Sindacati dvisi sul lavoro

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Che sul lavoro il sindacato non deve fare politica – come gridano i leader della destra – è un’affermazione senza senso, , contrario ai valori della Costituzione. 

Le Confederazioni CGIL e UIL faranno uno “sciopero generale” il 29 novembre per protestare contro la “legge di bilancio” del Governo Meloni. Ritengono che sul lavoro essa contenga scarse insufficienti misure ignorando i reali interessi dei lavoratori. Dopo il rifiuto d’un confronto “prima” della presentazione al Parlamento – come sarebbe stato normale – le Confederazioni saranno ricevute a Palazzo Chigi “a cose fatte”. Dallo sciopero s’è dissociata la CISL: non è la prima volta, quindi nessuna sorpresa. Restano però oscure le vere ragioni dell’ulteriore rottura sindacale. Il Segretario CISL dice che la legge di bilancio non è tanto negativa per i lavoratori e che CGIL e UIL scioperano per opposizione politica al Governo di destra. Stupisce che una grande organizzazione di lavoratori si dissoci, con tale grave motivazione, dalle altre due organizzazioni altrettanto grandi.

Ciascuna di esse è parte importante della “rappresentanza sociale” del Paese; e la dissociazione, dividendo il movimento sindacale, danneggia lavoratori e strategie rivendicative.

Ovviamente lo sciopero generale è, per definizione, una protesta a prevalente “valenza politica”. Vuole dire al Governo che, fermandosi milioni di lavoratori d’ogni settore e categoria, il Paese si blocca e non cresce. Hanno quindi “valenza politica” tanto la protesta quanto la dissociazione: la prima “contra”, la seconda “pro” Governo. D’altronde è dubbio che si protesti per opposizione al Governo di destra. Scioperi generali si sono fatti contro Governi d’ogni colore politico (persino contro il Governo tecnico di Draghi).

Comunque non vanno criticate le posizioni: né di CGIL-UIL né di CISL. Grazie alla libertà sindacale, ogni organizzazione decide i suoi atteggiamenti basandosi, si suppone, sugl’interessi dei lavoratori rappresentati. Il rischio semmai è che la profonda frattura tra vertici confederali ricada sulle politiche contrattuali delle articolazioni decentrate delle stesse Confederazioni (categorie; territori; aziende). Infatti le divisioni potrebbero ripercuotersi sulla concreta disciplina del lavoro nelle categorie e a livello aziendale, cioè sui relativi contratti collettivi. Insomma sul piano giuridico sarebbe grave se la divisione tra Confederazioni arrivasse a rompere l’unità contrattuale nella categoria o nell’azienda. Ciò peraltro dovrebbe preoccupare pure gl’imprenditori e le loro organizzazioni. In pratica la divisione giova soltanto al Governo.  

Per la verità, almeno finora, la rottura ai vertici confederali non pare lambire i livelli decentrati e la base. Quasi sempre sventolano unite nelle proteste locali le bandiere di CGIL-CISL-UIL quando si mobilitano lavoratori di alcune categorie o di alcune importanti aziende: per il salario; per la sicurezza sul lavoro; per il precariato; per il caporalato; per i troppi appalti e subappalti a danno d’operai d’alcuni settori; per la sanità; per le pensioni ecc. Nel Mezzogiorno poi, dov’è più accentuata la deindustrializzazione del Paese, è frequente la mobilitazione unitaria contro la fuga di grandi imprese (anche multinazionali). Perciò il Segretario CISL – soddisfatto delle politiche governative sul lavoro – dovrebbe chiarire questo singolare paradosso: forse non tutti i suoi rappresentati condividono la dissociazione confederale. Qualcosa non quadra!

E’ bene allora chiarire un equivoco di fondo che sfugge alla destra e stranamente sfugge financo alla Segreteria generale CISL. Pur nella differenza (teorica e pratica) tra sindacati e partiti, è impensabile che talora “interessi politici” e “interessi sindacali” dei lavoratori non coincidano. Impossibile negare l’interdipendenza stretta degli interessi, per esempio, nelle questioni salariali (lavoro povero e salario legale). Oppure nel degrado della sanità pubblica: che costringe i lavoratori o a non curarsi o a rivolgersi ai privati, sottraendo soldi al già magro guadagno. O nell’autonomia regionale differenziata: che punisce a largo raggio i lavoratori del Sud immettendo nel tessuto sociale enormi diseguaglianze.    

Dire allora che sul lavoro il sindacato non deve fare politica – come gridano i leader della destra – è un’affermazione senza senso. Che si spiega soltanto con la “concezione corporativa degli interessi”, facente  In tanto il Governo mortifica quella parte della rappresentanza sociale che non condivide la sua politica del lavoro, in quanto vuole dimostrare al suo elettorato che mette all’angolo il “sindacalismo critico”. Anzi, non ne ascolta neppure, al momento giusto, qualche proposta, magari meritevole d’accoglimento. Un’ulteriore prova dell’insensibilità del Governo all’unità e alla coesione sociale dell’Italia. Capace d’inasprire una conflittualità che andrebbe evitata nell’interesse del Paese.

(Dal "Corriere del Mezzogiorno",  3 nvembre 2024)           

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.