Rusciano

[Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, domenica 23 giugno 2024, pp. 1 e 9]

Infortuni e salari

27. LA DOPPIA FACCIA DEL LAVORO

di Mario Rusciano

              Che il mondo del lavoro vivesse cambiamenti epocali l’avevamo capito d’alcuni decenni. Che stia ancora cambiando velocemente con nuove tecnologie – e l’Intelligenza artificiale – l’avvertiamo ogni giorno. I cambiamenti però sono disomogenei e altalenanti. Differiscono sia per settori produttivi e categorie professionali sia per territori. Quanto ai territori la diseguaglianza tra Nord avanzato e Sud arretrato è scontata e aumenterà con l’obbrobrio della legge, voluta dalla destra, sull’autonomia regionale differenziata. Che al Sud avrà effetti devastanti pure su lavoro e previdenza. Ma si farà sentire anche al Nord. Sicché l’ordinamento fatica a regolare realtà contrapposte osservando in modo strabico le diverse facce del lavoro.

Da un lato le novità dell’intelligenza artificiale che, in certa misura, influiscono su quasi tutti i settori produttivi alterandone i mercati del lavoro, in cui domanda e offerta non s’incontrano. Gl’imprenditori chiedono profili professionali non (o difficilmente) reperibili. Quanti sono in grado d’offrirsi hanno forte potere contrattuale, tanto che il lavoro porta loro soldi e dignità.

Dall’altro lato sono molte ed esemplari le vicende di segno opposto. Anzitutto i quotidiani “omicidi bianchi”, specie in agricoltura ed edilizia. Negli ultimi giorni una vera strage da Nord a Sud. Raccapricciante l’orrenda morte del giovane indiano vicino Latina: perde un braccio nella macchina agricola ed è lasciato al suo destino di morte dal datore di lavoro. Che poi tenta (stupidamente) d’evitare pesanti sanzioni, anche penali. Prima perché ha assunto un clandestino irregolare e poi perché l’ha abbandonato dopo l’infortunio.  

Di tutt’altra natura, ma altrettanto esemplare, il caso dell’azienda “Jabil” di Marcianise. L’impresa multinazionale chiude lo stabilimento e licenzia oltre 400 dipendenti. Ereditati da aziende precedenti, qualcuna beneficiaria d’incentivi pubblici. Fallito il tentativo di riconversione, non ottenendo sufficienti profitti, smantella lo stabilimento. Mette i lavoratori in ferie forzate per poi licenziarli. Questi si mobilitano per difendere il posto e chiedono l’intervento del Governo perché la “Jabil” faccia macchina indietro. Ma, come in casi analoghi – data l’inarrestabile deindustrializzazione del Paese, soprattutto al Sud da parte di multinazionali – l’eventuale mediazione governativa non servirà. Se il mercato boccia il prodotto d’uno stabilimento, è impossibile costringere la multinazionale a ripensarci. I lavoratori licenziati, dopo un po’ di cassa integrazione, difficilmente saranno ricollocati: hanno professionalità obsolete e non hanno l’età per imparare nuovi mestieri. Che ne sarà di loro? Privi di potere contrattuale, dovranno arrangiarsi: tra sfruttamento, lavoro nero e lavoro povero.

Cambia radicalmente lo scenario leggendo quanto riferisce Ferruccio De Bortoli (L’Economia del Corriere della Sera, lunedì scorso) sull’atteggiamento, specie dei giovani, rispetto al lavoro. Da par suo, De Bortoli – coll’eloquente titolo <<La grande parabola del lavoro come impegno>> – illustra due interessanti ricerche della multinazionale olandese Randstad sulla “gerarchia dei valori” di chi cerca lavoro. Per semplificare, può rispolverarsi il vecchio dilemma: “si lavora per vivere o si vive per lavorare?”.

              Dilemma complicato, comprensibile solo facendo alcune distinzioni. Anzitutto quella generazionale. I nati nel ‘900, il “secolo del lavoro”, hanno l’atteggiamento tradizionale: prima il lavoro, poi la vita privata. Mentre i nati dopo il 2000 – millenials o “generazione Z” – hanno l’atteggiamento contrario, per molti versi singolare. Nel confronto con altri Paesi europei, sono soprattutto i giovani italiani a chiedere, nei colloqui di lavoro, il bilanciamento lavoro/vita privata. Ma possono permetterselo – ripeto – quanti sono dotati d’elevata professionalità con forte potere contrattuale. E’ una élite, che giustamente si fa valere.

Incredibile invece che lo chiedano quanti hanno una professionalità normale o bassa. Chissà come pensano di mantenersi per vivere. Delle due l’una: appoggiarsi alla famiglia (finché dura)? O illudersi di vivere coi sussidi pubblici, improbabili e comunque esigui?

La ricerca riferita da De Bortoli sarebbe molto più utile se fosse corredata da qualche altra distinzione, oltre a quella generazionale. Importantissima naturalmente quella territoriale: il bilanciamento vita/lavoro si pone ugualmente al Nord e al Sud? E poi: in quali settori produttivi è più frequente? E a quali livelli professionali è più rilevante? Non so se e quando si potranno avere delle risposte. Forse per ora la chiave di lettura del dilemma – che in linea di massima spiega il perché molti lavoratori chiedono il bilanciamento – va cercata soprattutto nelle basse retribuzioni: la vera piaga del lavoro e in generale dell’economia italiana.          

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.