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La lontananza dell’evoluzione del diritto sindacale e del lavoro dalla costituzione ha largamente favorito il formarsi dell’opinione che la contrazione dell’economia si traduce automaticamente in una contrazione dei diritti.
In un precedente articolo ho raccontato che, dapprincipio, l’affermarsi nell’area del lavoro dipendente di una cultura che privilegia la dimensione privatistica, patrimoniale e mercatistica degli interessi in gioco si accompagnava alla percezione che fosse la maniera più semplice ed efficace per far capire a tutti che l’epoca dello Stato padre-padrone del sindacato era finita sul serio. Una maniera da preferire a quella, meno lineare e più rischiosa, tratteggiata nel documento costituzionale (art. 39).
Tuttavia, se nemmeno una necessità storica può precludere una valutazione critica delle sue conseguenze, figurarsi un calcolo di convenienza, per ragionevole che sia stato. Infatti, s’infittiscono i segnali da cui è dato desumere che la lontananza dell’evoluzione del diritto sindacale e del lavoro dalla costituzione ha largamente favorito il formarsi dell’opinione che la contrazione dell’economia si traduce automaticamente in una contrazione dei diritti. Stando così le cose, i sindacati dovrebbero a questo punto comportarsi come il figliol prodigo che torna dal padre per confessargli i danni che ha causato alle stesse idee di progresso per seguire le quali se ne era andato di casa.
Non si può non essere d’accordo con Stefano Rodotà quando ammonisce che “quello che intercorre tra il giorno dell’approvazione della costituzione ed il giorno della sua attuazione non è un periodo che possa essere ignorato, quasi fosse una parentesi chiusa la quale si torna alla purezza delle origini”. Ciò non toglie che le devastazioni provocate dalla c.d. contrattazione separata rendono manifesto che l’egemonia di una cultura mono-disciplinare ha impoverito la libertà sindacale costituzionalmente protetta. Vero è che la compresenza di contratti collettivi plurimi (nel senso di: stipulati da sindacati in concorrenza tra loro e applicabili ai soli iscritti) ne rappresenta un logico corollario. Tuttavia, il sindacato “degli iscritti” non è la stessa cosa che sindacato “dei lavoratori” in quanto tali.
Entrato in scena tardi, in seguito alla rottura della Cgil del dopo-Liberazione, è rimasto ai margini di una storia caratterizzata dall’unità d’azione tra organizzazioni che si riconoscevano nel principio per cui a parità di lavoro deve corrispondere parità di retribuzione e di diritti, a prescindere dal legame di appartenenza associativa. E’ un principio nel quale non hanno smesso di riconoscersi. Diversamente, il 28 giugno 2011 non avrebbero riaffermato il ruolo della contrattazione nazionale proprio in una fase in cui il vento gonfia le vele della contrattazione aziendale con inusitata violenza. Malgrado le sue contraddittorietà, infatti, l’intesa interconfederale testimonia che la sindrome del sindacato a contrattare per tutti appartiene più alla storia che all’ideologia. Lo pensavano anche i padri costituenti che demandarono al legislatore ordinario il compito di attivare i meccanismi capaci di conferire al contratto nazionale di categoria un’efficacia para- legislativa che, congiuntamente al requisito dell’inderogabilità, lo trasferisce in una dimensione normativa in bilico tra privato-sociale e pubblico-statuale.
“La bipolarità del sindacato come libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, al tempo stesso, come soggetto di una funzione pubblica”, ha scritto Vittorio Foa, “è presente nella stessa costituzione”. E non solo lì. Essa trova riscontri anche nella legislazione dell’Italia repubblicana. Da un lato, infatti, c’è l’art. 19 dello statuto che, nell’attribuire ai lavoratori in quanto tali l’iniziativa di istituire le rappresentanze sindacali aziendali, in linea di principio non si propone di premiare il sindacato degli iscritti. Dall’altro, c’è la legislazione della seconda metà degli anni ’90 che ha disegnato l’identikit del sindacato dei lavoratori. Al riguardo, è d’obbligo dare la parola a Massimo D’Antona, secondo il quale “il nocciolo duro dell’art. 39 cost.”, come scriveva nel saggio che era ancora in bozze quando fu ucciso dalle Br, “trova nella riforma della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni il passaggio verso una nuova stagione della legislazione sindacale post-costituzionale”, perché contiene tutti gli elementi di cui c’è bisogno per sapere “chi rappresenta chi”, come si accerta la legittimazione a firmare contratti collettivi e quale sia la loro efficacia.
Come dire che, malgrado l’impressionante numero di chiodi che sigillano la bara in cui era stato deposto e giaceva, il progetto costituzionale cui si richiama la legge che ha contrattualizzato la disciplina del pubblico impiego ha le caratteristiche di una stella morta da cui continua ad arrivare la luce. Insomma, la sua inattuazione non lo ha reso meno attuale. Casomai, contribuisce a spiegare perché le direttrici dell’esperienza applicativa dello statuto dei lavoratori abbiano determinato uno sviluppo diseguale delle linee di politica del diritto che vi coabitavano e lo statuto come legge di cittadinanza dei sindacati in azienda abbia assunto fin dall’inizio un rilievo preminente sullo statuto come legge di cittadinanza dei singoli nei luoghi di lavoro.
Infatti, lo stesso statuto che si preoccupa di fissare le garanzie dei rappresentanti sindacali di fronte al potere dell’impresa si astiene dal definirne la posizione di fronte ai rappresentati, implicitamente (ma non oscuramente) esonerando i primi da verifiche del consenso dei secondi che, anzi, sono come incoraggiati alla passività nei loro confronti. Anche per questo, l’aporia legislativa è rimasta intatta. Anzi, incuranti del deficit di democrazia che essa scavava, i sindacati hanno deciso di avvalersene in un’ottica autoreferenziale che ne fa dei tutori piuttosto che degli incaricati di agire in nome e per conto di cittadini adulti ed emancipati pleno iure. Il fatto è che, vedendo nel lavoratore soprattutto o soltanto un produttore subalterno, il sindacato sottovaluta che la diseguaglianza in senso verticale tra chi vende e compra lavoro contro la quale ha speso finora le sue migliori energie non è la madre di tutte le diseguaglianze. Esistono, e sono un’infinità, anche le diseguaglianze in senso orizzontale che, estranee alla visione classicamente antagonista dei rapporti di produzione, sono tuttavia radicate nel profondo del mondo del lavoro.
Nell’ottobre del 1971, Gino Giugni ebbe a dire: “ci sono due modi d’intendere lo statuto: come dato collegato a una precisa scelta effettuata nel 1969-70 o come base di partenza per costruire su di essa soluzioni ancora più nuove. Sono due modi, però, che non sono in contrasto l’uno con l’altro. Si tratta di farli interagire”. In realtà, concedendo al lavoratore più di ciò che il contratto
– un contratto di scambio tra utilità economiche – di per sé può dargli, lo statuto rovesciò la tendenza dominante che faceva dello stato occupazionale e professionale acquisibile per contratto il prius e dello status di cittadinanza il posterius. Il che permette di elaborare una concezione della disciplina del rapporto di lavoro non più appiattita sulla regolazione d’impianto privato- contrattuale di un rapporto di mercato.
Accreditando “la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore”, come se “la condizione di cittadino derivasse da quella di lavoratore” (U. Beck), quella tendenza era figlia di un’eresia giuridica che seduceva tutti e ha contaminato persino l’esercizio del potere del sindacato sui suoi rappresentati. Che non sono soltanto dei venditori della forza lavoro. Dopotutto, il lavoro non bussò alla porta della storia giuridica esclusivamente per essere catturato nelle categorie logico-concettuali del diritto dei contratti tra privati: questa non era che lo stadio iniziale di un’evoluzione lontana dal suo sbocco conclusivo. Una sistemazione provvisoria. Che invece è diventata definitiva. Anche per il sindacato?