Sul terzo anno di guerra

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La grande stampa ha versato fiumi di inchiostro per avvalorare una tesi monolitica, ovvero che  Vladimir Putin, è un tiranno spietato, che si è scatenato contro un paese libero, democratico per mera sete di conquista.

E’ appena iniziato anche il terzo anno di una sanguinosissima guerra tra ucraini e russi, che ha visto un paese di oltre 40.000.000 di abitanti cadere in rovina, con milioni di displaced persons e 6.500.000 emigrati fuori dai confini nazionali.
Dalle nostre parti, la grande stampa main stream, invece di fiumi di sangue – molto, molto meglio! – ha versato fiumi di inchiostro per dimostrare e avvalorare una tesi monolitica, ovvero che il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, è un brigante, un assassino, un tiranno spietato, che si è scatenato contro un paese libero, democratico e innocuo per mera sete di conquista.

Come sempre è accaduto in circostanze analoghe, la propaganda ha avuto la meglio sull’analisi approfondita storico-politica di un conflitto che poteva essere evitato e comunque fermato entro i primi mesi di guerra – chiedere a Boris Johnson, alias Winston Churchill in formato tascabile.

L’argomento l’ho già trattato qui in diverse occasioni. Lo riprendo adesso perché a me pare che quanto sostenuto allora abbia ancora validità e concretezza e che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca potrebbe essere – forse malgré lui - un evento decisivo per porre fine alle ostilità[1].

Prendiamola alla larga. Pare ormai inconfutabile l’inconsistenza della “fine della storia” di fukuyamica memoria, con un mondo monopolare, governato dalla liberal-democrazia e dal mercato, libero ormai dai lacciuoli della politica e destinato a incamminarsi sulla strada di un progresso senza più aggettivi.

A più di una generazione di distanza dalla caduta del Muro, la realtà globale è ben diversa. La potenza monopolare si è dimostrata non in grado di esercitare efficacemente l’imperium - vedi l’ignominiosa conclusione della campagna in Afghanistan, ma anche lo scacco delle cosiddette “primavere arabe”, che hanno lasciato dietro sé solo macerie e sangue.
E se l’egemonia della forza militare mostra crepe, quella culturale è addirittura sull’orlo del collasso.

Guardando la carta politica della Terra, si coglie con chiarezza l’isolamento e la minorità di quello che continuiamo a chiamare “l’Occidente”. L’assenza della politica e dalla politica (tassi record di astensionismo dal voto, il rito primario delle democrazie liberali) sta dando i suoi frutti maturi, con il libero dispiegamento degli “spiriti animali”, l’abnorme crescita del capitale finanziario e di quello legato alle tecnologie della comunicazione, la diffusione del lavoro povero e di un tasso di occupazione che, laddove è in crescita, non è tuttavia in grado comunque di risolvere i problemi del disagio sociale e dell’emarginazione (jobless Recovery).

Tuttavia gli USA restano pur sempre la prima potenza mondiale, che deve contendere il terreno a temibili avversari come la Cina, ma anche – sebbene per ora meno esplicitamente – l’India e il Brasile. Per non parlare dell’Africa, dove la Nigeria e il Sudafrica stanno crescendo esponenzialmente (la prima ha ormai 216.000.000 di abitanti, il secondo 62.000.000).
In questo quadro di debolezze e di pericolosi e non governati attriti nelle zone di faglia (i Balcani, il Vicino e Medio Oriente, l’Africa subsahariana) la guerra tra Russia e Ucraina riveste un ruolo centrale.

Gli USA, padroni assoluti della NATO alla cui testa hanno collocato un bellicosissimo Mark Rutte, avendo assoluta consapevolezza che lo scontro decisivo si giocherà con la Cina nell’Indopacifico, non vogliono lasciarsi alle spalle alleati che possano esercitare un qualsivoglia grado di autonomia e, in casi limite, si dimostrino riottosi agli ordini di Washington.
La UE, ridotta a un inconsistente spettro politico autoreferenziale, rappresenta pur sempre un contesto di circa 450.000.000 di abitanti e con un PIL totale di 17.000 milioni di Euro, pari all’incirca al PIL cinese.

Fino all’uscita di scena di Angela Merkel, nel 2021, sul piano commerciale la UE vantava un enorme surplus nei confronti degli USA (500 mld di Euro di export, contro 300 mld di import). Alle prese con una situazione interna molto complessa e percorsa da profonde linee di frattura sociale, con la crisi della middle class, ma anche dei blue collars a causa di una globalizzazione sgovernata, la reazione non poteva farsi attendere. L’elezione di Donald Trump nel 2016 e nel 2024 ne è il frutto.
Prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino nel 2022, per gli Stati Uniti si affacciava inoltre il grave pericolo di una stabile interrelazione tra materie prime russe (in primis il gas) e capacità tecnologiche e di trasformazione europee: bisognava interrompere quella stabile interrelazione, anche a costo di consegnare la Russia al vero antagonista degli USA in questo inizio di XXI secolo, la Cina

Ed ecco che, lungamente preparata tramite continue provocazioni (vedi l’ultima esercitazione NATO ai confini della Russia, denominata esplicitamente “Anaconda”), è giunta la sciagurata invasione russa delle regioni prevalentemente russofone dell’Ucraina.

Senza alcuna speranza di vittoria – bastava consultare il Calendario Geografico De Agostini per rendersene conto – sono stati mandati allo sbaraglio migliaia e migliaia di giovani ucraini, ai quali, come dice Domenico Quirico, una delle poche voci libere e informate sui fatti, dovremmo tutti chiedere scusa[2]. Scusa per aver creduto – o finto di credere – al “piano della vittoria” di Zelenski, ubiquo postulante di armi e basta.

Come è noto da sempre, se si vuole vincere una guerra bisogna mettere i “boots on the ground”. Mai nessun bombardamento aereo o lancio missilistico, se non atomico, è stato decisivo per le sorti di un conflitto.

Se l’Europa e gli Stati Uniti avessero avuto davvero a cuore la causa ucraina, sulle orme del Churchill autentico, non della sua caricatura johnsoniana, avrebbero dovuto inviare proprie truppe al fronte, per contrastare il tiranno, la “barbarie asiatica.”
Sapendo di non avere dietro di sé le opinioni pubbliche, maggioritariamente sempre contrarie alla guerra, hanno invece preferito “commercializzare” lo scontro, inviando miliardi di armamenti all’Ucraina, rimpinguando così le casse delle proprie industrie degli armamenti e, soprattutto, senza dover contare le bare dei caduti, come al tempo delle guerre – perdute -  del Vietnam e dell’Afghanistan.

Ho parlato prima di “barbarie asiatica”. Qui sta un punto nodale che andrebbe sciolto preliminarmente: la Russia fa parte dell’Asia o dell’Europa? I confini orientali del nostro continente si sono spostati sempre più a est e con lo zar “europeo” Pietro il Grande hanno raggiunto gli Urali e il fiume Ural, chiudendosi tra il Caspio e il mare d’Azov ed escludendo il Caucaso[3].

Charles De Gaulle, infatti, concepiva un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Ma si sa che il suo atteggiamento verso gli Stati Uniti non era proprio amichevole.

Nei nostri quotidiani maggiori si fa invece trapelare l’idea che la Russia resti in buona sostanza un paese “aneuropeo”, una sorta di Halb Asien, “Asia a metà”, come la definiva lo scrittore austriaco Karl Emil Franzos[4], nato nel 1848 a Čortkiv, nell’allora Galizia austro-ungarica, oggi in territorio ucraino. 

Sembra che sia ancora vivo l’atavico terrore per le sconfinate pianure russe, dalle cui profondità sono sorte orde sanguinarie e distruttrici, terrore poi amplificato nel XX secolo dalla “alterità” del modello sovietico, in antitesi con quello liberal-liberista[5]. Eppure è difficile credere che il paese di Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Tchaikovskji, di tanti illustri scienziati e artisti che hanno dato un contributo fondamentale alla cultura europea non appartenga alla nostra civiltà[6].
Se dunque la Russia è essa stessa Europa,

il cammino da intraprendere dovrebbe esser non già quello di innalzare una nuova “Cortina di ferro” (stavolta non contro il contagio ideologico, ma contro un nuovo e feroce zar), ma quello di una graduale e seppur difficile integrazione della Russia in Europa (“dall’Atlantico agli Urali”, appunto). Oggi questo cammino sembra particolarmente arduo e largamente compromesso, ma a mio parere è inevitabile imboccarlo.

.Se si fosse agito in questa direzione (e bisogna ammettere che Silvio Berlusconi nel 2002 lo aveva intuito con l’incontro al vertice di Pratica di mare), il conflitto russo-ucraino non sarebbe stato neppure concepito. E invece ha vinto – per ora - la prospettiva monopolare di un’integrazione/sottomissione dell’Europa occidentale agli USA (vedi il ruolo di soggezione totale dell’UK).
In questo senso è evidente che la battaglia per il Donbass, foderata di filisteismo e di retorica patriottarda[7] trova la sua ragione d’essere nel voler dislocare i confini dell’Europa molto più a ovest. Un confine che, con tutta evidenza, è quello che vogliono tracciare gli Stati Uniti, in vista dello “scontro finale” con la Cina.

Claudio Salone

Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/