Siria: il protettorato di Assad

Dopo oltre sette anni di guerra la Siria è un Paese in macerie con oltre sei milioni di profughi all’estero e tre-quattro milioni di rifugiati interni. È inoltre una sorta di condominio militare dove ci sono truppe russe, iraniane, turche, americane, francesi, britanniche, oltre alle milizie regionali e locali, dai curdi agli Hezbollah libanesi; dai jihadisti di ogni declinazione, Al-Qaeda compresa, alle ultime sacche di resistenza dell’Isis. È tra l’altro interessante notare che americani, russi e iraniani continuano a impiegare sul campo truppe mercenarie e di compagnie di sicurezza che hanno fatto questo “lavoro” in Iraq e in altre aeree della regione. A questo quadro si aggiungono gli israeliani che occupano dal 1967 le alture del Golan e non esitano a innescare i loro raid contro le postazioni dei pasdaran iraniani.

Eppure in questa sorta di guerra mondiale a pezzi, che forse è stata soprattutto un conflitto per procura delle potenze sunnite e occidentali contro l’influenza regionale dell’Iran sciita, c’è un vincitore: Bashar al-Assad, l’ultimo raìs della vecchia generazione sopravvissuto alle primavere arabe del 2011, pur essendo giovane ed avendo ereditato il potere dal padre Hafez. Assad, che per altro non controlla ancora circa il 40% del territorio e alcune importanti istallazioni petrolifere, oggi non è più contestato: la sua permanenza in sella viene riconosciuta sia dagli Usa che da Israele mentre Gran Bretagna e Francia, che ne avevano reclamato a gran voce la destituzione, sono piombate nel silenzio e sotto banco riallacciano i rapporti con il regime alauita.

Così come fa la Turchia, il Paese che con il suo leader Erdogan, da poco presidente con pieni poteri, accarezzava non solo di incenerire Assad, facendo passare migliaia di jihadisti dai suoi confini, ma di estendere la sua influenza politica ed economica sul mondo sunnita. Ora la Turchia è arrivata a patti con gli Usa con la Russia e Damasco per contenere i curdi siriani ai suoi confini.

Ci sono in concreto “due fasce di sicurezza” principali, una turca a Nord e una israeliana a Sud, diverse altre aeree dove predominano i russi con la loro aviazione (a contatto visivo con quella americana sulla linea dell’Eufrate), in particolare sulla costa mediterranea di Latakia, e la presenza di truppe come quelle americane e francesi che tentano di fare da cuscinetto tra i curdi e i turchi e provano a interrompere o controllare le vie di rifornimento iraniane alla Siria e agli Hezbollah di Nasrallah. I russi sono intervenuti anche nelle ultime offensive dell’esercito di Assad nel Sud sia verso Daraa che verso il Golan per fare da interposizione ed evitare che gli iraniani si avvicinassero troppo alle postazioni israeliane.

Non ci sono accordi ancora definiti e conosciuti per il ritiro delle truppe straniere ma una sorta di spartizione di zone di influenza, più o meno precaria. Questa è la Siria a pezzi, una sorta di conflitto a bassa intensità dove i russi vorrebbero cominciare la ricostruzione, organizzando il ritorno dei profughi, ma che resta una polveriera: a Idlib e provincia, nel Nord, sono stati evacuati decine di migliaia di ribelli, molti jihadisti e stranieri. Con questa spina nel fianco Assad non potrà mai controllare del tutto la situazione.

L’unico messaggio chiaro uscito dalla cortina fumogena del vertice Trump-Putin di Helsinki riguarda proprio la posizione dell’Iran in Siria. Su questo punto Trump ha detto al summit le uniche parole che non ha poi dovuto smentire: “Fare pressioni per contenere le ambizioni nucleari dell'Iran e mettere fine alla sua campagna di odio in Medio Oriente”. E Putin, che deve esportare i suoi oligarchi come Abramovic a Tel Aviv per aggirare le sanzioni, di rimando ha affermato “che farà di tutto per rendere sicuro il confine tra Siria, Israele e il Golan”. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che una settimana prima di Helsinki era stato a Mosca, è sembrato soddisfatto: se viene rispettata la linea del cessate il fuoco seguita alla guerra del 1973 - pattugliata sul Golan da truppe Onu - Israele può accettare un ritorno delle truppe siriane nell’area.

Tutto come prima? Assolutamente no. In Siria non sarà mai più tutto come prima. Trump vorrebbe disimpegnare le truppe con l’aiuto di Macron ma i vertici del Pentagono per il momento non sono d’accordo. I russi hanno basi fisse che manterranno per decenni, secondo gli accordi stipulati con Damasco, e al Nord la situazione tra turchi, curdi e milizie ribelli jihadiste è ancora assai instabile. Complicato anche per Putin e Assad chiedere un ritiro agli iraniani, coloro che insieme agli Hezbollah hanno tenuto in piedi il regime dal 2012 all’autunno del 2015 quando intervennero i russi. Dalle macerie della guerra sta emergendo una nuova Siria, anche demograficamente dove i sunniti, la maggioranza, sono tenuti sotto stretto controllo. Assad oggi ha in mano la spina dorsale del paese, da Aleppo nel nord fino a Damasco al Sud ai confini della Giordania, quella che i colonizzatori francesi chiamavano in passato “la Syrie utile” (la Siria utile). Questa Siria non è un Paese né per tutti i siriani né del tutto indipendente né pacificato: è una sorta di protettorato di nuovo genere, con un raìs potente all’interno ma sotto tutela, con una guerra a bassa intensità e una ricostruzione che deve ancora ripartire.

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

Alberto Negri

Inviato d guerra per il Sole 24 Ore. Ha seguio i principlai conflitti ed eventi polici dagli anni 80 a oggi. Scrive, tra l'altro, per il Manifesto, Tiscali,Linkiesta.

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