Mentre in Italia l’attenzione è tutta concentrata sulle acrobazie di effimere formazioni politiche delle quali è difficile capire persino l’orientamento, la Germania batte un colpo sulla fondamentale partita della riforma delle regole europee. Ed è un colpo che fa risuonare una nota completamente stonata nel dibattito che era stato rilanciato dall’articolo di Draghi e Macron sul Financial Times, che rimandava a una proposta italo-francese firmata dai consiglieri economici dei due presidenti (Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller).
L’economista Massimo D’Antoni ha segnalato un documento del ministero tedesco per gli Affari economici e azione climatica, guidato dal vice cancelliere Robert Habeck, co-leader dei Verdi insieme ad Annalena Baerbock, intitolato “Proposta di principi per guidare il governo tedesco nelle decisioni sulla riforma delle regole fiscali europee”. Ci si sarebbe aspettati che un documento su questo tema arrivasse dal ministero delle Finanze, guidato dal liberale Christian Lindner: ma bisogna dire che, visti i contenuti, è difficile ipotizzare che Lindner non lo condivida.
Il ministro delle Finanze è un talebano della perniciosa politica economica che è stata imposta all’Europa, ad opera della Germania e dei suoi alleati, fino alla crisi provocata dalla pandemia, rispetto alla quale le misure decise per fronteggiarla – dalla sospensione delle regole fiscali al varo del Next Generation Eu – sembravano aver segnato una cesura. Finora, parlando delle regole europee, ha detto solo che non c’è bisogno di nessuna sostanziale riforma. Ma Habeck non sembra essere da meno. Il documento del suo ministero fa pensare alla famosa frase di Benedetto Croce dopo la caduta del fascismo, “heri dicebamus”, come dicevamo ieri, cioè alla ripresa di un discorso interrotto da una fastidiosa parentesi che può essere finalmente dimenticata per ricominciare dal punto in cui era iniziata, senza alcuna discontinuità.
Il documento è caratterizzato da due aspetti. Dal punto di vista degli obiettivi, quello centrale è il controllo del debito pubblico e la sua riduzione da parte dei paesi in cui è più elevato in rapporto al Pil. Dal punto di vista del metodo, la riaffermazione dell’importanza del bilancio strutturale per l’analisi dell’andamento delle variabili fiscali, con il suo corredo di stime sul prodotto potenziale e sull’otput gap.
Il bilancio strutturale è quella strana cosa inventata magari con una buona intenzione, cioè tener conto delle influenze temporanee della congiuntura sui conti pubblici, ma che ha dato ampie prove dell’assoluta inattendibilità di questi conti, producendo molto di frequente risultati paradossali. Ma è in base a quei risultati che gli organismi tecnici dell’Unione formulano le loro “raccomandazioni” (di fatto imposizioni) sulle politiche di bilancio, e questo in passato ha provocato danni molto seri. L’inattendibilità di questo metodo è stata messa in evidenza da un numero ormai maggioritario di economisti internazionali, e anche in molte delle proposte avanzate per la riforma delle regole europee se ne è caldeggiato l’abbandono. Nel documento di Habeck, invece, il suo uso resta assolutamente determinante.
Ad esso, per esempio, è legata una delle poche concessioni a una minore rigidità. La “regola del debito” (quella che stabilisce che vada ridotto di 1/20 l’anno) si considera soddisfatta se il bilancio strutturale è in pareggio. Una regola demenziale la cui sospensione dipende da conteggi inattendibili.
Sembra poi che il rischio di potenziale instabilità possa essere provocato da un unico fattore, cioè appunto il debito pubblico. Ora, nessuno di buon senso pensa che sia possibile far aumentare continuamente il debito come se non ci fosse un domani, ma si dovrebbe aver capito che il debito è uno strumento importante di politica economica. Nessuno è riuscito a dimostrare che esista un suo livello oltre il quale la crescita viene danneggiata (basta ricordare l’infelice tentativo in tal senso di Reinhart e Rogoff e gli studi successivi che l’hanno sconfessato). E quanto alla sostenibilità, chi pensa che si possa determinare con metodi matematico-probabilistici – come ad esempio si propone in una ipotesi elaborata dall’ex capo economista del Fmi Olivier Blanchard e altri – trascura un fattore assai più determinante, ossia quanto e da chi il debito possa essere garantito, il che dipende da decisioni formalmente tecniche, ma di fatto politiche. Detta più in chiaro, se c’è l’ombrello della Banca centrale l’instabilità provocata dal debito resta una possibilità remota, come l’ormai mitico whatever it takes di Draghi dovrebbe aver insegnato. Senza contare che qualsiasi stima sulla sostenibilità dei debiti andrebbe presa con le molle, come dimostra il fatto che la metodologia usata è determinante per il risultato che si ottiene.
Altri aspetti negativi del documento tedesco sono il fatto che non si prevede nessun adattamento delle regole alla situazione dei singoli Stati e che si vorrebbero maggiori automatismi nell’attivare le procedure di infrazione. Quanto agli investimenti, solo un po’ più di spazio per quelli relativi a riforme e progetti europei. Infine si propone anche che l’European Fiscal Board, un organismo tecnico della Commissione, venga reso indipendente, creando così un’altra struttura tecnocratica che non risponde alla politica.
Il documento segna insomma un netto passo indietro rispetto al dibattito sulle regole che si è sviluppato sinora. Ed è preoccupante anche il fatto che arrivi dal ministero guidato dal vice cancelliere e co-leader dei Verdi, che attualmente, dicono i sondaggi, sono i soli nella compagine di governo a guadagnare consensi. Secondo uno recente (dell’8 agosto) i socialdemocratici del cancelliere Scholz sono in caduta al 18% con quasi 8 punti in meno rispetto ai risultati elettorali, sorpassati appunto dai Verdi che sarebbero al 21,5 (con un guadagno quasi analogo) mentre in testa svettano Cdu-Csu con il 27%. In netto calo anche il liberali, l’altro partito della coalizione di governo, all’8% (contro l’11,4 delle elezioni) e superati dalla Afd (estrema destra) al 12,5%. Se anche i Verdi sposano la concezione secondo cui i provvedimenti anti-pandemia sono stati un’eccezione e bisogna tornare alla “normalità” precedente, questo è un segnale politico davvero preoccupante. Ne sarebbe vittima la speranza che l’Europa possa davvero cambiare.