In ricordo di Domenico Mario Nuti

Sottotitolo: 
La vacuità della teoria ‘borghese’ della distribuzione del reddito fondata su dati puramente neutrali afferenti alla tecnologia ed alle dotazioni necessarie alla produzione, contrapponendovi l’esigenza di considerare il ruolo delle classi sociali in un quadro fondato sull’interrelazione tra economia reale e monetaria.

Il 22 dicembre del 2020 è venuto a mancare Domenico Mario Nuti, Professore di economia (in pensione dal 2010) all’Università La Sapienza di Roma. Si tratta di una perdita profonda che lascia un grande vuoto. Ho conosciuto Mario Nuti agli inizi degli anni Settanta in Gran Bretagna, incontrandolo più tardi a Fiesole quando era Professore presso l’Istituto Universitario Europeo. Fu Nuti a caldeggiare come referente ufficiale, assieme a Paolo Sylos Labini, la mia candidatura ed assunzione presso la facoltà di economia dell’Università di Sydney che avvenne alla fine di quella stessa decade. Il mio personale ricordo é di grande stima ed affetto, malgrado la lontananza e la diversità nella natura degli impegni avessero diluito fino ad annullarla la frequentazione reciproca. E’ nello spirito della profonda ammirazione ed affetto che nutro per Mario Nuti che presento le note che seguono.

Nuti nacque ad Arezzo il 16 agosto del 1937 e nel 1962 si laureò in giurisprudenza alla Sapienza, allora ancora chiamata Università degli Studi di Roma. Il resto dell’anno ed il 1963 lo passò a Varsavia come fellow dell’Accademia delle Scienze polacca studiando con Michal Kalecki ed Oskar Lange, due personalità cruciali del pensiero economico in generale e di quello marxista e della pianificazione socialista in particolare. Da Varsavia si trasferì a Cambridge ove nel 1970 ottenne il Ph.D. in economia con Maurice Dobb, un’altra figura di primissimo piano per le teorie economiche di matrice marxiana ed anche per l’elaborazione di criteri di pianificazione in condizioni di emancipazione dal sottosviluppo, e con Nicholas Kaldor, il fondatore della teoria della crescita post-keynesiana.

Fu a Cambridge che Mario Nuti iniziò il cammino di docente e di ricercatore affermandosi immediatamente come un teorico di grandissima qualità, capace di porre le sue idee in relazione al contesto storico e politico. Ciò si nota sin dai suoi primissimi saggi come lo scritto sul sistema di incentivi e la scelta delle tecniche nell’industria sovietica pubblicato sull’annata del 1967 dell’Australian Economic Papers, la rivista fondata e diretta da G.C. Harcourt, uno dei principali eredi della scuola di Cambridge e allora Professore all’Università di Adelaide. Due anni dopo, nel 1969 sulla Review of Economic Studies, rivista ad impostazione matematica, apparve un breve scritto in cui Nuti intercettava una seria contraddizione in un – allora importante – modello teorico sulla crescita elaborato a Cambridge da Nicholas Kaldor e James Mirrlees, quest’ultimo riceverà anche il Premio Nobel per l’economia.

Nuti colse il fatto che malgrado gli autori riconoscessero l’esistenza di monopoli la loro equazione dei prezzi implicava la concorrenza perfetta. In rapporto alla problematica di classe ed esplicitamente marxiana Mario Nuti produsse in quel periodo iniziale due autentici gioielli. Un saggio, apparso nel 1969 sulla rivista marxista americana Science and Society, dedicato alle politiche dei redditi; tema centrale in Gran Bretagna in un contesto istituzionale che riconoscendo ancora il sindacato, accettava obtorto collo anche una parte della componente inflazionistica della dinamica salariale. Nuti, esaminate le varie forme di tali politiche, ne individuava le incompatibilità ed arrivava alla conclusione che una politica dei redditi si sarebbe potuta realizzare solo in un’economia pianificata. Nel 1971 pubblicò sempre su Science and Society l’articolo “Vulgar Economy and the Theory of Income Distribution” (“L’economia volgare e la teoria della distribuzione del reddito”) che mi sembra valido ancor oggi in quanto mostra la vacuità della teoria ‘borghese’ della distribuzione del reddito fondata su dati puramente neutrali afferenti alla tecnologia ed alle dotazioni necessarie alla produzione, contrapponendovi l’esigenza di considerare il ruolo delle classi sociali in un quadro fondato sull’interrelazione tra economia reale e monetaria.

Dal 1965 al 1979 Nuti fu fellow al King’s College di Cambridge, lo stesso di Keynes, e Lecturer di ruolo presso la facoltà di economia della omonima università. Dal 1980 al 1982 fu Professore e Direttore del Centre for Russian and Eastern European Studies dell’Università di Birmingham in Gran Bretagna; istituto di importanza mondiale che continuò, terminandolo pochi anni fa, il lavoro di E.H. Carr sulla storia dell’URSS, curandone in particolare gli aspetti economici. Inoltre durante gli anni ’80 del secolo scorso, Nuti divenne Professore Ordinario all’ Università di Siena e all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Nel 1993 ricevette la Cattedra dei Sistemi Economici Comparati alla Sapienza di Roma che tenne fino al pensionamento, parallelamente alla posizione di Visiting Professor presso la London Business School esercitata a tutto il 2005.

La crescita del pensiero teorico globale di Mario Nuti si sviluppò di pari passo con l’approfondimento della problematica dei paesi socialisti dell’Europa orientale e dell’Unione Sovietica. In questo campo egli diventerà uno dei maggiori esperti europei e mondiali. Da Cambridge Nuti sviluppa un percorso molto autonomo ed aperto che lo vede contribuire a tematiche le quali – pur connesse con la questione della caratterizzazione del capitale e dei relativi processi produttivi – lo portano su terreni diversi da quelli dei suoi locali colleghi di matrice ricardiana. Ne è un esempio il saggio dagli argomenti – afferenti al troncamento dei processi produttivi – vicini alle, alquanto invise, teorie austriache apparso nel 1973 sulla culturalmente raffinata rivista economica svizzera Kyklos. Nel 1974, curando per la Cambridge University Press gli scritti dell’economista matematico russo dei primi del ‘900 V.K. Dmitriev (1868-1913), scrisse un magistrale saggio introduttivo nel quale si fondevano armoniosamente analisi teorica e storia del pensiero economico.

Il volume di Dmitriev è stato menzionato in ambienti neo-ricardiani prevalentemente in rapporto alla monografia Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa, apparsa nel 1960 simultaneamente a Cambridge in inglese con la Cambridge University Press ed a Torino in italiano con la casa editrice Einaudi. Sraffa rilanciò la teoria dei prezzi di produzione di Ricardo e Marx in contrapposizione all’analisi marginalista dominante in cui i prezzi vengono determinati dalle relazioni di domanda ed offerta per ciascuna merce. Ne nacque una vera e propria scuola di pensiero, detta per brevità sraffiana e/o neoricardiana, che in alcuni luoghi esiste ancora.

Nell’“Introduzione” Mario Nuti dopo aver illustrato in forma elegante ed innovativa la parte ricardiana dei saggi del matematico russo, passa alla presentazione della componente marginalista degli scritti di Dmitriev, che sarebbe appunto quella afferente al ruolo della domanda individuale espressa in un sistema di preferenze individuali verso panieri di merci. Egli fa giustamente notare che il pensiero europeo del periodo aveva una concezione unitaria della teoria, per cui la scelta di Dmitriev di trattare sia la dimensione ricardiana che quella marginalista va considerata come parte di un tentativo di costruire una visione unificata della teoria del valore e quindi dei prezzi. Fatto del resto allora non nuovo ed infatti esistevano in Russia altri economisti che si occupavano di economia classico-marxiana e marginalista come l’importante statistico russo influenzato da Dmitriev e parzialmente coevo: Ladislaus von Bortkievicz (1868-1931) che insegnò in Germania e che è stato estremamente rilevante per il pensiero economico marxista contemporaneo grazie alla rivalutazione effettuatane da Paul Sweezy nel celeberrimo volume Teoria dello sviluppo capitalistico (Oxford University Press 1942, Einaudi 1951), nonché il teorico della crisi di sproporzionalità Mikhail Tugan Baranovski (1865-1919). Nuti valuta l’approccio di Dmitriev migliore degli altri mettendone in risalto la grande originalità. Egli sottolinea che l’influenza della domanda sui prezzi è cosa significativa. Osserva e dimostra inoltre che nei suoi saggi marginalisti Dmitriev fa emergere analiticamente questioni strategiche di primissimo piano per ciò che riguarda la condotta economica delle stesse imprese. Si tratta in particolare del ruolo della capacità produttiva inutilizzata e tenuta in riserva sia come deterrente che come strumento di attacco concorrenziale.

Il saggio su Dmitriev deve essere considerato un classico unico per la capacità di trattare temi di storia del pensiero come elementi di analisi teorica contemporanea senza staccarsi dalla contestualità dell’autore di riferimento. A mio avviso l’“Introduzione” per la sua rigorosa dimensione analitica e poliedricità culturale ed intellettuale fa emergere bene elementi che si consolidano come una caratteristica specifica del pensiero di Nuti. In nuce, si tratta della sua abilità di cogliere il meglio che emerge dalle diverse scuole di pensiero.

L’originalità ed i punti di forza di Nuti consistono nel suo retroterra marxiano, in quello storico e giuridico, nel dominio delle teorie dominanti riguardo il mercato, nonché in una profonda conoscenza dell’insieme dei meccanismi istituzionali, politici, ideologici che reggevano le economie dell’est europeo e dell’URSS. Prendiamo ad esempio suo primo corposo lavoro teorico apparso su un numero del 1970 dell’Economic Journal, la maggiore rivista britannica ed europea di economia, intitolato “Capitalism, Socialism and steady growth” (“Capitalismo, Socialismo e crescita regolare”). In quel saggio, molto elaborato, Nuti mostrò le diverse valenze che assumevano le moderne teorizzazioni e dibattiti riguardo la scelta delle tecniche e la teoria del capitale e della crescita dell’insieme dell’economia, qualora il riferimento fosse ad un’economia capitalistica oppure ad una socialista ed – in questo caso – differenziando tra una pianificata centralmente od una decentralizzata nel senso della Jugoslavia. Temi questi che allora avevano una grande e salutare rilevanza nel dibattito teorico in cui Nuti si presentò sin dall’inizio della sua produzione come costruttore attivo e autonomo di nuove prospettive. Addentriamoci ulteriormente sul sentiero della sua ricerca riguardo le economie socialiste. Mi riferisco ad un lungo saggio sulle contraddizioni delle suddette economie da un punto di vista marxiano pubblicato sul Socialist Register del 1979. Il Socialist Register è una rivista annuale a numero unico stampata dalla Merlin Press in Gran Bretagna e dalla Monthly Review Press negli USA. Tratta delle maggiori problematiche del mondo da punti di vista marxiani ed espressamente socialisti. Venne fondata nel 1964 da Ralph Miliband e John Saville, poi diretta da Toronto fino al mese dicembre del 2020 da Leo Panitich prematuramente scomparso a causa del Covid19. The Socialist Register ha agito come una delle maggiori riviste socialiste nel mondo informando e formando quadri sindacali e politici. Nel saggio apparso sul numero del 1979, dopo una descrizione storica dello sviluppo sovietico, Nuti elabora le contraddizioni insite nella relazione tra centralizzazione e decentralizzazione che attanagliavano il summenzionato tipo di economie. La centralizzazione, scrive, con la pianificazione fisica di tutti i settori e di tutte le industrie all’interno dei singoli settori, permette un elevato livello di investimento assegnando priorità al settore dei beni capitali. La tendenza a tenere alto l’investimento e di allocarlo in maniera prevalente ai settori che producono macchinario per il macchinario stesso, mentre le allocazioni di beni di capitale ai settori dei beni di consumo assumono una dimensione residuale, crea una preferenza e predisposizione istituzionale verso la produzione di macchinario per il macchinario che da fisiologica diventa patologica. Lo stato patologico subentra quando l’economia di tipo sovietico esaurisce le riserve di forza lavoro, prevalentemente quella insita nell’eccedenza di popolazione agricola, ed il sistema di pianificazione non riesce a cambiare per adeguarsi alla nuova realtà. A questo punto il pregiudizio politico-istituzionale in favore dei settori dei beni di capitale, si traduce in investimenti che creano capacità produttive inutilizzate le quali non permettono di risolvere la pressione inflazionistica repressa derivante dalla scarsità dei beni di consumo in concomitanza alla fissità dei prezzi. Per sbloccare la situazione di crisi il pendolo si sposta verso la decentralizzazione, cioè assegnando un maggior ruolo ai prezzi. Questi, venendo aumentati, dovrebbero eliminare la pressione inflazionistica nascosta. Tuttavia data la situazione di scarsità effettiva, l’aumento dei prezzi produce, osserva Nuti, tensioni e rivolte sociali, ossia ciò che dopo il 1991 economisti russi hanno chiamato col termine “effetto di Novocherkassk”. Il riferimento é alla protesta nelle fabbriche di quella città nella regione (oblast) di Rostov, contro la decisione del governo centrale di aumentare i prezzi dei generi alimentari – assieme ai ritmi di produzione – conclusasi con l’intervento dell’esercito il 2 giugno del 1962. Quindi la crisi si acuisce creando reazioni fortemente avverse sul piano sociale. Le tensioni, sottolinea Nuti, obbligano le autorità ad abbandonare la decentralizzazione riaffermando il sistema centralizzato nel tentativo di superare gli ostacoli attraverso una nuova spinta produttiva che riattiva la preferenza verso l’investimento nelle industrie dette pesanti. Tuttavia sappiamo che l’economia non é in grado di assorbire questo tipo di investimento che, data l’assenza di popolazione in eccesso nell’agricoltura, crea invece capacità inutilizzata, oppure, aggiungo, – come spesso mostravano le vignette del giornale satirico sovietico Krokodil – si materializza in lunghe staccionate di acciaio giro giro la fabbrica e in mezzo alla campagna, non avendo la produzione trovato impieghi.

Mario Nuti applicò il suo approccio allo studio della crisi polacca che si concretizzò in due saggi, uno di natura prevalentemente economica intitolato “The Polish Crisis” apparso sul Socialist Register del 1981 ed uno nel numero novembre/dicembre della londinese New Left Review dello stesso anno, col titolo “Poland Economic Collapse and Socialist Renewal” (“Il collasso economico della Polonia ed il rinnovamento socialista”). In ambo gli scritti viene messa in evidenza la natura sistemica della nuova crisi polacca nata dalla risposta – fondata sul rilancio dell’accumulazione tramite le industrie pesanti – data da Edward Gierek, nominato segretario del POUP in sostituzione di Wladislaw Gomulka, alla crisi che portò ai moti del 1970 nei cantieri di Danzica causati dagli aumenti dei prezzi dei generi alimentari.

Nuti evidenziò tre elementi fondamentali della crisi, di cui due economici ed uno politico. Il rilancio di Gierek per superare la crisi economica causata dalla direzione Gomulka, arrivò ad innalzare il tasso di investimento al 35% del PIL del paese a scapito dei consumi. Tale saggio di accumulazione comportò un forte indebitamento della Polonia verso l’occidente, quindi in valute pregiate, in condizioni in cui sia i prezzi internazionali che la domanda estera si muovevano contro l’economia polacca. Essa si indebitava ad ovest in valuta esportando in occidente produzione mineraria la cui domanda era calante per via della stagflazione – cioè la compresenza di inflazione e stagnazione – vigente nella decade dei ’70. In questo contesto Nuti analizza le contraddizioni inerenti alle posizioni di Solidarnosc facendo notare che richieste tipiche di un sindacato radicale occidentale non potevano essere soddisfatte in un regime socialista. In occidente richieste salariali superiori alla produttività del lavoro esprimono un conflitto distributivo che può trovare uno sbocco nella diminuzione relativa dei redditi dei ceti capitalistici ed affini.Tale soluzione non é attuabile in un paese come la Polonia ove la fonte delle crisi risiede nelle politiche di sovrainvestimento. In questo contesto, osserva Nuti, la soluzione del problema di richieste salariali maggiori del valore delle merci può essere affrontato tramite l’emissione di buoni a singoli lavoratori o a gruppi di salariati cambiando la natura stessa del sistema risultando incompatibile con esso.

La non soluzione del rapporto tra centralizzazione e decentralizzazione venne considerata da Nuti come la contraddizione più seria dei sistemi di tipo sovietico cui cercò di offrire uno schema alternativo quando quei regimi ancora erano in vigore. Nel 1986 sul Cambridge Journal of Economics pubblicò un ampio saggio sulla teoria della pianificazione socialista elaborata da Michal Kalecki che, come osservato all’inizio di queste note, fu suo maestro a Varsavia. Caratteristica dell’approccio di Kalecki era la necessità di mantenere la pianificazione centrale degli investimenti altrimenti anche un’economia socialista sarebbe incorsa nella disoccupazione derivante da un livello di investimento insufficiente. Contemporaneamente Kalecki si opponeva al criterio della pianificazione staliniana di assegnare l’investimento sulla base di una priorità sistematica ai settori dei beni di capitale.

Questo per almeno due ragioni: la prima riguarda l’esaurimento del surplus di popolazione agricola, mentre la seconda ragione consiste nel fatto che la preferenza data ai settori dei beni di capitale comporta un forte incremento del rapporto tra lo stock di capitale e la produzione. Un tale incremento dell’intensità capitalistica costituisce un appesantimento del processo produttivo che deve essere più che annullato da una maggiore produttività del lavoro. Kalecki mostrò che per alti valori incrementali della quantità di stock di capitale per unità prodotta, l’aumento della produttività del lavoro ha grosse probabilità di risultare del tutto insufficiente comportando così un tasso di crescita inadeguato in quanto ingolfato in partenza. Ai lettori può interessare apprendere che Kalecki condusse la dimostrazione della sua tesi sull’ingolfamento in polemica esplicita con le idee di Maurice Dobb, il direttore della Tesi di dottorato di Mario Nuti a Cambridge, il quale negli anni cinquanta assorbì sviluppandola la concezione della priorità da assegnare ai settori dei beni di capitale. Nel saggio del 1986 Nuti sviluppa l’approccio di Kalecki elaborando un modello più completo ed articolato. Su questa base egli sottolinea come nello schema kaleckiano dell’economia socialista invece della contrapposizione tra pianificazione centralizzata e decentralizzazione si ha la decentralizzazione politica espressa dai Consigli Operai, rilanciati per brevissimo tempo in Polonia dopo il 1956 con Stanislaw Gomulka, come strumento di riequilibrio rispetto all’eccesso di investimento dei sistemi di tipo sovietico, col mantenimento della pianificazione centrale.

Nello stesso periodo in cui appare sul Cambridge Journal of Economics il saggio su Kalecki e la pianificazione socialista, esce sul Socialist Register del 1985/86 un suo intervento ad un convegno sulla crisi dell’est-europeo tenutosi a Cambridge nell’estate del 1985. L’impostazione di “Economic Planning in Market Economies” (“La pianificazione economica nelle economie di mercato”) appare sin dalle prime righe come estremamente originale, in quanto propone di trarre dallo stallo dei paesi dell’est europeo delle considerazioni afferenti alla programmazione nei paesi capitalistici della parte occidentale del vecchio continente. Nuti prende lo spunto dalle conclusioni raggiunte nei già citati lavori sulle economie socialiste riassumibili nell’osservazione che il sistema di pianificazione centralizzata a comando vigente ad Est genera crisi e movimenti economici almeno tanto erratici quanto l’anarchia capitalistica ad occidente.

Se l’Est è bloccato in un sistema soggetto a sovraccumulazione e crisi, ad Ovest disoccupazione ed inflazione (siamo ancora alla metà degli anni Ottanta) si presentano come problemi intrattabili se non con delle politiche di austerità che aggravano la disoccupazione. Così mentre per l’est il problema politico é abbandonare la pianificazione centralizzata puntuale per ramo di attività individuando invece dei macro-aggregati in cui applicarla, per l’occidente europeo si tratta di allentare la dipendenza dal mercato, diventato un vero e proprio Golem ideologico e giuridico cui, malgrado la malvagità del Golem, si inchinano i politici occidentali, coartando le istituzioni in tal senso. Nel saggio, Nuti si spende nella formulazione di schemi istituzionali come la formazione di un’agenzia dell’occupazione con poteri di assunzione in funzione della piena occupazione. Sebbene Nuti considerasse i paesi dell’est come società congelate in crisi, lo spirito del saggio sul Socialist Register del 1985/6 gravita, a mio parere, verso la riforma di quest’ultimi e non verso l’occidente in quanto egli scrive che all’Ovest, della questione occupazionale alle forze politiche non importa ormai gran che. A questa giusta osservazione é seguito in circa tre anni il crollo totale delle società socialiste e, due anni dopo queste, il dissolvimento senza appello del sistema sovietico.

Addio dunque alle idee di Nuti sulle economie socialiste? La risposta è NO. Affermatosi come un intellettuale economista che sa trattare con profondità teorica sia i problemi delle economie socialiste che quelle capitalistiche, Nuti esprimerà la sua intelligenza e finezza culturale, la sue conoscenze dei paesi dell’est e del capitalismo, nello studio e nelle analisi della transizione al capitalismo. Ciò accadrà nel quarto di secolo dopo la fine dei regimi socialisti manifestandosi tanto tramite pubblicazioni accademiche quanto con la partecipazione in organismi istituzionali dell’Unione Europea e dei paesi dell’Est in transizione. All’osservatore di oggi può sembrare che nei tre anni che precedettero il fatidico 1989 si stesse effettuando una corsa tra il deterioramento accelerato delle società est europee e l’URSS – nel 1994 sul Cambridge Journal of Economics uno stretto collega di Nuti,

Michael Ellmann, professore ad Amsterdam ed a sua volta esimio studioso del socialismo, mostrerà lucidamente la traiettoria percorsa dall’Unione Sovietica dalla ‘perestroika’ alla ‘katastroika’ (neologismo costruito da Elmann dalla parola russa ‘katastrofa’, catastrofe) – da un lato e gli scritti di Mario Nuti dall’altro. Nel 1987 sul primo volume della massima enciclopedia di economia, The New Palgrave: A Dictionary of Economics, Nuti scrive la voce “cycles in socialist economies” (“i cicli nelle economie socialiste”). Nell’articolo egli presenta tanto dettagliatamente quanto succintamente la connessione tra rigidità economica e politica di quei sistemi sintetizzata nell’incapacità di rispondere ai cambiamenti delle condizioni in cui operano e nella reazione ad hoc e di breve periodo dei dirigenti quando presi con l’acqua alla gola. Reazioni contingenti dettate da preoccupazioni di potere politico destinate ad aggravare e ad incancrenire la situazione. La nota di chiusura non lascia scampo in quanto le economie socialiste del tempo appaiono prese tra l’incudine della propria rigidità ed il martello dell’instabilità capitalistica. Scrive Nuti nella voce summenzionata:

“L’ulteriore proseguimento, nelle economie centralmente pianificate, delle riforme economiche verso il socialismo di mercato è destinato ad attenuare ed in definitiva ad eliminare l’aspetto sistemico dei cicli economici discussi più sopra. Tuttavia, come già anticipato da Maurice Dobb nel 1939, la propagazione dei mercati invece di risolvere i problemi di instabilità dell’economia centralmente pianificata li trasforma in problemi tipici delle economie capitalistiche” (mia traduzione, J.H.).

Con l’aggravarsi della dinamica della crisi nei paesi dell’est e nell’URSS, Nuti espande le sue ricerche riguardo la transizione, non verso il capitalismo bensì verso una nuova forma di socialismo. Le pubblicazioni del periodo 1986-89 riflettono la preoccupazione di definire un quadro istituzionale di socialismo possibile. Si occupa dei problemi della partecipazione alla gestione economica delle imprese socialiste. Scrive criticamente, in un volume collettaneo del 1987, sulla realizzabilità o meno dell’economia di condivisione ideata negli anni ’80 negli Stati Uniti da Martin Weitzman (1942-2019); idea che viene oggi riciclata dal Forum economico mondiale di Davos con obiettivi del tutto diversi. Nel 1989 in un libro, anch’esso collettaneo, edito dalla Banca Mondiale avanza la tesi di una riforma finanziaria dei paesi socialisti in cui viene prefigurata la creazione di un mercato azionario con le imprese che rimarrebbero pubbliche. La gara da parte di Nuti alla formulazione di riforme in grado di contribuire a sbloccare le rigidità distruttive del sistema centralmente pianificato salvaguardando le relazioni socialiste, si effettua nei fatti contro la corsa allo sfascio da parte dei paesi dell’est europeo e dell’URSS, quest’ultima addentratasi nel sentiero della “katastroika” ben prima del suo dissolvimento.

La “fine di tutto”, per riprendere da Tomasi di Lampedusa il titolo dell’ultimo capitolo del suo famoso romanzo, non comporta un abbandono da parte di Nuti della riflessione sulle possibilità delle riforme in quei sistemi appena scomparsi. Nel 1992 in un volume della Cambridge University Press curato da Anders Åslund – un economista svedese dalle idee opposte a Nuti che fu una figura importante tra i consulenti occidentali piombati sull’ex Unione Sovietica ed i paesi dell’est per applicare la terapia d’urto dello smantellamento unilaterale del sistema – egli pubblica un saggio il cui titolo tradotto in italiano recita “socialismo di mercato: il modello che poteva essere e che non fu”. Del resto, dato il retroterra storico-culturale di Nuti, la problematica della transizione dei paesi est europei e dell’ex Unione Sovietica ripropone in continuazione riflessioni analitiche sul passato, mentre consiglieri quale l’allora Jeffrey Sachs di Harvard – che nella Varsavia e nella Mosca dei primi anni ‘90 perorava, ascoltato come un vate, la terapia d’urto, cambiando poi radicalmente posizione a guai fatti – trattavano gli ex paesi socialisti alla stregua di una tabula rasa cui applicare le teorie monetarie e fiscali ddi ciò che Nuti chiamò col termine di iperliberismo. Nel corso dei tre decenni successivi al 1989 Nuti rivisiterà più di una volta il problema della pianificazione e delle riforme collegandolo alle questioni della transizione facendolo in maniera particolarmente originale.

Gli eventi del 1989-91 lo catapultano ben dentro la Commissione dell’ Unione Europea in qualità di massimo esperto di quei paesi; un impegno che durerà nei due decenni seguenti. Nell’Introduzione al volume in suo onore (Transition and Beyond. Essays in Honour of Mario Nuti, Palgrave-Macmillan, London 2007), i curatori Saul Estrin, Grzegorz W. Kolodko e Milica Uvalic raccontano che col crollo dei regimi dell’est “alla Commissione Europea mancava la competenza necessaria ad affrontare quest’evento straordinario, però conoscevano bene Mario dalle riunioni, saggi e rapporti prodotti dai suoi progetti finanziati dalla Commissione. Così nel dicembre del 1989 Mario fu invitato a Bruxelles in qualità di consigliere presso la divisione DG-II (l’allora divisione per gli Affari Economici e Monetari) come responsabile delle relazioni con le economie in transizione” (mia traduzione J.H.).

Si apre una lunga fase molto intensa durante la quale Nuti produce decine e decine di relazioni, rapporti e saggi tanto su problemi e paesi specifici quanto su questioni di riflessione generale. La Polonia assume un ruolo importante nel suo lavoro sia perché faceva parte della sua formazione e della sua cultura sia perché egli diventa consigliere di Grzegorz Kolodko, Professore all’ Università Kozminski di Varsavia, negli anni durante i quali Kolodko fu vice-premier e ministro delle finanze in governi di centrosinistra. Detto questo, l’attività di Nuti copre tutto lo spazio dell’ex mondo socialista o più esattamente del mondo che fu sotto la direzione dei partiti comunisti e non lo è più. E’ l’ambito in cui Nuti deve studiare ed affrontare aspetti emananti da cospicue forme di sopravvivenza di un regime formalmente smantellato. E’ il caso trattato nei suoi saggi sulla ex repubblica sovietica di Bielorussia, oggi Belarus, caratterizzata nel 2002 come un’economia di comando senza pianificazione centrale e in uno del 2005 come un sistema in animazione sospesa tra lo stato ed il mercato.

La vastità e portata degli apporti di Nuti è tale che i suoi scritti sulla materia, comprese le relazioni tecniche, dovrebbero assolutamente venire raccolti in dei volumi appositi altrimenti rischiano di rimanere sparpagliati e diventare documenti di archivio. Invece costituiscono un materiale storico-analitico prezioso, coerente e vivo, prodotto da una mente tanto fine quanto poliedrica ed appassionata.

I contributi di Nuti nel ventennio che si apre con la fine dei regimi socialisti europei e dell’URSS possono essere raggruppati sulla base di un certo numero di direttrici a volte compresenti nello stesso saggio o rapporto. Come già sottolineato, l’ Introduzione a Dmitriev del 1974 fece emergere elementi teorici che avrebbero poi caratterizzato una parte importante del suo pensiero. Primo fra questi l’ importanza assegnata da Nuti alla domanda nella variazione dei prezzi, cosa che lo distacca da quel milieu cambridgiano ed italiano che ha invece privilegiato il ruolo dei prezzi di produzione senza far intervenire la domanda. La variabilità dei prezzi in relazione alla domanda, argomenta, è uno degli aspetti oggettivi del modo con cui le economie reagiscono ai cambiamenti. Un altro aspetto è quello del livello della produzione e, quindi, dell’occupazione. Tale variabilità dei prezzi non ha un valore normativo di tendenza all’equilibrio stabile e, tantomeno, ottimale nel senso di Pareto.

I mercati, osserva Nuti, possono equilibrarsi ma solo in una dimensione temporanea. Nelle economie di mercato capitaliste, scriverà Nuti nel 2018 (“L’utopia dell’Equilibrio Economico Generale”), – ma sono idee che sostiene da tempo che va man mano affinando e che dagli anni ’70 a Cambridge avevano in Frank Hahn il principale teorico – non comandano i prezzi bensì le aspettative; non si può prevedere lo stato dei mercati futuri e dei mercati contingenti che dipendono da altri elementi. Pertanto nella situazione normale delle economie di mercato le questioni dell’occupazione e dello sviluppo non si risolvono principalmente con la flessibilità dei prezzi in rapporto alla variazione domanda. Il mondo, ripete più volte, è keynesiano. Ma in che senso? C’è, rammento, una persistente vulgata del keynesismo che intende per politiche keynesiane soltanto spesa pubblica ed emissione monetaria con vincoli molto limitati. Tuttavia quando Nuti afferma che viviamo in un mondo keynesiano si riferisce esplicitamente alla parte più teoretica di Keynes in cui l’economista britannico spezza l’automaticità della trasformazione dei risparmi in investimenti proprio per l’assenza di mercati futuri. Se questi esistessero i risparmiatori di oggi saprebbero come investirli fin da ora conoscendo appunto i mercati di domani. Dato che tale completezza intertemporale dei mercati non si potrà avere mai e poi mai, il risparmio non si trasforma automaticamente in investimento producendo così condizioni endemiche di disoccupazione e di sotto-occupazione.

Nel ragionamento di Nuti le nuove economie dell’est si trovano a vivere dunque in un mondo keynesiano, per cui una transizione socialmente sostenibile richiede politiche economiche e istituzionali basate non sulle ricette di terapia d’urto bensì su una sequenzialità programmata delle riforme. In questo contesto, nel 1995 Nuti sviluppa l’analisi dei pro e dei contro circa la privatizzazione e la formazione di un capitalismo istantaneo, iperliberista, ponendo la questione della natura dei regimi emergenti all’est e della fisionomia che sarebbe auspicabile essi assumessero. I temi sono quelli che riguardano il quadro della formazione dei mercati, delle debolezze statuali che può produrre una trasformazione istituzionale fondata su dei vincoli rigidi e sulla debolezza/assenza di ‘voce’ da parte della popolazione. Queste tematiche sono affrontate considerando il processo di entrata nell’Unione Europea.

L’idea riformatrice sostanziale di Nuti è di trovare dei modi per democratizzare i mercati in contesti in cui la trasformazione fondata sullo smantellamento e sull’inesistenza o quasi dei sindacati tolgono spazio di espressione socio-economica. Nuti ritornerà spesso sulla democratizzazione dei mercati, anche attraverso la creazione di istituzioni i cui elementi aveva in parte elaborato quando pensava alla trasformazione dei paesi a pianificazione centrale in economia socialiste di mercato. Nell’economia del capitalismo istantaneo, affermerà in interventi successivi, per una gran parte della popolazione i mercati sono quelli della Mosca di Eltsin con la gente impoverita, assolutamente senza ‘voce’, in piedi, ad inverno moscovita inoltrato, lungo le vie del centro con in mano le poche cose da vendere. Le tematiche summenzionate occupano una parte cospicua delle pubblicazioni degli anni ’90 del secolo scorso. In particolare tre monografie edite dall’ Institute for Public Policy Research di Londra, redatte assieme ad altri quattro autori di cui due colleghi di antica data di Cambridge: John Eatwell – nominato perfino membro della Camera dei Lord su indicazione laburista, alquanto diverso da Nuti per la sua adesione all’approccio sraffiano-ricardiano ma compatibile con Nuti per la sua notevolissima comprensione, sia concettuale che istituzionale, delle questioni di finanza e macroeconomia – e Michael Ellman diventato professore (oggi in pensione) ad Amsterdam, anch’egli eccelso conoscitore dell’est europeo e dell’Unione Sovietica (1).

Il primo decennio dell’attuale millennio trascorre con Nuti impegnato, tra le altre cose, a scrivere sulla questione dell’adozione unilaterale dell’euro da parte dei paesi dell’est su cui nel 2007 esprime un parere negativo. Nel medesimo anno pubblica un saggio molto importante, che in retrospettiva può essere considerato come il primo di una serie di riflessioni e di bilanci che elaborerà negli anni dopo il pensionamento raggiunto nel 2010. Dal titolo “Managing transition economies” (“Gestire le economie di transizione”), pubblicato in un volume collettaneo edito dalla Palgrave (2007), l’articolo presenta un bilancio partendo da lontano in quanto la prima parte è consacrata alla dinamica della crisi dei regimi socialisti. Nuti ribadisce che il sistema a pianificazione centrale ha funzionato per l’industrializzazione, per ottenere la vittoria militare e la conquista dello spazio. Spiega che le condizioni di eccesso di domanda e di inflazione repressa erano il risultato di una scelta deliberata di mantenere bassi i prezzi in quanto le autorità comuniste consideravano l’inflazione il peggiore dei mali del capitalismo.

L’alto livello dell’investimento da un lato risolveva il problema dell’occupazione ma, dall’altro riproduceva la situazione di eccesso di domanda. Con l’esaurimento dell’eccesso di forza lavoro agricolo il sistema entrava in collisione con la politica dell’alto livello di investimenti e con il mantenimento della fissità dei prezzi. Negli anni ’70 il collasso venne evitato grazie all’aumento dei prezzi mondiali di energia favorendo l’Unione Sovietica come esportatrice di gas e petrolio mentre i paesi dell’est potevano accedere a prezzi sovvenzionati al petrolio sovietico ed indebitarsi in petrodollari a bassi saggi di interesse. Queste opportunità si trasformarono in una trappola negli anni ’80 a causa dell’aumento dei saggi di interesse sul debito estero verso l’occidente, del calo dei prezzi del petrolio e a causa dei costi dell’invasione dell’Afganistan. Scrive: “La sola strada che rimaneva aperta era la restaurazione capitalista. Si avverrò quello che si usava dire a Mosca alla fine degli ’80, cioè che ‘il socialismo é la via più lunga tra il capitalismo ed il capitalismo’” (traduzione di J.H.).

Col termine Transizione, osserva Nuti, si definisce il passaggio da A a B, prefigurando una dinamica conosciuta e lineare. Ciò che accadde fu una grande trasformazione senza una traiettoria definita. Alcune cose dovevano essere fatte immediatamente come l’eliminazione dell’eccesso di domanda; non era però necessario cercare di schiacciare subito l’inflazione emersa con la prima operazione. Tuttavia le possibili alternative si rivelarono inattuabili per via degli obiettivi iperliberisti delle, politicamente, nuove autorità. In quest’ambito le banche centrali dell’est europeo assunsero una posizione ultra indipendente nel senso monetario aggravando la situazione. Si chiusero delle aziende che avrebbero potuto continuare a lavorare ed i disoccupati si sostituirono alle file di fronte ai negozi che esistevano nel vecchio regime. La recessione da trasformazione ha comportato alte perdite evitabili: in particolare fu smantellato il sistema di welfare, in precedenza gestito dalle imprese statali, senza crearne uno centralizzato; sui salari sono stati posti dei tetti e delle tasse punitive.

Le terapie d’urto si sono dimostrate fallaci dando ragione alle posizione dei gradualisti. Nuti riporta la valutazione espressa da Robert Mundell, economista teoricamente conservatore e premio Nobel, secondo cui la recessione post socialista é stata più grave della crisi del 1929 ed addirittura peggiore della “morte nera”. Il bilancio di Nuti si conclude con l’osservazione che nonostante i costi della recessione da trasformazione post 1989, per i nuovi membri nell’Unione Europea – gli otto entrati nel 2004 ed i due, Romania e Bulgaria, in procinto di accedere nel 2007 – le prospettive di un’ integrazione positiva sono alquanto buone.

Il ventennale del crollo dei socialismo est europeo e la profonda crisi finanziaria mondiale rilanciano l’esigenza di pensare l’insieme dei problemi che Nuti ha affrontato nella sua vita intellettuale. Nel 2009 apre il blog Transizione che meriterebbe una presentazione a se stante per l’interesse delle osservazioni ivi contenute e le discussioni con altri accademici. E’ da sperare che venga salvato. Dopo il 2010 Nuti allarga la riflessione sui paesi dell’est che diventano riflessioni sui sistemi e sulle teorie di riferimento. Tra i saggi che ho ritenuto, si registrano tra il 2009 ed il 2014 una decina di articoli e interventi sia in italiano che in inglese sulla Russia e sulla validità o meno delle vie intraprese per la transizione. In quel per periodo (2013) abbiamo anche un suo intervento in inglese ad un convegno all’Università di Trento sul tema dell’eurozona definita come “prematura, sminuita, divergente”.

Nel quinquennio 2014-2019 si notano interventi di natura storico-teorica molto interessanti tra i quali alcuni sulla validità o meno dell’analisi di Marx. In particolare, nel 2018 pubblica sulla rivista ungherese Acta Oeconomica un saggio che esprime una discussione su socialismo, capitalismo e mercato con l’economista ungherese Janos Kornai, uno dei maggiori dei paesi dell’est sin dal periodo della pianificazione centrale. Si tratta di un notevolissimo saggio le cui linee principali verranno presentate nel corso di queste note. Sempre sulla rivista ungherese scrive un articolo, in connessione ad un contributo di Kolodko – da lunga data suo collega, collaboratore ed amico di Varsavia – sull’esperienza cinese nei cui confronti, pur sottolineandone l’eccezionalità sviluppa delle critiche riguardo la sostenibilità del modello. Siamo ormai arrivati al 2019 ed il saggio sulla Cina rappresenta, a quanto mi risulta, l’ultima pubblicazione di Mario Nuti.

Cominciamo da una conferenza svolta nel 2009 ad un convegno tenutosi all’ Università Kozminski di Varsavia nel 2009. Il titolo della relazione di Nuti é “A counter-factual alternative for Russia’s post-socialist transition” (“Un’alternativa controfattuale sulla transizione post-socialista della Russia”). Definirei la lettura della sua relazione come obbligatoria. Nuti ricorda al pubblico che sia a Mosca che al CERN di Ginevra i fisici hanno mostrato la possibilità di viaggiare a ritroso nel tempo. Sale quindi in una di queste macchine da cui scende, – come Dr Who nella celebre serie televisiva britannica in cui una classica cabina telefonica londinese fungeva da macchina istantanea per muoversi nello spazio – nella Mosca del 1985 con Mikhail Gorbaciov appena nominato Segretario del PCUS. Mario va da Mikhail e si fa nominare consigliere economico. A questo punto inizia un racconto in doppia dimensione: la narrazione dei contenuti, tempi e modalità delle riforme del Gorbaciov reale cui vengono giustapposte quelle del Mikhail di cui é consigliere L’importanza del saggio sta nel fatto che entra profondamente nella venatura giuridico-istituzionale dell’ URSS mostrandone la simbiosi con le rigidità del sistema riguardo la pianificazione centrale. Il vero Gorbaciov attua delle riforme che non sbloccano nulla anzi, creano ulteriore confusione ed inefficienza, come la nuova legge del 1988 sulle cooperative che, invece di creare imprese in grado di procedere verso il socialismo di mercato, le trasforma in gusci di una privatizzazione magliara in quanto luoghi di un opaco subappalto da parte delle imprese statali.

Al ‘suo’ Mikhail Nuti dice che bisogna subito annunciare che esiste un sovraccarico inflazionistico, per dare un ruolo economico sia ai prezzi che alla moneta, senza eliminare il quale non é possibile riformare. La proposta é di far alzare i prezzi ed attuare un cambio monetario del rublo varando un rublo pesante in un rapporto di 10 a 1 per confiscare liquidità nascoste e somme di dubbia origine che contribuiscono al sovraccarico di inflazione. Nuti queste cose le dice anche al vero Gorbaciov, ossia al consigliere economico particolare del Segretario del Pcus Nikolai Petrakov. La risposta di Petrakov é che tali misure sono socialmente improponibili. Gorbaciov é al telefono e Nuti suggerisce, senza successo, di comunicare al Segretario le sue proposte. A Petrakov Nuti risponde che non ha alcun significato dire che il fallout nucleare dell’incidente di Tchernobyl sia socialmente inaccettabile.

Il sovraccarico di inflazione é come il fallout: c’é e va affrontato. L’incontro avvenne nel 1990 quando l’URSS entrava nel programma dei 500 giorni lanciato da Gorbaciov. L’URSS si disintegrò prima della fine di quel periodo e nel 1992 il socialmente inaccettabile aggiustamento dei prezzi si trasformò nell’accettazione obbligata di un tasso di inflazione di oltre il 2400% annuo. L’esercizio di Nuti mirava a mettere in risalto la responsabilità primaria del governo di Mikhail Gorbaciov nella distruzione dell’Unione Sovietica e del socialismo. In quegli anni, sostiene, esistevano ancora degli spazi per effettuare le ‘riforme che non furono’, per costruire un sistema di compensazione quando all’inevitabile aggiustamento dei prezzi alla domanda avrebbe dovuto seguire la necessaria stabilizzazione. Meccanismi compensativi incentrati soprattutto sul sostegno dei salari attraverso la fiscalità. Il ragionamento di Nuti è molto articolato sequenzialmente. A ruota della stabilizzazione interna affronta quella esterna alfine di rendere il sistema dei prezzi sovietico compatibile con i prezzi internazionali e con un sistema in cui le imprese stesse possano decidere sull’importazione dei beni necessari alla loro attività. L’articolo termina con delle ipotesi, anch’esse ovviamente controfattuali, riguardo il significato internazionale della trasformazione dell’URSS in un’economia socialista di mercato che, secondo Nuti, avrebbe almeno limitato l’espansione dell’iperliberismo ed evitato gli effetti devastanti della crisi post-socialista.

E’ certo che la problematica capitalismo-socialismo, crisi di quest’ultimo nonché il suo significato anche come possibilità mancate è stato un elemento principale dell’impegno intellettuale di Mario Nuti. Ciò si riflette ampiamente in un articolo su Acta Oeconomica del 2018, ma già in precedenza circolante in altre forme, che discute le posizioni di Janos Kornai. Quest’ultimo è un economista ungherese ormai molto anziano, nato nel 1928, di importanza mondiale. Il suo libro del 1980 The Economics of Shortage (Economia della penuria) ebbe un grande successo in quanto caratterizzava in tal guisa le economie socialiste centralmente pianificate. Recentemente Kornai é ritornato sul tema con un volume del 2013 in cui i sistemi capitalistici sono definiti economie del surplus, cioè dell’abbondanza di merci. Per il sistema socialista, invece, Kornai conserva la vecchia definizione di penuria. A Nuti, che conosceva Kornai da decenni, l’identificazione del socialismo con la penuria non piacque. Kornai associa inoltre gli avanzamenti tecnologici unicamente al capitalismo, nonché la stessa democrazia affermando che mentre é possibile avere capitalismo senza democrazia non é dato il contrario. Anche su questi due punti ha da obiettare.

Nella sua risposta Nuti osserva che le economie capitalistiche generano un surplus di merci (2) perché funzionano in base alla concorrenza monopolistica (oligopolistica direbbe Sylos Labini), all’ incertezza nella domanda e alle economie di scala. Il capitalismo, dice Nuti, si distingue per la rigidità verso il basso dei prezzi mentre i prezzi nelle economie socialiste tendono ad essere rigidi verso l’alto. Nuti aggiunge che all’esistenza del surplus di merci, nel capitalismo corrisponde endemicamente un surplus di forza lavoro nella forma della disoccupazione e sotto-occupazione. Rigetta pertanto l’idea che queste capacità produttive e di lavoro inutilizzate costituiscano solo dei margini di riserva utili per la dinamica innovativa del sistema. Le economie socialiste non si devono necessariamente caratterizzare per l’esistenza permanente di un eccesso di domanda e quindi di condizioni di penuria. Non c’è alcuna ragione assoluta che le debba legare al sovrainvestimento. Per ciò che riguarda le trasformazioni tecnologiche – che secondo Kornai cesserebbero del tutto se, per ipotesi, il pianeta dovesse diventare socialista – Nuti rammenta che le trasformazioni tecnologiche nel capitalismo sono dovute al ruolo determinante dello Stato non in senso minimalista di supporto ma come organismo imprenditore dominante, in primis attraverso il complesso-militare-spaziale e delle nuove tecnologie. Elenca a tal proposito i risultati della ricerca effettuata da Mariana Mazzucato nella monografia “Lo stato innovatore” (ultima edizione Laterza, 2020) in cui emerge l’assoluta dipendenza delle innovazioni dal settore pubblico statunitense.

In un articolo di valutazione critica di Marx apparso su Social Europe nel maggio del 2018 Nuti notava:

Una previsione in cui Marx ci azzeccò riguarda il progressivo immiserimento relativo del proletariato: mentre in termini assoluti il progresso economico ha immensamente innalzato i livelli di vita ed ha ridotto la povertà oltre ogni ottimistica aspettativa, in termini relativi, specialmente in questo secolo la quota di reddito e della ricchezza delle persone ricche è andata crescendo a ritmi che non hanno precedenza raggiungendo livelli record. (“La morte prematura di Marx”, traduzione di J.H.).

Questa osservazione si integra bene con la risposta di Nuti a Kornai riguardo la democrazia. Vi sono, afferma, molte forme di capitalismo e non si deve abbandonare la fiducia nella possibilità di trovarne delle migliori. Sfortunatamente “l’attuale dominio dell’ideologia neo-liberale, l’adozione generalizzata delle politiche di austerità e le pressioni competitive emananti dal nostro mondo globalizzato stanno vieppiù riducendo l’arco di scelta democratica riguardo il tipo di sistema capitalistico che preferiamo.” (Domenico Mario Nuti: “Kornai: shortage versus surplus economies”, traduzione J.H.)

Ecco come vedo Mario Nuti.
“A jolly good Fellow”. Una grande perdita; una grande tristezza.

NOTE

(1) John Eatwell, Michael Ellman, Mats Karlsson, Mario Nuti, Judith Shapiro), Soft Budgets, Hard Choices: the future of the welfare state in central eastern Europe, IPPR, London 2000.Stessi autori: Not ‘Just Another Accession’ – Political economy of EU Enlargement to the East, IPPR, London 1997.
Stessi autori: Transformation and Integration: Shaping the future of central eastern Europe, IPPR, London 1995

(2) Direi (J.H.) surplus potenziale di merci. Infatti se la produzione industriale eccede le vendite si accumuleranno delle scorte in magazzino. I venditori ridurranno gli ordini e le industrie ridurranno a loro volta la produzione licenziando una parte dei dipendenti. Le industrie cercheranno di evitare la riduzione dei prezzi mantenendo i margini di profitto per unità di prodotto. Di conseguenza , come mostrò Paolo Sylos Labini, nell’industria il surplus di merci si manifesta attraverso la formazione di capacità produttiva inutilizzata che segue al calo della produzione. Nell’agricoltura invece l’ eccedenza rispetto alla domanda porta direttamente alla caduta dei prezzi al produttore mentre l’andamento dei prezzi al consumo dipende dall’influenza della grande distribuzione che agisce, alla stregua dell’industria, da settore oligopolistico.

Joseph Halevi
Insight - Free thinking for global social progress

Free thinking for global social progress
Articles & Opinions
Antonio Lettieri
ITALY: A NEW RIGHT-WING GOVERNMENT IN THE EU CRISIS
Un nuovo governo di destra nella crisi dell’eurozona
Håkan Bengtsson
SWEDEN: LESS SPECIAL THAN IT WAS
Svezia: meno speciale di quanto non sembrasse
Mario Rusciano
MINISTRI, PURCHÉ SIANO COMPETENTI
Antonio Baylos
UN ACUERDO INTERNACIONAL EN LA INDUSTRIA DEL FÚTBOL
Carlo Clericetti
EU RULES, GERMANY LOOKING BACKWARDS
Regole Ue, la Germania guarda indietro
Claudio Salone
ELEZIONI-UN’OCCASIONE PER “NORMALIZZARE” IL SISTEMA
Thomas Palley
FLIRTING WITH ARMAGEDDON: THE US AND UKRAINE
Flirtare con Armageddon: Stati Uniti e Ucraina