Retorica delle riforme di struttura
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L'effetto recessivo delle riforme che comprmono la domanda. Tanto più grave se le stesse politiche vengono adottate contemporaneamente in molti paesi. Le cosiddette “riforme di struttura” diventano sempre più centrali nell’ambito delle politiche economiche raccomandate dalla Commissione Europea (CE) e dalla BCE. Lo spostamento dell’enfasi sugli obiettivi di lungo periodo risponde alle copiose critiche sugli effetti degli interventi pro-ciclici realizzati in Europa: il consolidamento fiscale deve garantire stabilità, ma in compenso la crescita sarà ripristinata attraverso le riforme, volte a far crescere il PIL potenziale. Trapela anche l’eventualità che un allentamento del rigore possa essere scambiato con gli interventi strutturali. Ma la focalizzazione sulle riforme sembra costituire soprattutto un ulteriore passo in una strategia di retrenchement dello stato e del welfare e di indebolimento del lavoro. I modelli usati per stimare gli effetti delle riforme (del tipo DSGE, Dynamic Stochastic General Equilibrium models), sono costruiti su ipotesi assolutamente poco plausibili e, nonostante il pretenzioso riferimento ad un equilibrio economico generale, non riescono effettivamente a tenere conto dei probabili mutamenti dell’intero sistema delle preferenze dei consumatori di fronte a riforme che presumibilmente sconvolgeranno il loro stile di vita. Il calderone delle riforme strutturali comprende operazioni di natura molto diversa. Possiamo classificarle in quattro filoni principali, a seconda che siano rivolte: a ridisegnare le istituzioni e la Pubblica Amministrazione; a rafforzare il capitale umano e la ricerca; ad accrescere la concorrenza sul mercato dei prodotti; a rivedere la regolazione del mercato del lavoro. Gli obiettivi del primo gruppo appaiono di pressoché unanime condivisione: riduzione della corruzione, dell’evasione fiscale e degli sprechi. In genere si suppone che queste riforme riducano i costi per le imprese. Qualche dubbio sorge tuttavia quando sotto questo titolo istituzioni internazionali e governi “nostrani” pongono una varietà di interventi, dalle dubbie operazioni istituzionali, quali l’abolizione del Senato e delle province, ai tagli di spesa pubblica per personale, servizi e prestazioni. Basti osservare che gli effetti economici dei grandi cambiamenti istituzionali sono generalmente irrilevanti o sostanzialmente incalcolabili – mentre sono assai controversi quelli sul buon funzionamento del sistema democratico, che richiederebbero approfondimenti e discussioni consapevoli. Il contrasto dell’evasione deve costituire un’azione quotidiana sorretta da un deciso indirizzo politico, non rappresenta una riforma. Si avrebbe bisogno di interventi puntuali e mirati per rimuovere problemi, interessi, sprechi e inefficienze, piuttosto che di grandi riforme. E in ogni caso la valutazione dei risultati è questione complessa, non basta cambiare il parametro di un modello econometrico. Anche il secondo gruppo di riforme promuove obiettivi piuttosto condivisi (anche se i mezzi sono meno evidenti), e ben vengano gli incentivi agli investimenti delle imprese e la spesa pubblica per R&S, nonché il contrasto alla dispersione scolastica. Il taglio alla spesa per istruzione e ricerca degli scorsi anni appare piuttosto un fraintendimento italiano, sia pure favorito dai vincoli finanziari internazionali e da una retorica delle riforme sbilanciata verso i vantaggi del privato. Spesso tale retorica è stata usata per giustificare i tagli, e le legittime critiche alla scuola, alla sanità si sono trasformate in attacchi mirati, volti a definanziare questi settori. Veniamo alle politiche che riguardano il mercato dei prodotti e del lavoro. Le prime si sostanziano in misure per la regolazione dei mercati e la concorrenza e si tradurrebbero in una riduzione del mark-up e delle barriere amministrative all’entrata di nuove imprese. Le seconde sono quelle più enfatizzate, e gli obiettivi sono l’aumento della flessibilità e la riduzione del costo del lavoro, considerato superiore ad un ipotetico livello “concorrenziale”, attraverso deflazione salariale (svalutazione interna) oppure spostamento dell’imposizione dal lavoro ai consumi (svalutazione fiscale). Questo stimolerebbe la partecipazione al mercato del lavoro e accrescerebbe la competitività. Si promuovono poi le politiche attive e quelle per favorire la partecipazione al mercato del lavoro (con una disoccupazione a due cifre e quella giovanile che supera il 40% in Italia!): ad esempio sembra che il rinvio dell’età di pensionamento assicurerebbe un aumento degli investimenti per l’effetto calmieratore sui salari della forza lavoro anziana. Ma questa impostazione non sembra trovare riscontro nella realtà. Gli studi delle organizzazioni internazionali danno atto dell’intensità dello sforzo di deregolamentazione del mercato dei prodotti e del lavoro in Italia dalla metà degli anni ’90, eppure proprio in questi anni la produttività ha mostrato performances particolarmente deludenti e la crescita è stata contenuta (anche prima della crisi); la correlazione tra la variazione degli indici di protezione dell’impiego e i livelli (o i tassi di variazione) della produttività nei paesi OCSE, nell’Eurozona e in Italia risulta nulla o addirittura positiva[i]. D’altronde, le analisi empiriche offrono risultati contraddittori sugli effetti delle politiche per la concorrenza e in particolare delle privatizzazioni, queste ultime spesso rivolte principalmente al consolidamento fiscale - trascurando il fatto che il patrimonio, oltre a produrre un rendimento, conta ai fini della sostenibilità del debito[ii]. Quanto al mercato del lavoro, recenti studi mostrano[iii] che le riforme potrebbero aver conseguito effetti positivi sull’offerta e forse sull’occupazione prima della crisi, ma negativi su produttività e crescita, mentre hanno abbattuto i salari e hanno peggiorato la qualità dei lavori; probabilmente flessibilità, ridotte tutele, contenuto costo del lavoro hanno spinto le imprese a investire meno sulla formazione e sull’innovazione, prediligendo la concorrenza sui costi piuttosto che sulla tecnologia; l’aumento dell’occupazione poco qualificata e instabile ha influito quindi negativamente sulla produttività. In un’impostazione che dia spazio agli effetti di domanda – a differenza dai modelli utilizzati per stimare gli effetti delle riforme - il ridimensionamento dei salari, l’aumento delle imposte indirette, il maggiore rischio sociale dovuto alla precarizzazione del lavoro comprimono i consumi e hanno dunque un effetto recessivo, tanto più grave se le stesse politiche vengono adottate contemporaneamente in molti paesi. Le conseguenze sull’occupazione appaiono evidenti, tanto più se si facilitano i licenziamenti. Eppure non emergono ripensamenti sulle riforme. Seguendo le indicazioni del cosiddetto Blue Print del 2012 (in cui la CE delinea il processo futuro di integrazione economica e politica), oggi si mira a collegarne l’attuazione con l’erogazione dei finanziamenti dei fondi europei, per arrivare a coordinarle ex ante attraverso uno “strumento di convergenza e di competitività”, nell’ambito della sorveglianza UE (con un percorso obbligatorio per gli Stati sottoposti a procedura per gli squilibri eccessivi), e nel medio termine a estendere il coordinamento e la sorveglianza al mercato del lavoro e alle politiche sociali. Solo nel lungo periodo il Blue Print prevede di poter arrivare ad “un grado adeguato di legittimità e di responsabilità democratiche del processo decisionale”. Appare inquietante che le riforme possano essere decise e imposte al di fuori di un contesto di decisione democratica, visto che esse, non rappresentando scelte tecniche oggettive con effetti ragionevolmente certi, rivelano un contenuto politico molto forte. [i] Si veda ad esempio M. Zenezini, 2014 (Riforme economiche e crescita: una discussione critica, Quaderni del dipartimento di economia politica e statistica, Università di Siena, n. 696, aprile), e P. Pini, 2014 (Produttività e regimi di protezione del lavoro, Keynesblog, 20 marzo). [ii] Una rassegna sugli effetti delle riforme pro-concorrenziali è in E. Podrecca, 2013 (Riforme del mercato dei prodotti e crescita della produttivià, Teoria ed evidenza empirica, Le riforme e l’illusione della crescita, Economia e società regonale, XXI(2)13, FrancoAngeli, Milano); sulle privatizzazioni il riferimento è a M. Florio, 2004 (Le privatizzazioni come mito riformista, Meridiana, n. 50-51, Viella, Roma), e 2013 (Privatizzazioni e debito pubblico, Csil, WP n. 4) [iii] Si vedano ad esempio Zenezini, 2014, cit., P. Pini, 2014 (Il Def e la teoria della “precarietà espansiva”, in Sbilanciamoci, 16 aprile) e gli studi econometrici di F. Damiani, M. Pompei, A. Ricci, 2011 (Temporary job protection and productivity growth in EU economies, MPRA paper N. 29698, marzo), e 2012 (Labour share and employment protection in European economies, MPRA paper N. 43058, dicembre). Stefania Gabriele
Economist, senior researcher at ISSiRFA-CNR. Main interests: public finance, welfare, health policies. |