Bisogna anche dire che non un cenno è mai stato fatto all’altro potente motore della globalizzazione, la completa libertà di movimento dei capitali. Quello sì che sarebbe un segnale forte di una svolta. Ne parlano alcuni economisti critici, ci si spinge a ricordare qualche scritto di Keynes, qualcosa ha timidamente scritto il Fondo monetario, ma il problema è lontanissimo dall’essere preso in reale considerazione. Lo stesso per la completa libertà di movimento delle imprese.
E allora, forse, questo accenno di guerra dei dazi può essere visto in un’altra ottica, diversa dall’dea che si voglia fermare la globalizzazione.
I paesi verso cui si rivolge l’ira di Trump sono ovviamente quelli verso cui è maggiore lo sbilancio del saldo commerciale Usa, ossia Cina e Unione europea (ma di fatto essenzialmente Germania, a cui fa capo quasi tutto il surplus commerciale dell’Ue). In entrambi i casi si può parlare di ritorsioni contro pratiche di dumping, cioè di concorrenza sleale. Per la Cina non c’è neanche bisogno di stare troppo a motivarlo. Condizioni del lavoro, sia salariali che normative, poca o nulla attenzione ai problemi ambientali, aiuti di Stato quando si tratta di andare alla conquista di mercati, manipolazione del cambio e chi più ne ha più ne metta. Per la Germania il discorso è più complesso. Intanto per il livello di eccellenza dei suoi prodotti e il loro contenuto tecnologico, che certo costituiscono la base del successo. Ma a questo si aggiunge l’enorme vantaggio della moneta unica, che impedisce la rivalutazione che avrebbe avuto il marco con quel livello di export e quell’afflusso di capitali. Inoltre Berlino si è costruita un mercato del lavoro a più livelli. Il primo è quello dei dipendenti dell’industria manifatturiera, con salari relativamente alti nel confronto internazionale, nonostante il ferreo controllo sul loro andamento e il blocco rispetto alla crescita della produttività nei primi anni del secolo che è stato la chiave del grande rilancio dell’export; poi c’è il terziario, settore dove imperano flessibilità e bassi salari; segue il mondo dei mini e midi-job, con paghe che sarebbero sotto il livello di sopravvivenza se non fossero integrate da aiuti pubblici (essenzialmente per affitti e utenze), che “pesa” per quasi un quarto degli occupati; infine il vasto serbatoio costituito con l’allargamento e est dell’Unione, a cui riservare le lavorazioni a più basso valore aggiunto. Un sistema che abbassa il costo medio complessivo del lavoro, mentre il cambio viene tenuto a bada dalla partecipazione alla moneta unica.
Globalizzazione fa rima con delocalizzazione. Le multinazionali hanno spostato gran parte della produzione nei paesi dove il lavoro costava meno, ma soprattutto non c’erano vincoli normativi – per il lavoro, la sicurezza, l’inquinamento – né fastidiosi sindacati. Chi avesse dei dubbi può ascoltare una recente - e agghiacciante – puntata di Report, dove uno degli imprenditori (italiano) di un’azienda in Tunisia racconta con un certo orgoglio che c’era uno che voleva far entrare il sindacato in fabbrica, ma gli hanno spezzato una gamba e nessuno ci ha provato più. Che nelle lavorazioni vengono usati prodotti tossici e procedure vietate a livello internazionale, cosa che i committenti – grandi marchi della moda – sostengono di non sapere. E piacevolezze del genere.
Le grandi multinazionali americane sono state tra le prime a usare massicciamente la delocalizzazione, specialmente in Cina. I loro profitti ne hanno certo beneficiato, ma non altrettanto la bilancia commerciale del paese. Trump ha dichiarato di voler riportare la produzione negli Usa, ma, a parte qualche caso di valore dimostrativo, è poco credibile non solo che riesca, ma anche che voglia davvero ottenere un risultato del genere. Trump contro tutti i giganti dell’economia Usa? Poco credibile davvero.
Ed ecco allora l’arma dei dazi. Che non hanno l’intenzione di colpire le importazioni dalla Cina, ma piuttosto quella di spingere la Cina – per evitarli – a comprare prodotti americani. Così le multinazionali potranno continuare a produrre in Cina, la bilancia commerciale si riequilibrerà e i produttori americani avranno più clienti. Tutti contenti e pace fatta.
Ma Trump ha sfoderato anche un’altra arma, di cui si parla meno perché comprenderne le implicazioni è tecnicamente molto complesso. Nella riforma fiscale, spiegano gli esperti, ci sono alcune norme che penalizzeranno le multinazionali Usa che non riportano in patria i profitti. Lo scopo è duplice. Evitare l’elusione fiscale di chi utilizza basi in paesi compiacenti, come l’Irlanda, il Lussemburgo e paradisi vari. Ma soprattutto riprendere il controllo politico di questi giganti dell’economia, le cui mosse devono tornare a integrarsi con la politica di potenza degli States, coordinarsi con le scelte di politica estera. Non è solo con le armi che si deve “make America great again”.
E la Germania? La guerra di Trump è chiaramente contro la Cina, la Germania è un obiettivo secondario. Ma se la Cina dovrà comprare di più in America, presumibilmente comprerà di meno nell’Unione europea. Per esempio, invece di acquistare Airbus europei sceglierà gli americani Boeing, e così via. E poi, i grandi produttori di auto tedeschi sono già andati in pellegrinaggio in Usa, a trattare: in quel caso non è da escludere uno spostamento negli States della produzione destinata a quel mercato, dato che non ci sarebbe gran differenza (anzi) di costo del lavoro e di normative. Non sarebbe indolore per i tedeschi, che perderebbero posti di lavoro in patria, ma quando la controparte è più grande e più forte non si possono fare orecchie da mercante come quando le lamentele vengono da qualche fastidioso partner europeo. Speriamo che non inventino qualche marchingegno per scaricare su di noi gli eventuali effetti negativi