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Le politiche di austerità tendono ad aggravare i problemi della crisi finanziaria.
La domanda è una citazione del saggio di Amalrik (un dissidente sovietico) del 1970; certo l’euro non è un’unione politica, ma la sua fine rappresenterebbe un colpo molto duro all’Unione Europea. In questo caso sapremmo anche chi è il colpevole: una errata politica macroeconomica seguita dalla BCE, da Ecofin, dalla Commissione europea. Queste politiche fiscali e monetaria stanno aggravando il problema nato con la crisi finanziaria. Si potrebbe obbiettare il caso greco; in effetti i deficit greci dal 2001 in avanti sono quasi sempre stati superiori ai cinque o sei punti, la il rapporto debito-Pil era nel 2007, l’anno precedente lo scoppio della crisi, 105,4%, solo leggermente più alto del 103,7%, quando la Grecia entrò nell’euro. Il salto di circa cinquanta punti è avvenuto dopo, con la crisi finanziaria.
La soluzione che viene suggerita alla crescita dei debiti pubblici di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (i c.d. piigs) è una politica fiscale fortemente restrittiva, e per renderla più credibile, viene anche suggerita l’introduzione di un obbligo di pareggio del bilancio nelle costituzioni nazionali. Questa idea è ancora più stupida delle regole sui deficit eccessivi del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità. Martin Wolf, editorialista del Financial Times (7 settembre) scrive: “se il deficit di bilancio viene drasticamente ridotto, il surplus del resto dell’economia deve cadere di altrettanto. E’ possibile ciò con obiettivi di rapida riduzione dell’indebitamento e di espansione della domanda? Secondo me, non lo è. E’ molto più probabile che il risultato sia un dilagare di default, contrazione di profitti, banche il crisi e ripresa della depressione che finora è stata contenuta”.
Come è potuto accadere che quella che inizialmente era una crisi di liquidità in Grecia si è tradotta in un ciclone che minaccia di distruggere l’euro? Paul De Grauwe ha spesso insistito sul tema della vulnerabilità dei titoli pubblici in un’unione monetaria. Infatti i vari governi emettono titoli denominati in una moneta sulla quale non hanno il controllo. Di conseguenza essi non possono garantire i sottoscrittori che ci sarà sempre sufficiente liquidità per rimborsare i titoli alla scadenza. I credit default swops tedeschi sono leggermente più alti di quelli britannici; come mai, visto che la Germania è superiore al Regno Unito in base a tutti gli indicatori economici? Proprio perché il regno Unito ha mantenuto la sterlina. Il contrasto tra la BCE e il governo tedesco ha prodotto una crisi di fiducia. Come scrive su vox (22 agosto) Charles Wyplosz, “la storia ci insegna che la perdita di fiducia può scatenare un ciclone di dubbi ed un crollo dei prezzi dei titoli. Una volta innescato, tali cicloni sono in grado di spazzare via anche i migliori”.
Il meccanismo si spiega facilmente: quando gli investitori assegnano un certo grado di probabilità di default a un titolo pubblico, la nazione deve pagare un premio di rischio per continuare a finanziarsi e rinnovare il debito pregresso. I più alti interessi alzano l’onere del servizio del debito. Il ciclone guadagna forza perché la solvibilità viene erosa, e ciò a sua volta alimenta i dubbi ed alza il premio di rischio. L’austerità di bilancio è richiesta per placare il ciclone, ma i tentativi di recuperare la solvibilità nel mezzo della crisi non fa che peggiorare le cose.
Con il taglio della spesa e l’aumento delle imposte può determinare o aggravare la recessione, la quale determina una riduzione delle entrate ed un aumento delle spese di assistenza, con conseguenze negative sulla sostenibilità del debito. Di conseguenza i mercati chiedono un più alto premio del rischio e il ciclone riguadagna forza. Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Grecia, dove ai primi di settembre la troika FMI-BCE-EC, riscontrando un deficit più alto, a causa di una caduta del Pil (-3,5%) maggiore delle previsioni, ha chiesto per ulteriori misure restrittive. In effetti l’unica cosa sulla quale Jean Claude Trichet and Angela Merkel si sono finora trovati d’accordo è quella di politiche fiscali restrittive (in modo forsennato nel caso dei piigs) per tutti i paesi europei. L’idea implicita è che tutta l’area euro debba divenire simile alla Germania, con una crescita economica export led. Martin Wolf ha ragione quando dice che questa politica è errata e masochistica.
Il 7 settembre la Corte Costituzionale tedesca ha permesso al governo di finanziare il fondo salva stati (EFSF), ponendo però vari paletti; così l’euro guadagna un po’ di tempo. Ma le ultime notizie sulle limitate capacità di finanziamento del governo greco ridanno fiato al ciclone.
Tornando alla questione iniziale, in pochi anni potremo trovarci di fronte a:
a) Default (più o meno controllati) dei titoli pubblici di vari paesi piigs, con fuoriuscita dall’euro; default (più o meno controllati) dei titoli pubblici di vari paesi piigs, senza fuoriuscita dall’euro. In entrambi i casi i paesi sono obbligati a mantenere un bilancio pubblico complessivamente in attivo, e le banche dovranno riprendersi da serie perdite in conto capitale, con una caduta dei finanziamenti erogabili. Il vantaggio, nel caso di fuoriuscita dall’euro (se possibile) sarà la svalutazione della (nuova) moneta nazionale.
b) Uscita della Germania dall’euro (probabilmente con Austria, Finlandia ed Olanda); i paesi piigs guadagneranno dalla svalutazione dell’euro, ma i tassi d’interesse sui tutti i titoli, non solo quelli pubblici, cresceranno, richiedendo così un avanzo primario più alto. La Francia si troverà di fronte ad una scelta difficile: rimanere in eurolandia (magari come paese leader), o seguire la Germania.
In ogni caso i paesi piigs avranno tempi duri; vi è poi una terza ipotesi, quella della messa in comune dei titoli governativi in euro, dell’emissione degli Eurobond per finanziare progetti di investimento in tutta Europa, e così via. Dovremmo attendere le elezioni politiche del 2013 in Germania; la Speranza, dicevano i greci, è l’ultima dea.