Sindacati di fronte a un bivio

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Con l’autonomia regionale differenziata, la situazione del Mezzogiorno è destinata a peggiorare. Sarà difficile bloccare l’esodo ulteriore di giovani professionalizzati e di talento.

Il 20 maggio lo Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970 n. 300) ha compiuto cinquantatré anni. Non pochi ma neanche tanti, visto che la normativa del Codice civile sul rapporto di lavoro di anni ne ha ottanta. E, a conti fatti, ha subito meno modifiche dello Statuto. Specie per senso e qualità della tutela del lavoro, meno allineata allo spirito costituzionale.

Il compleanno dello Statuto quindi non può essere tanto festeggiato. Difatti pochi se ne ricordano, benché abbia coinciso coll’ultima tappa della mobilitazione unitaria delle Confederazioni contro le politiche del Governo. La tappa – simbolicamente riservata al Sud del Paese, dopo Bologna e Milano – è stata appunto ieri sul Lungomare di Napoli. Stando alle cronache televisive corteo e comizi hanno visto (nonostante traffico caotico, pioggia e allerta meteo) la presenza dei tre Segretari Cgil-Cisl-Uil e di cinquantamila partecipanti di varie categorie e settori produttivi delle Regioni meridionali. Una partecipazione numerosa ma non proporzionata alla gravità della condizione lavorativa nel Mezzogiorno.

Queste manifestazioni sono importanti per dimostrare l’unità delle forze sindacali e sottolineare l’inadeguatezza delle politiche sul lavoro. Quelle pubbliche del Governo di destra e quelle private degl’imprenditori, non senza peccato, specie quanto a politiche industriali e investimenti. Nel Mezzogiorno infatti l’insieme dei lavoratori (dipendenti, autonomi, somministrati ecc.) è in perenne sofferenza e si dibatte tra le frequenti delocalizzazioni e il continuo aumento delle disuguaglianze financo tra addetti d’elevato livello professionale.

Il mercato del lavoro è confuso e stagnante coll’alto tasso di disoccupazione (specie giovanile e femminile). Sempre preoccupante il trattamento di quanti lavorano: tra precarietà delle occasioni di lavoro, bassi salari, lavoro povero, lavoro nero e sfruttamento delle organizzazioni criminali. Agevolato da un’immigrazione che il Governo sa benissimo di non poter fermare e tuttavia s’ostina a lasciare nel disordine e nella clandestinità piuttosto che integrarla riconoscendone l’utilità.

Se poi guardiamo alla scarsa sicurezza e all’insensibilità per salute e benessere dei lavoratori, il quadro è ancora più fosco. Né più chiaro è l’orizzonte se pensiamo che, con l’autonomia regionale differenziata, la situazione è destinata a peggiorare. Sarà difficile bloccare l’esodo ulteriore di giovani professionalizzati e di talento che aspirano all’avvenire sicuro e promettente. Altrettanto difficile sarà la lotta alla dispersione scolastica, cui ora si dedicano fortunatamente maestri di strada e centri di volontariato, laico e cattolico, operanti nel “terzo settore”. Questi però, lasciati soli, fronteggiano a malapena un fenomeno che richiede misure istituzionali mirate e massicce. 

Le stesse manifestazioni sindacali allora sono utili ma non sufficienti. Si sa: il Governo attuale tende a mettere nell’angolo il sindacalismo confederale. Per un verso lo prende in giro fingendo di valorizzarlo (come nel caso dell’ultimo decreto del 1° maggio); per un altro verso tenta d’insidiarne la “maggiore rappresentatività” insinuando tra i lavoratori un sindacalismo frammentato. Il quale si dichiara autonomo dalla politica laddove nella politica è immerso fino al collo: non disturba il manovratore e non tutela chi lavora.

Di fronte a questi atteggiamenti il sindacalismo confederale – che, pur indebolito dalla precarietà del lavoro, possiede ancora sia la delega della maggioranza dei lavoratori sia il riconoscimento della maggioranza degl’imprenditori – si trova davanti a un bivio non facile: conflitto o partecipazione? Il dilemma per la verità non è nuovo e accompagna la storia delle tre Confederazioni: unite sugli obiettivi, divise sul mezzo più appropriato per perseguirlo. Cgil e Uil più propense al conflitto, Cisl alla partecipazione. Quest’ultima ha appena presentato – da sola – un progetto di legge d’iniziativa popolare sulla “partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese”.

A leggerne la relazione allegata all’articolato è facile condividerla in astratto. Ma troverà in concreto il consenso d’imprenditori e Governo? Degli imprenditori che diffidano di ogni intrusione nelle loro scelte e nelle loro strategie? E del Governo che rifiuta ogni tipo di concertazione sulle politiche economiche, industriali e fiscali? Sarebbe auspicabile ma al momento è assai difficile.

In ogni caso le maggiori Confederazioni dovrebbero pensare, prima di ogni proposta, di custodire come valore irrinunziabile l’unità sindacale. Oggi come oggi l’unica strada percorribile pare quella della “partecipazione conflittuale”: sulla quale, secondo le circostanze e le reali esigenze dei lavoratori, una <<rappresentanza sociale>> autenticamente <<rappresentativa>> può mantenere l’unità su politiche e strategie di tutela del lavoro.
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(Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, 21 maggio 2023)                            

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.