stato il Porcellum , che risulta, almeno per un aspetto, aggravato dalla irragionevole elevatezza della soglia di accesso prevista per i partiti minori.

Così stando le cose, come ci si potrebbe stupire della gioiosa proclamazione di vittoria di Silvio Berlusconi? Sono venti anni che predica questo tipo di riforma . La soddisfazione può essere solo annebbiata dal rimpianto del suo ritardo.  Se la riforma, ora concordata col segretario del Partito democratico, fosse stata realizzata a suo tempo, quando il Popolo della libertà invano la chiedeva,  Berlusconi con maggioranze anche superiori alla soglia del 35 per cento dei voti avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta; avrebbe governato  senza intralci; avrebbe coronato il sogno del Quirinale; avrebbe modificato la composizione della Corte costituzionale, utilizzando il diritto di nomina spettante al Quirinale; avrebbe fatto la “sua” riforma della giustizia. Sarebbe stato perfetto. Un passaggio non traumatico dalla democrazia a un regime autoritario mascherato dall’ossequio a un’edulcorata democrazia del voto.

Si dirà che ora Berlusconi è condannato, interdetto, ineleggibile e ancora passibile di altre condanne, per cui lo si può considerare come Kagemusha del film di Kurosawa, il generale che cavalcava alla testa dell’esercito, ma in realtà era morto, e la figura che spiccava nei suoi paramenti sul cavallo era il suo sosia, inerme. L’esperienza dovrebbe avere insegnato che non è così. In ogni caso, il giudizio sulla riforma va al di là del destino personale e politico di Berlusconi. Cambia nel profondo la struttura della democrazia costituzionale elaborata dai padri fondatori.

Da un punto di vista strettamente politico, le certezze della nuova maggioranza del Pd potrebbero rivelarsi ingenuamente illusorie. Non mettono in conto la spregiudicata capacità di aggregazione del composito universo del centro-destra estraneo a ogni vincolo di coerenza che non sia la acquisizione di potere. Un vasto arco di forze che si estende dalla disarticolazione delle forze centriste e del vecchio Popolo della Libertà fino a ciò che resta della Lega: tutti spezzoni da soli condannati a sparire per l’altezza delle soglie di accesso, ma tutti sufficientemente privi di vincoli ideologici e politici per unirsi a caccia del possibile traguardo di una ridotta maggioranza relativa di voti che consente la conquista di un incredibilmente esteso potere da ripartire a tutti i livelli delle istituzioni.

In ogni caso, anche al di là della vittoria dell’uno o dell’altro schieramento, il punto dirimente è il passaggio di regime verso l’annichilimento del principio fondamentale del bilanciamento dei poteri: il sistema di  "checks and balances", i pesi e contrappesi, che sono il contrassegno dei rapporti fra i poteri istituzionali delle democrazie come le conosciamo in occidente.

(Articolo pubblicato su Eguaganza e Libertà, www.eguaglianzaeliberta.it. )