"Ragionevoli utopie". Cultura giuridica del lavoro e cittadinanza sociale - Intervista a Umberto Romagnoli

Tra i protagonisti del diritto del lavoro dell’Italia repubblicana Umberto Romagnoli è il giurista che più si è interrogato sull’identità della materia in un continuo e aperto confronto con la dimensione storica come chiave privilegiata di lettura della cultura giuridica e delle trasformazioni del presente. Nei suoi scritti la storia non è prologo in cielo, fuga dalla realtà, orpello d’erudizione, ma strumento indispensa bile per la comprensione del diritto vivente, dei nessi fra logica giuridico-formale e società, lettura critica delle attualizzazioni del pas sato, bisogno reale di conoscenza, perché — come scrive —, per costruire il futuro, il presente obbliga sempre a fare i conti con il passato.
 
Romagnoli ha generosamente accettato di raccontare continuità e svolte, « cambi di passo » del suo percorso di ricerca. Programmata da qualche tempo, l’intervista s’inserisce perfettamente in questo numero dei Quaderni fiorentini dedicato a « Giuristi e Stato sociale ». L’idea di diritto del lavoro — scrive Romagnoli in un recente saggio — è mutata
« dopo l’eclisse della rappresentanza politica e sociale del lavoro »; un’eclisse che « opacizza la prospettiva di senso » e costringe a rivedere, senza « penose abiure », la chiave di lettura fiduciosamente utilizzata nell’avventura disciplinare del Novecento come ‘secolo del Lavoro’, a prender atto che il diritto del lavoro « ha poco da spartire con l’epicità, moltissimo con la cronaca quotidiana » (1). Dal racconto di Romagnoli il tema del Quaderno emerge appieno, tra dimensione epica e cronaca quotidiana, tra disincanto e ragionevoli utopie.
 

Ti sei iscritto nel 1954 alla Facoltà di Giurisprudenza di Bologna.
Com’eri approdato a quella scelta?
 
« Un uomo che vuole la verità diventa scienziato. Un uomo che vuole lasciare libero gioco alla sua soggettività può diventare scrittore. Ma che deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio? ». Quando è toccato anche a me affrontare il problema che si pone il protagonista di L’uomo senza qualità, pensai di poterlo risolvere iscri- vendomi alla Facoltà di Giurisprudenza della mia città.
Premesso che fin da ragazzino ho sempre avuto il pallino di diventare scrittore, non ho difficoltà a riconoscere che l’incipit del racconto del mio rapporto col diritto del lavoro l’ho trovato dopo averci pensato un bel po’. Mi seccava, infatti, esordire con la più disarmante delle banalità: un diciottenne con in tasca il diploma di maturità classica, un’incurabile allergia alla matematica, scarsa fiducia nella rimuneratività della laurea in Lettere e qualche speranza che quella in Legge avesse almeno il vantaggio del multi-uso, nel 1954 non poteva fare altro che sfidare la propria soggettività ad esercitarsi nella fabbrica degli operatori giuridici. Anche se il luogo gli era totalmente scono- sciuto; amenoché non fosse nella condizione che, anche oggigiorno, è la sola che consenta a un giovane di frequentarlo con qualche idea di ciò che forse farà quando ne uscirà: la condizione è quella di avere in famiglia avvocati o notai. Ed io non ne avevo.
 
Che ricordi hai della Facoltà giuridica bolognese? Quando avvenne il primo incontro con il diritto del  lavoro?
 
Il primo anno d’Università fu poco meno che disastroso. Il diritto continuava a sembrarmi una terra straniera dove si parlava una lingua astrusa, pressoché incomprensibile perfino a chi come me collezionava 30 e 30 e lode. Non per caso, infatti, l’unico corso che seguii con interesse (e il primo esame universitario che sostenni) fu quello di Economia politica. Anche se la cosa si spiega da sé: la sorte mi aveva regalato un docente di eccezionale levatura. Era Federico Caffè. Comunque, è soltanto nel II anno d’Università che il mio rapporto col mondo del diritto comincia a trasmettere segnali intelligibili.
Sarà perché sono i primi a giungermi, sta di fatto che mi coin volgono anche sul piano emotivo al punto che, con la complicità della stellare ingenuità dei miei vent’anni, mi lasciano di stucco; più o meno, come la prima cotta adolescenziale. Infatti, decido in fretta e furia che mi sarei laureato nella materia dove si era determinato il cortocircuito rivelatore e, subito dopo aver superato l’esame, mi precipito a chiedere la tesi al professore. La materia è diritto del lavoro e Tito Carnacini il professore.
 
Tito Carnacini — giurista liberale, attento a esplorare in quegli anni una materia « grezza e plebea » e capace di attrarre giovani al diritto del lavoro sino a fondare una scuola (2) — era un processualcivilista. Ti sei laureato nel 1958 con una tesi sulla successione a titolo particolare nel processo. Ti sentivi diviso tra il diritto del lavoro e il fascino di una materia ‘nobile’?
 
Può darsi che il diritto del lavoro mi fosse piaciuto soprattutto perché la didattica carnaciniana mi aveva sedotto. Anzi, questo dev’es- sere vero senz’altro. Infatti, nel III anno entrai in contatto col diritto processuale civile. Che mi stregò. Il docente era sempre Carnacini e, se la materia mi piacque di più, la ragione principale è che l’ascolto delle lezioni m’impressionò ancora di più. Il che dipendeva da circostanze tutt’altro che secondarie di cui venni a conoscenza soltanto in seguito. Non sapevo, cioè, che la Facoltà aveva conferito a Carnacini la cattedra di Diritto del lavoro solamente perché quella di diritto processuale civile era ricoperta da Enrico Redenti; che Carnacini ne era l’allievo prediletto e che avrebbe potuto trasferirsi nella cattedra di diritto processuale civile solo quando il maestro fosse andato fuori ruolo. Quindi, non sapevo che Carnacini, il quale aveva svolto un ruolo di rilievo nella commissione ministeriale incaricata di redigere il c.p.c. del 1942, non aveva mai pensato di fare del diritto del lavoro la disciplina della vita. Certo, per insegnarla l’aveva studiata, ma (come mi disse molti anni dopo) da explorator, non da transfuga. Insomma, non potevo sapere che la materia nella quale raggiungeva la perfezione nel pensare scientificamente e mostrare con semplicità era proprio il diritto processuale civile.
 
Comunque, la materia processualcivilistica mi era piaciuta più della giuslavoristica non solo a causa del superiore effetto- trascinamento delle lezioni. Riavvolgendo il nastro della memoria, come mi solleciti a fare, mi rendo conto che c’è un’ulteriore ragione. Più profonda e dunque legata più al mio percorso di formazione che all’insegnamento di Carnacini processualcivilista. Il fatto è che la grammatica e la sintassi del diritto processuale civile erano quelle della lingua parlata dall’élite del mondo del diritto degli anni ’50. Per questo, mi spingo ad affermare che, scegliendo di laurearmi in procedura civile, inconsapevolmente fornivo testimonianza di come si potesse concludere con piena coerenza il processo di interiorizzazione del clima culturale dominante nell’Università italiana dell’epoca, quello del positivismo giuridico. In conseguenza, è naturale che, a metabolizzazione avvenuta, guardassi al diritto del lavoro come ad una piccola provincia del sapere giuridico, mentre il diritto processuale civile mi appariva per quello che  era sul serio: allora, era una delle capitali più rinomate del mondo del diritto. Lì, formalismo, concettualismo e dogmatismo sono iper- valorizzati; epistemologia, paradigmi cognitivi e metodo sono rigorosa- mente ancorati allo ius conditum.
 
Apri il tuo volume Giuristi del lavoro, scrivendo: « Il giorno della laurea, quasi tutti i giuristi della mia generazione non avevano un’idea precisa di quale fosse realmente l’oggetto del loro interesse scientifico- culturale » (3).
 
Infatti, si racconta che un neo-laureato degli anni ’50 (e non uno qualsiasi: sarebbe diventato un capo-scuola della materia) era convinto che Fiom fosse la sigla di una federazione sindacale di medici ospeda- lieri. Non so se l’episodio sia vero. Però, in luoghi e tempi in cui la dogmatica è l’unico modo di studiare il diritto, quello del lavoro incluso, è del tutto verosimile. Inoltre, alla scarsa familiarità coi fatti, ed alla loro tendenziale irrilevanza ai fini della pre-comprensione del diritto del lavoro, si sommava la manipolazione del suo passato, nel senso che quello più prossimo era oggetto di demonizzazione e quello più remoto di mitizzazione. Se in giro ci fosse stata meno fretta di giudicare e più voglia di capire, si sarebbe invece dovuto ammettere che il secondo, il terzo e il quarto decennio del ‘900 erano stati, per aspetti tutt’altro che secondari, una stagione durante la quale sono proseguiti discorsi precedenti e si sono poste le basi per discorsi futuri.
Per questo, i giuristi del lavoro non si sono resi conto se non tardivamente che il patrimonio di sapere di cui disponevano ne faceva dei debitori del pensiero giuridico corporativo più di quanto la radicalità del sopravve- nuto mutamento politico-istituzionale non permettesse di supporre e, al tempo stesso, dei continuatori del Barassi-pensiero, ancorché rivisitato sapientemente da Francesco Santoro Passarelli. La straordinaria attitu- dine di questo prestigioso civilista a rielaborare in chiave logico- sistematica i dati normativi era anche il suo limite. Infatti, sapeva esporre verità convenzionali nella forma di un’adamantina concettua- lizzazione che, nemica della storicità, le assolutizzava, invogliando perciò intere generazioni di operatori giuridici a trasformarle in assiomi.

Così, nessuno si chiedeva come mai legislatori e interpreti si siano sempre mobilitati in difesa dell’aspettativa comune alla generalità degli imprenditori di poter contare su una manodopera docile, ubbidiente e pronta a identificare il proprio interesse in quello dell’impresa. Come mai, insomma, un sogno da considerarsi proibito nell’accezione prati- cata nel linguaggio corrente non fosse rimasto ciò che avrebbe dovuto rimanere, ossia il prodotto di una fantasia desiderante, e come mai uno zelante legislatore ne avesse sempre favorito la realizzazione scrivendo lo statuto dei diritti dell’imprenditore come capo dell’impresa assai prima dello statuto dei diritti dei suoi dipendenti. L’incontestata legittimità giuridica di un sogno proibito starebbe forse a significare che si fa solo retorica dicendo che " chi non lavora non ha, ma soprattutto non è"? che si sconfina nell’escatologia quando si asserisce con toni tra il declamatorio e il rivendicativo che il lavoro è il perno dell’esistenza del comune mortale, il mezzo della sua emancipazione e della sua auto- realizzazione?

Questi però sono interrogativi che all’inizio del mio percorso non mi ponevo, perché non avevo ancora perduto il candore necessario per dubitare che il diritto che dal lavoro prese il nome ne avesse preso anche la ragione. Soltanto adesso viene il sospetto che il nome che porta sia un (involontario?) depistaggio cognitivo. Adesso che l’incontro del lavoro col diritto nella forma raggiunta durante quello che Tony Judt definiva « il lungo momento socialdemocratico » dell’Europa del secolo XX è ormai un ricordo e c’è chi sostiene che sia stato un’avventura irripetibile. Però, anche adesso che mi vedo costretto a formulare i medesimi interrogativi, rimpiango di avere perduto il candore che mi ha protetto per un buon tratto di cammino.
 
Il fascino della ‘piccola provincia’ restava però forte. È per questo che intraprendi un viaggio dal Diritto processuale civile al Diritto del lavoro?
 
Quasi a mia insaputa iniziò presto il riordino della cassetta degli attrezzi che mi ero diligentemente procurato per costruirmi la chiave d’accesso al tempio del diritto. Infatti, a distanza di una decina di mesi dall’esame di laurea durante i quali pubblicai un paio di articoli ricavati dalla tesi, maturai la decisione di impegnarmi in un corposo saggio volto alla ricostruzione interpretativa di una norma del codice civile, l’art. 2117, trascuratissima dalla dottrina, ma non del tutto marginale nella prassi aziendale; una prassi che, a ragione, giudicavo figlia di un vetero-paternalismo anticipatore della previdenza integrativa dei tempi moderni.
Come dire: ero tornato alla prima opzione. Quella da cui mi ero allontanato perché mi ero convinto di avere scoperto il diritto. Quello vero. Vero perché non contaminato dai pregiudizi irriducibilmente pre-statuali o anche anti-statuali che fanno l’incompiutezza del diritto del lavoro, riducendolo a qualcosa che somiglia ad un semi-lavorato. Come, in effetti, pensavano in tanti (e chissà quanti pensano tuttora), pur preferendo dirlo sottovoce. Ho ancora vivo il ricordo di quando udii distintamente Luigi Mengoni mormorare a se stesso: « e adesso torno a studiare diritto », al termine di una conferenza di Gino Giugni su di un sistema di contrattazione collettiva come quello italiano tenuto insieme da poco più di spago e chiodi.
Non tutti però erano così discreti. Alberto Asquini, che nel 1964 presiedette la commissione della libera docenza cui aspiravo, non si trattenne dal chiedermi tra l’incredulo e il compassionevole cosa mi fosse capitato per rinunciare all’il- lustre primogenitura per un « piatto di lenticchie » (sic); tanto più che avevo conseguito il premio nazionale Carlo Maria De Marini bandito a cadenza biennale dall’Università di Genova per la migliore tesi di laurea processualcivilistica e ciò significava che il salotto buono dei processualcivilisti riponeva su di me qualche speranza. « La piccola medaglia che egli riceve », sono infatti le parole che mi rivolse pubblicamente Salvatore Satta in chiusura della cerimonia genovese svoltasi nel 1961, « non è soltanto un onore, è anche un onere, perché costituisce un impegno per l’avvenire ». Un avvenire da studioso del processo civile, naturalmente. Che, viceversa, non ci sarebbe stato se non nei limiti in cui può interessarsi di diritto processuale un giurista del lavoro: infatti, nel 1969 ho scritto Le associazioni sindacali nel processo, uscito non a caso nella collana dei Quaderni dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, e, nel 1971, partecipai al rituale convegno nazionale dei processualcivilisti con una relazione sugli Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori.
 
Dove e come si produsse il disincanto nei confronti del diritto processuale civile?
 
Il disincanto si produsse con discreta celerità. Segno, potresti giustamente osservare, che non c’erano granitiche certezze da sgretolare; però, è noto che anche un gocciolio insistito scava la roccia. In fondo, proprio di questo si trattava. Infatti, cominciai a ripensare la scelta di campo che credevo definitiva subito dopo avere iniziato a frequentare una sede privata di formazione della cultura giuridica di cui prima non conoscevo nemmeno l’esistenza, anche se era strettamente connessa all’ambiente universitario. Era la sede della direzione della Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, fondata nel 1947 da Enrico Redenti (con Antonio Cicu) e diretta da Tito Carnacini, dove una nutrita redazione (di cui presto divenni parte: tre anni dopo Giorgio Ghezzi e un paio d’anni prima di Luigi Montuschi) si riuniva tutte le sere, all’incirca dalle 19 alle 20.30.
Il segretario di redazione era Federico Mancini, a quel tempo professore incaricato dell’Università di Urbino.
È stato lui a insegnarmi a correggere le bozze, a curare l’editing dei materiali per allestire i fascicoli; come si gestiscono i rapporti con la tipografia e come si mantengono o si cercano i contatti con i collabo- ratori esterni. Intanto, però, si conversava. Si conversava tanto, perché il nostro comunicare era godibilmente scorrevole. Si conversava tanto e di tutto. Anche di diritto del lavoro, ovviamente. Dello stato arretrato degli studi del settore come del nuovo che, sia pure sottotraccia, si muoveva nelle file dell’accademia. In proposito, Federico mi parlava con particolare calore di un suo grandissimo amico che ammirava  al limite dell’invidia anche perché — diceva, sbalordendomi — era un outsider: « sostanzialmente, un autodidatta », lo ha definito di recente Paolo Grossi, probabilmente sbalordito anche lui. Professore incaricato dell’Università di Bari, si chiamava Gino Giugni. Federico non tardò a consigliarmi di leggerne la già fitta saggistica — che, assicurava, mi avrebbe squadernato sotto gli occhi inimmaginabili scenari — e volle farmelo conoscere personalmente.
 L’incontro sprigionò la scintilla di un feeling destinato a trasformarsi in un amen in un rapporto che, mal- grado il tu colloquiale che per volontà di Gino cominciammo subito a scambiarci, non perse mai natura e caratteristiche costitutive di quello che si stabilisce tra maestro e discepolo. Un rapporto che non è mai autenticamente paritario, eppure non incute soggezione e perciò, a suo modo, è magico. La primazia del maestro è resa inattaccabile non tanto dalla devozione del discepolo quanto piuttosto dalla gratitudine del medesimo verso chi gli ha insegnato a diventare ciò che è e voleva essere. In effetti, il sodalizio che si stabilì immediatamente tra noi ha accelerato i tempi di definizione del settore dell’ordinamento oggetto del mio interesse scientifico-culturale. Ne ricevevo l’impulso ad allar- gare la ricerca alle dinamiche che precedono e seguono la scrittura della norma e difatti è solo per questa via che sono arrivato a vedere la faccia nascosta del diritto del lavoro.
 
Ecco: a questo punto della narrazione hai già compreso, ne sono sicuro, come si sia determinata la svolta nella mia biografia intellettuale documentata dalla pubblicazione sulla Trimestrale (nel 1960) del mio primo articolo in materia di diritto del lavoro. È stata una svolta, tutto sommato, più ad homines (in numero, come è sempre stato chiaro a tutti, non inferiore a tre) che ratione materiae. Un’ammissione del genere non è nuova. La fece anche Giorgio Ghezzi, interpellato nel 2000 da Lavoro e diritto sul perché in gioventù avesse piantato la tenda nel territorio del diritto del lavoro. L’unica differenza è il numero degli uomini che influenzarono la sua scelta: Giorgio nomina soltanto Carnacini e Mancini.
 
La « Rivista trimestrale di diritto e procedura civile » ha avuto un ruolo essenziale nel Tuo itinerario scientifico e, più in generale, per il diritto del lavoro.
 
La Trimestrale, diceva spesso Carnacini, « ha le spalle larghe ». Alludeva alla molteplicità degli itinerari disciplinari percorribili da una rivista di dibattito generalista. In effetti, pubblicando scritti che spazia- vano dal diritto processuale al diritto sostanziale, pubblico e privato, fino alla teoria generale e alla filosofia del diritto, la Trimestrale si era affermata come una rivista di scienze giuridiche tout court. Ma Carna- cini alludeva anche alla consistenza fisica delle annate cui, peraltro, teneva moltissimo giudicandola il sintomo di una rivista prosperosa: mai inferiore alle 1400 pagine, spesso sfondava quota 1600, suscitando le lagnanze dell’editore. Io, invece, all’espressione da lui usata ho sempre attribuito un diverso significato che aveva a che fare con la statura accademica dei suoi padri-padroni.
Come dire: anche secondo me la Trimestrale aveva le spalle larghe, ma nel senso che l’indiscusso prestigio accademico sia del fondatore sia del direttore funzionava da polizza di assicurazione contro il rischio di rigetto o emarginazione cui erano esposti gli innovatori dell’italian style di studiare il diritto del lavoro che vi pubblicavano i propri scritti. Io, per esempio, vi pubblicai nel 1962 Politica e tecnica della contrattazione collettiva (allora, bastava un titolo del genere per far trasecolare gli operatori giuridici) e, nell’anno precedente, avevo pubblicato pagine insolitamente urticanti sulla job evaluation: una novità assoluta in materia di classificazione professionale della manodopera che, per quanto all’epoca se ne chiacchierasse parecchio perché si poneva in rotta di collisione con l’art. 2103 c.c., ero uno dei pochi a conoscere bene. In quel periodo, infatti, dirigevo l’ufficio-studi sinda- cali, composto peraltro solo da me e dunque ridotto all’osso, di una grande società siderurgica a p.p.s. con sede a Genova che, con l’assi- stenza tecnico-professionale di Giugni, aveva negoziato coi sindacati l’introduzione dell’inusuale metodo classificatorio made in USA.

La verità è che una rivista geneticamente non di tendenza, qual era la Trimestrale, recava dentro di sé il possibile nucleo fondativo della rivista d’indirizzo che il diritto del lavoro non aveva mai avuto. In effetti, le pochissime esistenti o non godevano dell’indispensabile indipendenza politico-culturale (come il Massimario di giurisprudenza del lavoro, legato alla Confindustria o la Rivista giuridica del lavoro, legata alla CGIL) o conservavano robusti legami con l’ideologia giuridico- politica che aveva promesso una società pacificata, assistita, gerarchicamente ordinata, ma senza classi contrapposte. È il caso del periodico di dottrina e giurisprudenza Il diritto del lavoro fondato nel 1927 da Giuseppe Bottai a pochi mesi di distanza dall’emanazione della Carta del lavoro.
« Se oggi », disse Gaetano Castellano in apertura del seminario promosso dalla Trimestrale per fare il bilancio di un trentennio di attività, « dobbiamo concludere che la rivista ha diffuso cultura, lo possiamo fare con riferimento a quei settori e a quei periodi nei quali la cultura era prodotta all’interno della rivista stessa ». È un giudizio critico che, per implicito, colloca la Trimestrale tra le riviste-bazar; neanch’io, del resto, nella medesima occasione ero stato indulgente, dal momento che l’avevo definita con le parole usate da Stendhal per definire il romanzo: uno specchio che passa per la strada e riflette quello che c’è. Può darsi che la severità della valutazione compiuta da Gaetano (un caro amico dai tempi del liceo che, ahimè, se ne è andato troppo presto) fosse eccessiva. A me, però, sembrò lusinghiera, perché riflet- teva bene quel che era successo nel rapporto della Trimestrale col diritto del lavoro soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori.
 Sbagliava, infatti, Luciano Spagnuolo Vigorita, incaricato di svolgere una relazione sulla trentennale presenza della Trimestrale nell’ambito del diritto sindacale e del lavoro, a ravvisare una netta cesura tra un prima e un dopo, contrapponendo « un periodo accademico » (id est, conformismo, in sintonia col grigio dominante) ad « un periodo politico » (id est, scapigliatura colorata di rosso). Lo scorcio finale degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70 sono semplicemente quelli in cui sulla Trimestrale s’infittiscono gli scritti di diritto del lavoro, mentre è la linea di continuità col decennio precedente che finisce per prevalere. Prevale nella misura in cui la straordinaria evoluzione della materia sospinta da eventi storico-politici d’insolita grandezza permette al nucleo di giovani giuristi del lavoro che la favorevole congiunzione astrale degli anni a cavallo tra i ’50 e i ’60 aveva radunato nello staff della rivista di mettere diversamente a profitto la legittimazione culturale generosamente ac- cordata. Se prima se ne erano serviti per farsi accettare nella comunità tradizionale dei giuristi, o perlomeno per semplificare la vicenda- cooptazione che li riguardava personalmente, adesso se ne servono per accarezzare l’idea d’essere riconosciuti come una scuola di pensiero in rottura con la tradizione.
 
Alludevi prima alla direzione dell’ufficio studi sindacali all’Italsi- der. Che importanza ha avuto per Te quell’esperienza?
 
Un’importanza  determinanteFui assunto nel 1961 all’Italsider cui venni segnalato da Giugni, allora consulente dell’IRI. Non fu soltanto la soluzione (provvisoria?, non potevo certo saperlo) di un problema esistenziale. Certamente, da assistente volontario (che era il gradino più basso della carriera univer- sitaria d’una volta) senza serie speranze di ruolizzazione in tempi brevi, sognavo di poter fruire di una fonte di reddito che mi consentisse di proseguire lo studio post-universitario del diritto del lavoro. Sognavo cioè di imitare Giugni che, con un piede dentro e uno fuori dell’Uni- versità, dimostrava che la cosa era fattibile; e Giugni, che l’aveva capito, dovette trarne motivo di auto-compiacimento, anche se non me lo disse mai. Tuttavia, sia io (alle dipendenze dall’Italsider) che Gino (organicamente inserito nella sede romana dell’IRI) avevamo in mente un progetto in qualche modo strategico. Come ci dicevamo tra noi, lo stare con un piede dentro e uno fuori dell’Università corrispondeva all’idea di diritto del lavoro che condividevamo. Entrambi eravamo fermamente persuasi che, dal punto di vista culturale, « il futuro della materia » (espressione che Gino usava spesso) non poteva essere assicurato da libri scritti a mezzo di altri libri e ritenevamo che occorresse conoscerne l’esperienza applicativa.
Per conoscerla senza intermediazioni involontariamente deformanti come, a nostro parere, la stessa giurisprudenza, l’ideale era stabilire contatti diretti con la quotidianità del mondo della produzione e il nostro modello di vita lo consentiva. Insomma, pensa- vamo di avere trovato la maniera giusta per soddisfare il bisogno di guadagnare un po’ di soldi per mettere su famiglia e, al tempo stesso, praticare un metodo di studio del diritto del lavoro adeguato alla sua specificità: tutto in nome del progresso della scienza giuridica. Le parole possono apparire esagerate, ma un tantino esagerata (ed anche, lo so bene, di comodo) era pure la fede che ci animava o, perlomeno, caro Giovanni, sosteneva chi ti parla.
 
L’esperienza lavorativa lasciò un segno scientifico tangibile nella Tua monografia del 1963 sul Contratto collettivo d’impresa? In quel libro la tensione verso un affrancamento dal formalismo e dal concettualismo è particolarmente forte, e costante è il riferimento all’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva di Giugni. Utilizzarne l’insegna- mento per un’indagine di diritto positivo — scrivi — significa « servirsi con estrema cautela dei procedimenti derivanti dalla logica giuridica astratta » e affrontare i problemi « in stretta aderenza alla realtà effettuale ». Nel libro la ricerca della « nota realistica che caratterizza l’autonomia collettiva » è ripetutamente opposta alle « astrazioni aberranti » e al « positivismo giuridico di tipo ottocentesco che identificava la giustizia con la legalità » (4).
 
Si, la monografia sul Contratto collettivo di impresa celebra l’apologia del nesso esistente tra il diritto del lavoro e la sua dimensione fattuale. Non poteva essere diversamente. E non solo per ciò che ho appena finito di raccontare. Il fatto è che, per il diritto del lavoro, si era aperta da poco la stagione della giuridificazione spontanea dei rapporti sindacali ed io me ne consideravo lo starter junior, aiutante dello starter senior che era Giugni. Sino ad allora il sistema di relazioni industriali era rigidamente imperniato sul principio dell’esclusività del contratto collettivo nazionale di categoria e l’establishment confindustriale lo difendeva a spada tratta siccome equivaleva alla neutralizzazione del rischio di presenza del sindacato nei luoghi di lavoro. Si dà il caso però che l’Italsider fosse un agguerrito avamposto in mano a boiardi di Stato la cui voglia di potere si esprimeva anche nella rivendicazione di maggiori spazi per la contrattazione aziendale integrativa e/o modificativa; una rivendicazione indirettamente appoggiata da sindacati che, come quelli italiani, avevano sempre visto una terra irredenta nel mondo del lavoro dal quale erano usciti in seguito al patto di Palazzo Vidoni degli anni ’20. In effetti, anche la sola presenza nei contratti centralizzati di clausole di rinvio alla contrattazione ai livelli inferiori su determinate materie equivaleva per loro a una potenziale limitazione dell’unilaterale amministrazione dei rapporti di lavoro da parte delle Direzioni aziendali. Non fu un caso, invece, che io scegliessi come argomento della monografia un fenomeno di sottobosco sul quale né la dottrina né la giurisprudenza avevano ancora posato lo sguardo. Nemmeno io lo conoscevo; ma stava crescendo sotto i miei occhi e, dato che partecipavo direttamente alla sua crescita, avevo l’opportunità di analizzarne da vicino contesto e contenuti.
 
La scelta del tema coincideva dunque con una scelta di vita e con una precisa scelta di metodo nello studio del diritto del  lavoro?

Indubbiamente, la scelta tematica e metodologica si raccordava alla scelta di vita. Bisognava però dare una veste giuridica ad un istituto statu nascenti. E proprio questo era il problema. Come ritrascrivere in termini giuridici un vuoto di diritto? Come convincere la commissione per la libera docenza che avevo scritto una monografia giuridica? Beh, ci voleva un po’ di coraggio e un po’ di estro creativo. Ne riporto una frase rappresentativa, una delle tante. « Sotto l’aspetto dogmatico, la clausola di rinvio è configurabile come un negozio giuridico bilaterale la cui efficacia è talora subordinata sospensivamente all’avveramento di una condizione potestativa: atipico e non di rado congiunto con un negozio (preparatorio) che ha le caratteristiche del contratto normativo ». Forse, è a causa di un linguaggio del genere che Giugni un giorno ci scherzò sopra dicendo che « avevo l’abitudine di pensare in tedesco » ciò che scrivevo. La verità invece è che il contorsionismo verbale era la spia degli ostacoli da superare per guadagnarsi il consenso del ceto dei professori di diritto dell’epoca e fargli capire che non ero diverso da loro.
A distanza di tanti anni, riconosco che era una forzatura e, come quella del bimbo che per darsi coraggio fischietta nell’attraversamento notturno di una foresta, esprimeva più paura che spavalderia. Nume- rose infatti erano le forzature; e non solo linguistiche. Anche qui, un solo esempio: il titoletto del paragrafo « Clausola di rinvio e contratto collettivo d’impresa: elementi di una fattispecie complessa a formazione successiva? ». Però, ero in buona compagnia. Infatti, la tesi che criticavo per eccesso di dogmatismo era stata avanzata da Giorgio Ghezzi in uno scritto del 1962. Per farla breve, il sottotitolo taciuto del libro era: dogmatica, che passione! Però, non è il caso di ironizzare troppo. Non posso negare che considerai salvifico un articolo di dogmatica allo stato chimicamente puro sui Negozi giuridici collegati del 1937. Mi salvò perché apprestava un apparato concettuale più adatto per la sistema- zione teorica del bricolage in cui si stava esibendo l’autonomia collettiva all’inizio degli anni ’60 e presentava il vantaggio di essere stata elaborata da un giusprivatista che, quando scrivevo, era già un classico (Michele Giorgianni).
 
Allora, d’altra parte, non potevo rendermi conto che, in materia sindacale, senza saperlo né dirlo « così fan tutti ». In effetti, mi sono venuto persuadendo che il ricorso alle categorie di pensiero mutuate dal linguaggio della tradizionale cultura giuridica sia stato il costante modus operandi dell’intera dottrina e, ancora prima, di una compatta giuri- sprudenza, dalle toghe d’ermellino in giù, e che esso abbia un carattere strumentale. Serve per farsi perdonare di voler attribuire di fatto al contratto collettivo un’efficacia vincolante para-legislativa, assecondando così agenti contrattuali che si comportano con l’intima persuasione di dover tutelare il singolo con riguardo meno alla sua (eventuale) veste di associato che a quella (pressoché certa) di destinatario degli effetti del contratto. Per questo, mi sembra che sia intellettualmente onesto riconoscere che la giurisprudenza ha trainato la dottrina a fare sua una concezione del contratto collettivo che lo equipara a un grande serbatoio idrico che richiede l’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica ed è stata lei ad insegnare come sia possibile, in un sistema di civil law, civettare con l’empirismo del common law che permette di adottare gli stratagemmi idonei a far arrivare la corrente elettrica in tutte le abitazioni.
 
A proposito di approccio empirico hai spesso ricordato l’invito di Enrico Redenti a non essere ‘prigionieri dei libri’ e di una scienza posta soltanto a ridistillare concetti, definizioni, distinzioni e classificazioni. Quanto pesava nel Tuo approdo al diritto del lavoro l’eredità di Redenti, il suo invito a « partire dai fatti,
non dai dogmi »?

 
Per la verità, sono approdato al diritto del lavoro quando la cultura giuridica non aveva ancora cominciato a recuperare la memoria degli inizi né era interessata a sapere come si fossero formate, a cavallo tra l’800 e il ‘900, le regole del lavoro dipendente. Per questo, non potevo nemmeno lontanamente sospettare che « il canuto signore », come la penna lieve di Mancini ritrasse Enrico Redenti, « che andava in giro con la lobbia, una sciarpa bianca, un bastone da passeggio col pomo d’avorio » fosse annoverabile tra i padri putativi del diritto del lavoro. Il suo portamento mi incuriosiva, ma non ero in grado di arguire che esprimesse la cifra stilistica del giurista che aveva dato voce all’immaginario perbenista di una borghesia produttiva desiderosa di valorizzare il « tipo di contratto di lavoro praticamente in uso fra galantuomini ». Compito, questo, adempiuto con l’entusiasmo di un neo-laureato per conto del Consiglio superiore del lavoro che lo aveva incaricato di distillare la « comune coscienza giuridica in merito al contratto di lavoro » dagli orientamenti decisionali espressi da una magistratura speciale, i probiviri industriali, istituita nello scorcio finale dell’800 ad imitazione dei prud’hommes francesi per gestire un conten- zioso senza precedenti come quello operaio che trovava impreparati tanto i governanti quanto il ceto giudiziario. Come ho già raccontato, andavo quasi tutte le sere in via Guerrazzi 1, dove aveva sede la Trimestrale; perciò, mi capitava spesso di incrociare Redenti.

Lui, però, non mi parlò mai dell’esperienza dell’avventuroso sbarco compiuto da quel ventenne nell’insula in flumine nata in seguito ai sommovimenti tellurici d’incalcolabile portata che stavano cambiando il paesaggio di un paese in uscita dall’età pre-industriale: le ciminiere che si stagliavano nel cielo accanto ai campanili, un’organizzazione sindacale che canalizzava l’antagonismo di moltitudini di emarginati ed un mercato del lavoro che nessun giurista riusciva a situare nei propri schemi mentali se non accostandolo ai mercati di bestiame; non a caso un disinibito Francesco Carnelutti non si tratteneva dall’equiparare il contratto di lavoro alla compravendita. Quindi, non ho difficoltà a confessare che il mio percorso di formazione mi ha fatto incontrare il Massimario della giurisprudenza dei probiviri. Introduzione, ordinamento e chiose del- l’Avv. Dott. Enrico Redenti solamente a distanza di 62 anni dalla sua pubblicazione. Sino ad allora, ne conoscevo a mala pena l’esistenza.
é avevo letto il saggio di Giuseppe Messina sui concordati di tariffa pubblicato nel 1904 sulla mitica Rivista di diritto commerciale. Su di esso, peraltro, era caduta una coltre di oblio ancora più pesante, se possibile. Nemmeno menzionato dai numerosi colleghi che scriveranno dotti necrologi dell’autore scomparso intorno alla metà del secolo scorso, soltanto nel 2000 sarà rivalutato da Paolo Grossi al punto di riconoscere nel suo autore il « padre fondatore della moderna scienza giuslavoristica ». Anche Messina si era astenuto dal colonizzare una « plaga di terreno vergine » abitata da giudici dilettanti e agenti negoziali improvvisati. Infatti, come scrisse Carnelutti per elogiare il Massimario che racchiude le regole costitutive del minuscolo nucleo origina- rio del moderno diritto del lavoro, anche Messina aveva scelto di dissodarla con « l’aratro e il sarchio ».
In conclusione, se la lezione di realismo giuridico impartita da questi studiosi non ha potuto agire su di me come un rassicurante viatico, ha funzionato però come gratificante conferma che solo la devianza dai canoni della tradizione permette al giurista di ridurre al minimo il rischio di adulterare natura e funzione di un diritto di frontiera; capire che è il prodotto di un ininterrotto bricolage e accettare che il suo know-how sia quanto di più anonimo, estemporaneo e événementiel si possa immaginare.
 
"La prestazione di lavoro nel contratto di società", 1967, è una monografia ‘storico-dogmatica’, così almeno la classificò Tarello. Condividi la definizione? Cosa Ti spinse in questa nuova direzione?
 
Giovanni Tarello non argomentò mai quel giudizio, peraltro formulato con testuale riferimento a Le associazioni sindacali nel processo del 1969. Può darsi però che fosse semplicemente sorpreso da una singolare metamorfosi. In effetti, non poteva non meravigliarlo il per- sistere in quella monografia della discontinuità di approccio rispetto alla monografia d’esordio; una discontinuità che, però, era già emersa nella seconda monografia (1967). Ad ogni modo, il mio profilo scientifico-culturale si era modificato sul serio e lo stupore di Giovanni non era certo immotivato. Ma non era neanche superiore al mio. Carnacini non me lo aveva detto, ma non escludo che lo abbia pensato: Romagnoli, basta con la sociologia. Fatto sta che mi suggerì di scrivere la seconda monografia su di un tema che aveva caratteristiche diametralmente opposte a quelle del tema affrontato nella prima. Questo era immerso nella realtà effettuale, quello non vi aveva apprezzabili riscontri.
Sulla figura del socio-lavoratore (socio d’opera o d’industria, nel lessico legislativo) la dottrina era sostanzialmente silente e i repertori giurisprudenziali sostanzialmente muti. Nelle biblioteche era reperibile soltanto un libro del 1939 la cui lettura non credo abbia mai acceso neanche una lampadina nella testa di un lettore. La legislazione ordinaria si occupava soltanto, e marginalmente, del socio che conferisce lavoro in quelle società sui generis che sono le cooperative di produzione. L’unico riferimento rinvenibile nel codice civile è il telegrafico e, ictu oculi, enigmatico 2° comma dell’art. 2063 rubricato Ripartizione dei guadagni e delle perdite, il quale stabilisce che « la parte spettante al socio che ha conferito al propria opera, se non è determinata dal contratto, è fissata dal giudice secondo equità ». Ciononostante, nell’ambiente il tema era generalmente considerato una ghiottoneria per giuristi sofisticati. Evocando incontri/scontri tra principi e regole appartenenti ad assetti normativi virtualmente antagonistici come il diritto del lavoro e il diritto commerciale, la sua raffinatezza era indiscutibile.
A mio favore, giocava soltanto la risorsa-tempo. Che, nel frattempo, era diventata improvvisamente abbondante. (Nel 1964, l’anno della libera docenza, ero rientrato nell’Università in qualità di assistente ordinario di Mancini, con uno stipendio pari al 50% di quello che mi corrispondeva l’Italsider). Nondimeno, al di là delle intenzioni, l’autorevole suggerimento equivaleva ad una sfida.
La sensazione che avrei potuto vincerla spuntò dopo avere gettato uno sguardo sull’antecedente della disposizione del c.c. 1942. Secondo l’art. 1717 c.c. 1865 — traduzione fedele della corrispondente norma contenuta nel codice civile napoleonico — la parte dei guadagni e delle perdite spettante al socio d’industria, nel silenzio del contratto, era « regolata come la parte di colui che nella società ha conferito la somma o porzione minore ». Intuii subito che il principio dell’equivalenza iuris dell’attività del socio d’opera al conferimento del più piccolo dei soci di capitale era un indizio meritevole di approfondimenti.
Ne ebbi la conferma sfogliando il manuale (un capolavoro nel suo genere) di Istituzioni di diritto romano di Vincenzo Arangio-Ruiz sul quale avevo preparato l’esame nel 1954. Vi lessi che la figura del socio d’opera era nota ai Romani. È qui che ho cominciato a dipanare la matassa ed è da qui che è partita l’indagine. Un’indagine che mi avrebbe chiarito che, sull’argomento, il pensiero giuridico romanistico spadro- neggiava e mi avrebbe fatto scoprire, nel sottosuolo della scarna e pressoché dimenticata norma del c.c., un vastissimo giacimento. È durante gli scavi, condotti tra molte difficoltà, che incontrai la dimen- sione storica del diritto. In proposito, Giovanni, ti prego di non trovare esagerato ciò che sto per dirti: il mio entusiasmo cresceva via via che la ricerca si allargava alla Glossa e al diritto intermedio. Infatti, non appresi soltanto che la società « uno pecuniam conferente, alio ope- ram » ha conosciuto la più ampia diffusione in età medioevale. Appresi che l’istituto aveva svolto un ruolo delicato: aveva accompagnato il tramonto della società agro-pastorale e la transizione alla società mercantile. Più in generale, nel corso della ricerca durata circa tre anni, appresi che la storia giuridica non è prologo in cielo né scolastica erudizione. È comprensione e ricostruzione in chiave diacronica dei nessi tra logica giuridica e trasformazione della società, è lettura critica degli svolgimenti normativi finalizzata all’attualizzazione del passato e alla storicizzazione del presente. Sotto questo profilo, una disposizione del codice civile che sembrava incapace di parlare ai contemporanei acquista la capacità di parlare il linguaggio della modernità. In effetti, l’equità cui si richiama è la maniera di ammorbidire principio di cui era espressione la presunzione legale ottocentesca in base alla quale il lavoro del socio equivale alla « somma o porzione minore »: il principio, cioè, secondo cui non può esserci socio di capitale il cui apporto — per modesto che sia — abbia un valore inferiore a quello del socio- lavoratore. « Realiter nihil ponit, ille qui solum operam ponit », dice- vano i giureconsulti dell’età di mezzo, riallacciandosi così ai forti dubbi che, fino all’emanazione di una costituzione imperiale « massimata » nel Codex giustinianeo, portavano i giureconsulti dell’antichità a dividersi in ordine alla stessa ammissibilità del contratto istitutivo di una società pecunia-opera.
Niente e nessuno, però, ne guarirà il male oscuro: l’enormità della distanza sociale tra i contraenti. Come dire: poiché il socio che conferisce lavoro è meno eguale degli altri, la società pecunia- opera tende a modellarsi sulla fattoria creata da George Orwell e dunque non è mai stata né sarà mai un’autentica società. Insomma, il contratto istitutivo di una società pecunia-opera non è mai riuscito né riuscirà a correggere la sua inclinazione a confondersi col mutuo feneratizio e, quando il divieto d’usura verrà stigmatizzato dal diritto canonico, dilaga il sospetto che ponga in essere una simulazione fraudolenta. Per questo, arrivai alla conclusione che, nella costellazione dei contratti coi quali un soggetto si obbliga a prestare lavoro a vantaggio di altri, la società nella quale uno conferisce capitale e l’altro soltanto lavoro ha, nell’età del capitalismo industriale, la funzione delle stelle morte da cui continua ad arrivare la luce.
 
Prima di approdare al volume Le associazioni sindacali nel pro- cesso (1969), altro studio con ampi riferimenti storici, ritorni a proporre una ricerca di forte taglio sociologico sull’esperienza sindacale a livello aziendale della società Bassetti; uno studio, se non erro, inserito nella ricerca sulla formazione extra legislativa del diritto condotto in collaborazione fra l’Università di Bari e quella di Bologna (5).
 
Pubblicata la monografia nell’estate del 1967, nel secondo semestre dello stesso anno tornai a privilegiare l’approccio sociologico per svolgere una ricerca su di una morente esperienza aziendale di consultazione mista, come la chiamavano i suoi protagonisti interessati a sapere cosa ne pensassi. Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in un’azienda italiana è uscita nel novembre del 1968 per i tipi del Mulino; proprio come la ricerca empirica da te menzionata, alla cui ispirazione culturale è sicuramente riconducibile pur non essendo stato previsto che ne facesse parte integrante. (Anzi, il case study era del tutto occasionale e lo accettati soprattutto perché il compenso convenuto con la Bassetti era più che soddisfacente).
Sarà perché Contrattazione e partecipazione uscì nel momento sbagliato, ossia nel pieno di una stagione sindacale caratterizzata da una conflittualità di segno classista e anche per questo fu un mezzo flop (ricordo una dura recensione di Aris Accornero sui Quaderni di Rassegna sindacale); fatto sta che l’insuccesso mi convinse che la ricerca storico-giuridica possiede una valenza euristica nettamente superiore rispetto ad ogni altra. Per questo, avvicinandosi l’ora
 ics » del concorso dove sarei risultato il primo della terna (1970), per scrivere — anche stavolta dietro suggerimento di Carnacini — Le associazioni sindacali nel processo decisi di affrontare la problematica risalendo alle origini come avevo fatto occupandomi della società pecunia-opera e trovai la vena aurifera che non ho mai più abbandonato. E ciò anche perché quanto più scavavo tanto più mi rendevo conto delle impressionanti proporzioni sia del deficit conoscitivo in ordine all’evolversi degli incontri del lavoro col diritto nella storia dell’Italia unita sia dell’impegno occorrente per colmarlo. Io infatti ho solamente iniziato a spalare; in ciò precedendo storici di professione come Giovanni Cazzetta e Paolo Passaniti e seguito da non più di due o tre giuristi del lavoro. Tra loro spicca Lorenzo Gaeta; a proposito del quale desidero qui dire che mi ha inorgoglito ciò che ha scritto di recente: ha scritto che mi considera, accanto a Giugni, un suo maestro.
 
Molte ricerche giuslavoristiche degli anni sessanta proponevano un ‘riscatto della realtà’ contro l’astrazione: leggere il pluralismo giuridico, il diritto collettivo del lavoro « prodotto della giuridificazione spontanea », significava contestare l’assolutismo della rappresentanza politica e i dogmi astratti della cultura giuridica della tradizione civilistica (sempre pronta — come hai scritto in seguito — a « falsificare », « simulare », « mistificare » (6)). Coglievi ambiguità nell’incontro/scontro con il diritto dei privati? Il diritto sindacale e del lavoro del secondo dopoguerra avrebbe potuto districare diversamente l’eredità-groviglio del passato, attuare diversamente la Costituzione?
 
« Messaggeri del nuovo »: sentirsi così è euforizzante, specialmente se intuisci che il vento non spira più a favore degli esponenti del conservatorismo giuridico e anzi li vedi in crescente affanno. Il nuovo però non doveva essere dirompente né i suoi messaggeri atteggiarsi a volgari « rottamatori ». È un’avvedutezza che ebbero ed anche per questo vinsero. Però, il prezzo della vittoria fu, se non proprio la delegittimazione della Costituzione, la sua devalorizzazione strisciante. Lo stesso vocabolo, in genere, veniva usato con parsimonia. I più ne riconoscevano il suono, ma da parecchio tempo mi chiedo se ne comprendessero pienamente il significato. Fatto sta che soltanto una minoranza si batteva per l’attuazione meno incompleta e imperfetta possibile della Costituzione. Se, prendendo per buona la definizione che ne dà Claudio Magris, utopia « significa lottare per le cose come dovrebbero essere », ossia come prescrive la Costituzione di una Re- pubblica « fondata sul lavoro », è senz’altro da escludere che questa fosse la dimensione prediletta dalla stragrande maggioranza dei messaggeri del nuovo.
Non solo per loro, del resto, quella del ’48 era una Costituzione venuta dal futuro. Un futuro ricco di interrogativi aperti a risposte drammaticamente alternative o (il che può essere lo stesso) senza risposta. Per questo, si prodigarono più per ripulire il tessuto normativo ereditato dal fascismo delle scorie illiberali e paternalistico- autoritarie di cui era sovraccarico che per incentivare l’attuazione del progetto costituzionale. Il distinguo non è marginale: infatti, si impe- gnarono a de-fascistizzare il diritto del lavoro proponendone l’integrale dissoluzione in ambito privatistico. Il medesimo ambito da cui il fascismo si gloriava (e magari credeva) di averlo estromesso con dosi smodate di diritto pubblico. Pertanto, il comune anti-fascismo non presupponeva necessariamente la condivisione dell’attitudine della Co- stituzione a calarsi nella gestione del rapporto di lavoro, del suo primato regolativo e del suo valore totalizzante. Non per caso, preferivano parlare di post-corporativismo. Ecco un’abitudine linguistica che non era innocua né innocente come pensavamo. Infatti, il prefisso ci sollecitava (per implicito, ma non oscuramente) ad aprire un dialogo simpatetico non tanto con la Costituzione quanto piuttosto col pre- corporativismo.
Non per caso, quindi, la ripresa degli studi giuridici in materia sindacale e del lavoro condurrà a mitizzare gli incontri fra il lavoro e il diritto anteriormente all’avvento del fascismo ed a riallacciare discorsi giuridici bruscamente interrotti pronunciando ineffabili heri dicebamus. Il che, viceversa, non solo non è autorizzato da una Costituzione che, nella sua polemica col passato, non distingue tra corpora- tivismo e pre-corporativismo, ma è vietato dalla stretta connessione esistente tra questo e quello, come ha accertato la migliore storiografia. In effetti, pur avendo il pregio di ridurre la complessità, la periodizzazione è due volte falsificante. Una prima volta, perché dissuade dal ricercare le radici del fascismo nelle torsioni autoritarie di un liberali- smo dubbioso dei suoi valori. Una seconda volta, perché nasconde come l’esigibilità della protezione dei diritti civili e politici del cittadino nei luoghi di lavoro fossero nozioni del tutto estranee al sapere giuridico dell’età pre-corporativa.

Tuttavia, persuasi che, per ottenere lo sperato successo di adesioni, bisognasse ammorbidire l’anticonformismo che li animava, i messaggeri del nuovo ritenevano opportuno limitarsi a sventolare i vessilli dell’autonomia privata e della libertà intesa come potere di gestire direttamente i propri interessi: le sole insegne che — quando si dice il caso — potevano essere inalberate in periodo pre- corporativo. Ciò non impedisce di giudicare soddisfacente un’opera- zione culturale che ha contribuito a preparare il disgelo costituzionale iniziato nella seconda metà degli anni ’60 in seguito all’avvento del centro-sinistra. A condizione, però, di perdonarne i limiti il principale dei quali risiede nella moderazione con cui dottrina e giurisprudenza — quella costituzionale inclusa — facevano leva sull’indicazione virtual- mente anti-sistema ricavabile dalla prescrizione costituzionale che esige la rimozione delle contraddizioni strutturali di una società capitalistica per realizzare il modello di società prefigurato dai padri costituenti. Che senso ha, devono essersi detto, sollevare una grossa pietra per farsela poi ricadere sui piedi?

Può anche darsi, cioè, che tra i messaggeri del nuovo si fosse raggiunta la tacita intesa che era arrivato il momento di rifiatare e riprendersi dallo sforzo compiuto per chiudere a proprio vantaggio la controversia sul metodo giuridico. In effetti, la loro vittoria spalanca spazi al pluralismo metodologico che rompe col legalismo di una tradizione Stato-centrica e col positivismo giuridico. « Nell’uso comune o almeno equivalente dell’espressione », ci ha insegnato Umberto Scarpelli, « per positivismo giuridico s’intende una concezione e una metodologia del diritto che identificano il diritto col diritto posi- tivo, ossia stabilito da organi e con procedimenti previsti da norme istitutive di poteri, e attribuiscono una posizione primaria alle norme generali e astratte ed alle fonti che le producono ». Come dire che il giurista era educato a immaginarsi che la realtà fosse sempre discipli- nata dalla legge secondo un’unità logico-sistematica. Viceversa, la pat- tuglia dei messaggeri del nuovo era del parere che i rapporti tra realtà e sfera giuridica si ponessero in termini di interazione ed erano sicuri, come riassumerà con la consueta ironia Giovanni Tarello il cui giudizio sul nostro operato da molti di noi era tenuto in gran conto e da parecchi temuto, che « la signora Storia assegnava al diritto del lavoro quella funzione di primato evolutivo che il diritto commerciale aveva svolto in epoca risalente rispetto al vecchio nucleo del diritto privato ».

Un primato strappato con la contestazione del valore totalizzante del diritto di formazione legislativa e l’esaltazione della creatività di centri di produzione giuridica extra-legali. Il ‘manifesto’ dei messaggeri del nuovo, rinvenibile nella prefazione del volume La disciplina dei licenziamenti nell’industria italiana (1950-1964) pubblicata dal Mulino (1968), venne discusso (unitamente alla mia corposa Introduzione) nelle giornate di Ancona (2-3 maggio 1968). Il convegno era stato organizzato da Giorgio Ghezzi, cattedratico di diritto del lavoro nella locale Facoltà di Economia e commercio; quindi, toccò a lui presentarlo e lo presentò con parole pressoché identiche a quelle della prefazione. Il che può sorprendere soltanto chi non sa che ne era stato l’autore occulto. Infatti, la prefazione reca in calce la firma di Giugni e Mancini in qualità di responsabili della ricerca CNR sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro in Italia. Per giustificare l’indagine empirica compiuta da giuristi — cosa priva di precedenti da noi — Giorgio scriveva inter alia: « le premesse di un discorso giuridico possono definirsi davvero efficienti solo quando è in esse compresa la maggior quantità possibile d’informazioni sui fatti ».
Tutto ciò, devono aver pensato i messaggeri del nuovo, può bastare. Invece, no. Non poteva bastare. E ciò non tanto perché, come diceva Scarpelli, « i fatti sono complicati e i fatti sociali sono i più complicati tra i fatti: sono combinazioni e costruzioni complesse » quanto piuttosto perché restava (come resta tuttora) da dimostrare che la scelta dei padri costituenti di de-mercificare il lavoro fosse compati- bile con l’attardarsi del diritto che da lui prende il nome nei territori assiduamente frequentati dalla giusprivatistica. Una giusprivatistica secondo la quale il lavoro aveva bussato alla porta della storia giuridica per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie tecnico-concettuali del diritto dei contratti tra privati. Mai incrinata dal dubbio che questo fosse soltanto lo stadio iniziale di un’evoluzione lontana dal suo sbocco conclusivo, ossia una temporanea e approssimativa sistemazione, la convinzione viene da lontano. Infatti, con l’immediatezza del caffè liofilizzato, si è formata non appena ha cominciato a diffondersi il contratto di lavoro salariato. È innegabile, si dicevano i giuristi ai quali la cosa non passava inosservata, che la figura contrattuale ignota alle codificazioni civili ottocentesche sia uno spontaneo accrescimento per accessione del diritto dei contratti. All’incirca, come l’insula in flumine nata che appartiene al dominus del fondo a titolo originario. Per questo, i gius-privatisti non potevano esimersi dal considerarsene proprietari. In principio, però, non c’era il diritto del lavoro. C’era il diritto del contratto di lavoro subordinato.
 
Vorrei ritornare dopo, anche in considerazione di Tuoi scritti successivi, a percorrere la questione delle relazioni fra giuspubblicisti e giusprivatisti nel ‘farsi’ del diritto del lavoro e nell’attuazione della Costituzione. Ti chiederei qui, invece, quanto pesava il ‘dominio della giusprivatistica’ nei concorsi a cattedra (7)?
 
Stupisce che non siano ancora state sottolineate le pesanti e durevoli implicazioni del disimpegno della giuspubblicistica sulle problematiche inerenti al lavoro che avevano dominato gran parte del dibattito costituente. Di fatto, la giuspubblicistica si è autoesclusa dal dibattito dottrinale e dalla lotta per l’attuazione di mezza costituzione delegando il ruolo d’interlocutore principale alla gius-privatistica. Sebbene la divisione di competenze si sia progressivamente irrigidita al punto di erigere uno steccato che viene tuttora considerato insuperabile, sarebbe comunque una stupidaggine fantasticare di un complotto per svuotare la Costituzione. È sufficiente limitarsi a constatare che la giusprivatistica ha scoperto tardivamente la Costituzione con la complicità della gius-pubblicistica che, col suo plateale disimpegno, ha contribuito in maniera forse decisiva al diffondersi dell’idea che un diritto del lavoro massicciamente « costituzionalizzato » sia meglio consegnarlo alla storia come un diritto con un grande futuro alle spalle.
La sola scusante che la gius-pubblicistica potrebbe accampare per giustificare la sua inerzia nel dopo-costituzione è che ha molto da farsi perdonare. Infatti, la prima e unica volta che si era occupata della materia produsse danni gravissimi senza nemmeno accorgersene e anzi con la convinzione di assecondare il progresso della civiltà (non solo) giuridica. Accadde nell’Italia fascista dove, con l’istantaneità del caffè liofilizzato, una legge del 1926 aveva criminalizzato ogni forma di turbolenza sociale che superasse la dialettica degli interessi compatibile con le rigidità burocratiche di uno Stato piglia-tutto; rideterminato natura e ruolo del sindacato, facendone degli enti pubblici a presidio dell’interesse superiore della produzione nazionale, e sottoposto il contratto collettivo ad una accurata manipolazione genetica da cui è difficile dire se si è riavuto. Nel dopo-costituzione, il giudizio di disvalore che il diritto pubblico si era guadagnato durante l’orgia corporativa si riverberava inevitabilmente sulla gius-pubblicistica la quale, perciò, sembrò felice di potersi liberare dell’imbarazzante ri- cordo del ruolo ancillare precedentemente svolto chiudendosi in un silenzio che, se non esprimeva rimorso, sapeva comunque di ritorno al disinteresse del passato. Era proprio quel che occorreva per rinsaldare l’opinione che l’identità del diritto del lavoro si situava nell’alveo della codificazione civile del 1942 la quale, secondo la vulgata corrente, sarebbe miracolosamente riuscita a sottrarsi a pesanti compromissioni col regime.
Del resto, persino i pochi giuristi del lavoro delle generazioni sopravvissute alla caduta della dittatura accettano di farsi marginalizzare e, intimiditi dalla bibliocastia anti-corporativa che furoreggia nel dopo-costituzione, come un noto personaggio pirandelliano assistono ai propri funerali senza opporsi al trionfo dell’opzione ideologica favorevole alla dissoluzione del diritto sindacale e del lavoro nel medesimo ambito privatistico per schiodarlo dal quale il fascismo giuridico aveva schiamazzato fino a perdere la voce — oltre che la faccia.
Dopotutto, nessuno di loro possiede il carisma di Francesco Carnelutti. Lui solo può permettersi di manifestare sentimenti — nostalgia per ciò che la legge del ’26 aveva dato e repulsione di ciò che ne aveva preso il posto e sarebbe accaduto in seguito — che gli altri tengono per sé o confidano agli amici. Come scrive col suo stentato francese durante il volontario esilio in terra elvetica, in un testo pubblicato nel 1945 col titolo La guerre et la paix, « le dessein méritait un sort meilleur et il faut souhaiter que dans l’œuvre de reconstruction de l’État italien il ne coure pas le risque
de se perdre ».
 
Questi, in breve, il clima e lo scenario che condizionarono andamento ed esito dello scontro frontale che caratterizzò il primo congresso nazionale di diritto del lavoro tenutosi nell’Italia repubblicana a Taormina nel 1954: è là e in quell’anno che il primato del diritto privato e della gius-privatistica trovò la sua teatralizzante rappresenta- zione simbolica. Un testimone d’eccezione, Arturo Carlo Jemolo, scri- verà che i congressisti si lasciarono « incerti e perplessi », disorientati dall’inusuale asprezza di un duello che aveva visto gli avversari schie- rarsi con una risolutezza che faceva torto alla loro probità intellettuale.
Allora giovanissimo, Giugni era tra gli spettatori che assistettero al confronto tra il gius-pubblicista Costantino Mortati, democristiano e dossettiano, e il gius-privatista Francesco Santoro Passarelli, democristiano e doroteo. Mortati è considerato unanimemente uno dei maggiori costituzionalisti del nostro Novecento e Santoro Passarelli uno degli ultimi grandi civilisti italiani la cui produzione scientifica, come dirà Luigi Mengoni, « segna il punto più alto raggiunto dalla linea di pensiero definita metodo tecnico-giuridico ». Gino vide il primo sferrare un’offensiva che, se vittoriosa, avrebbe consentito alla gius- pubblicistica di pilotare l’orientamento degli studi in materia sindacale e del lavoro « nello spirito della costituzione ». Al tempo stesso, però, vide con quale determinazione il secondo respinse l’aggressione. Il piglio era quello di chi ha visto le dottrine di diritto corporativo incartarsi su percorsi sena approdi verificabili e sa bene che nemmeno uno Stato onnivoro come quello fascista era riuscito a compromettere l’egemonia della cultura gius-privatistica degli interpreti-tessitori che avevano tenuto a battesimo il diritto del lavoro dei primordi.
Infatti, Giugni intuì illico et immediate (come dirà molti anni dopo) che, da allora in poi, la distribuzione delle cattedre di diritto del lavoro sarebbe stata gestita dai gius-privatisti. La previsione si sarebbe rivelata esatta, perché in quella occasione si era acceso il disco verde che di fatto autorizzava l’assegnazione delle cattedre di diritto del lavoro all’area privatistica e questo era il punto di snodo cruciale. Per affermare l’assoluto predominio della monoultura giusprivatistica nei luoghi in cui vive il diritto del lavoro bisognava che i giusprivatisti s’impadronissero di quello in cui esso viene insegnato per formare la popolazione  forense  e giudiziaria.
La mia biografia accademica descrive la situazione in maniera esemplare. Ho vinto il concorso a cattedra di diritto del lavoro, però durante il triennio di straordinariato sono stato chiamato dall’Università di Modena per insegnarvi Istituzioni di diritto privato — cosa possibile, secondo la burocrazia ministeriale, perché per tre anni (1965-1968) ne avevo tenuto le lezioni in qualità di professore incaricato nell’Università di Urbino (sede di Ancona). Però, durante il soggiorno nell’ateneo modenese si verificarono due fatti accademicamente rilevanti. 1) In qualità di cattedratico gius-privatista entrai per sorteggio in una commissione di concorso nazionale per l’assegnazione di una ventina di cattedre di diritto privato. (Il che mi costrinse a leggere una quantità industriale di monografie prodotte dalla gius-privatistica. Pertanto, caro Giovanni, se i giudizi che formulo su di essa ti sembrano a volte venati da un po’ di rancore, beh non posso negare che qualche motivo personale ce l’avrei). 2) Contemporaneamente, giunse a scadenza il periodo di straordinariato; il che mi costrinse a sostenere l’esame di ordinariato come gius-privatista e difatti venni giudicato da una commissione ad hoc composta da gius-privatisti, ma presieduta da Francesco Santoro Passarelli. Il quale — se è vero, come ho già ricordato, che influenzò profondamente l’orientamento degli studi in materia di diritto del lavoro — è del pari innegabile che lo fece più « nello spirito della libertà dei privati » che « nello spirito della costituzione ». Suo è il manuale che fino agli anni ’80 del secolo scorso ha monopolizzato il mercato dell’editoria giuridica e le generazioni di studenti universitari che se ne servivano per prepararsi all’esame di diritto del lavoro hanno memorizzato che « alle norme regolanti direttamente il rapporto di lavoro la costituzione non apporta sostanziali innovazioni ». Senza neanche immaginare l’enormità della ricchezza del taciuto.
Sulla scorta delle cose finora raccontate, è lapalissiano che questo mio singolare ping-pong accademico tra diritto privato e diritto del lavoro non poteva ostacolare il mio trasferimento per chiamata dall’Università di Modena a quella di Bologna per insegnarvi (dal 1973 fino all’a.a. 2008-2009) diritto del lavoro.
 
Nel 2009 hai scritto che la diffusione della « sensibilità per il dato empirico » affermatasi col metodo del realismo giuridico, portava con sé non solo il vantaggio « di affrancare lo studio del diritto dalle morse del formalismo e del concettualismo giuridico » ma anche il rischio di « favorire una lettura efficientistica dei dispositivi di protezione dei valori etici », il rischio di « provocare l’infatuazione per il pragmatismo speri- mentale » (8). Nell’introduzione a Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto (1974) scrivevi: « Ho percepito l’ambiguità di un appello alla realtà sociale ed ho maturato la decisione di introdurre nei miei studi una pausa di riflessione per ricavarne elementi orientativi che aiutassero a evitare lo scadimento del discorso giuridico in una futurologia da strapazzo o peggio ». La Tua ‘pausa di riflessione’ intendeva contrastare polemicamente la ‘voglia di correre dietro ai fatti’? Quali erano per Te all’inizio degli anni settanta le ambiguità dell’appello alla realtà sociale?
 
La pausa di riflessione fu una misura di igiene mentale. Ho dovuto impormela perché mi ero persuaso che la Signora Storia si diverte a disseminare tranelli nella vasta area giuridica di cui mi occupavo praticamente dal giorno della laurea. In effetti, sono troppe le cose che troppo spesso non sembrano come sono e, poiché la loro crescente ambiguità mi disorientava, scelsi di allargarne l’orizzonte e ristabilire distanze.
Il ripensamento venne occasionato dalla percezione di un contrasto tra due circostanze apparentemente slegate. Sia durante la discussione che dopo l’approvazione parlamentare, lo statuto dei lavoratori era stato concordemente accostato alla legislazione del New deal voluta da Franklin Delano Roosevelt per riorganizzare la società industriale intorno ad un big labor contrapposto ad un big business — disposti entrambi a cooperare con un big government.
Da noi, però, e non solo da noi, negli anni ’70 decolla, si diffonde e permane a lungo il metodo della concertazione sociale. Un metodo inconfondibilmente mittel-europeo che da noi raggiunge il suo apogeo sotto la regia di Gino Giugni in qualità di ministro del lavoro del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Per questo, osserverà per primo Gaetano Vardaro, i discorsi giuridici pre- e post-statutari sono viziati da « un difetto di germanesimo ed un eccesso di anglo-americanismo ». « Esemplare — scrive nel 1983 — è il mutamento di funzione subito nell’ultimo decennio dal concetto di sindacato maggiormente rappresentativo. Nato come criterio di effettività, logicamente e giuridicamente radicato nella stagione della legislazione promozionale, esso tende a trasformarsi in maniera silenziosa in una variante ‘prassista’ del sindacato riconosciuto » che si situa al centro dell’inattuato art. 39 della nostra  Costituzione.
Come dire che l’illusione di un new deal nostrano si è dileguata velocemente. Nonostante l’amnistia deliberata dal Parlamento a ridosso dello statuto col proposito di fare un falò delle 14 mila denunce penali contro operai e studenti autori di vere o presunte illegalità commesse in un clima arroventato che si vuole archiviare per ristabilire la normalità.
Nonostante la firma di un rinnovo contrattuale che, costato una cifra- record di ore perdute per scioperi aziendali, nazionali ed anche generali, permetterà ai lavoratori metalmeccanici di lavorare di meno e guadagnare di più. Il fatto è che quello di casa nostra è un capitalismo senza capitali, affezionato alla rendita e ai comodi servizi in concessione pubblica; il labor si scopre grande, ma il business con cui deve confrontarsi gli ispira comportamenti accesamente antagonistici; il government soffre di una instabilità cronica: cambiano i governi, ma la linea politica resta eguale a se stessa. A mancare, però, è soprattutto una coscienza democratica diffusa. Infatti, il livello d’intensità raggiunto dal ciclo delle lotte sociali che i governanti si propongono di chiudere con lo statuto evoca non sola la grande paura che aveva suscitato il biennio rosso del primo dopoguerra, ma anche un nemico senza nome né volto cui le cronache giornalistiche e giudiziarie addebitano efferate « stragi di Stato ». Si racconta che, raggiunto dalla notizia della tragedia di Piazza Fontana il 12 dicembre del ’69 in apertura dell’ennesimo round del rinnovo del contratto nazionale per la categoria-pilota dei metalmecca- nici al centro dell’autunno caldo, il ministro democratico-cristiano Carlo Donat Cattin incaricato della mediazione politica abbia esclamato: « o chiudiamo subito le trattative o arrivano i colonnelli ».

È in un contesto come questo, inquinato nelle sue falde più sotterranee, che l’intensità con cui si pratica il culto del neo- corporativismo rimanda al modello-Weimar. Ma il riferimento è imbarazzante ed è prudente lasciarlo sotto traccia, perché la Repubblica di Weimar con l’equivoca legalità costituzionale che, secondo la valutazione storiografica prevalente, ne accompagnò la fine è un esempio paradigmatico delle degenerazioni di una democrazia a vocazione corporatista. Pertanto, se solo la scaramanzia spiega e giustifica il « difetto di germanesimo » rilevato dal più geniale dei tanti allievi di Giugni, « l’eccesso di anglo-americanismo » non è meno intenzionale: avrebbe dovuto trasmettere la fiducia che lo statuto andasse incontro a un successo non inferiore a quello che si era guadagnato un celebre manufatto legislativo confezionato nel paese dove, a parere molti, sarebbero depositate le chiavi del futuro. Forse, non mi sbaglio a supporre che, in sintonia e per coerenza con i suoi studi in materia di diritto sindacale, Gino avrebbe preferito consegnarsi alla storia come il giurista più new dealer che il nostro paese abbia avuto; invece, la sua icona ne fa l’ultimo giurista weimariano. Dopotutto, si era sempre detto onorato di potersi considerare discepolo di Otto Kahn-Freund che  si
era formato nella scuola di Hugo Sinzheimer: del quale, non a caso, Gino mi aveva consigliato la lettura in occasione dei nostri primi incontri. Da sola, tuttavia, la contraddittorietà appena segnalata non sarebbe tanto pervasiva e dirompente da poter essere riconosciuta come la nota dominante del contesto in cui vive il nostro diritto del lavoro e, segnatamente, il diritto sindacale del dopo-costituzione.
Chissà cosa avranno pensato di me gli studenti che seguivano il mio corso. Come minimo avranno pensato che fossi un fan del fondatore del teatro dell’assurdo quando ascoltavano il mio racconto dell’art. 39 « inattuato, inattuabile e tuttavia attuale ». Alcuni mi guardavano trasecolati, non a torto. Per questo, mi industriavo a raccontare che le parti sociali avevano imparato ad appassionarsi al gioco consistente nel restare fuori della costituzione senza, per ciò stesso, mettersi contro e che vi erano state costrette perché nel retro-pensiero degli stessi costi- tuenti che lo scrissero l’art. 39 è una inutile necessità. Naturalmente, mi ci voleva un po’ di tempo per darne una spiegazione convincente. Perlomeno, il tempo di durata di una lezione accademica.
Crollato il fascismo, era pressoché invitabile che nella transizione alla democrazia prevalesse l’incertezza e grande fosse lo spaesamento. Il sindacato era tornato a essere un soggetto senza uno statuto giuridico che lo distinguesse dagli altri corpi intermedi e il contratto collettivo riprecipitava nella condizione in cui lo trovò il fascismo e da cui il fascismo lo aveva tirato fuori con un’energia e una lucidità ammirate dappertutto: nelle aule giudiziarie, nelle Facoltà di giurispru- denza delle Università del Regno, nelle piazze. Anche all’estero. Infatti, come il sindacato si porta dentro la bipolarità che ne fa un soggetto incaricato di rappresentare gli iscritti in base agli ordinari meccanismi previsti dal diritto civile e, al tempo stesso, portato a sostituirsi al legislatore per assicurare alla generalità dei lavoratori eguali trattamenti a parità di lavoro, così il contratto collettivo (specialmente, quello di categoria) ha natura duale: è un patto tra privati e insieme ha una valenza para-legislativa.
Però, i conti hanno sempre faticato a quadrare. Lo Stato non ha mai smesso di detenere il monopolio del diritto positivo; può disporsi a delegare la produzione soltanto a soggetti di cui abbia motivo di fidarsi; diversamente, vale il principio secondo il quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti. Il fascismo è in grado di far tornare i conti con relativa facilità perché riconosce soltanto i sindacati che si lasciano ingolosire dalla legge del 1926 scritta dal giurista e ministro guardasigilli Alfredo Rocco. Una legge che valorizza al massimo le specificità che contraddistinguono il sindacato e il suo prodotto di più largo consumo, rispettivamente, nel panorama dei fenomeni associativi e nell’ambito delle manifestazioni dell’autonomia negoziale dei gruppi. Le valorizza però per strumentalizzarle, facendone un comodo pretesto per soddisfare la voracità di uno Stato padre- padrone.  La  difficoltà  di  far  quadrare  i  conti,  però,  non  può  non ripresentarsi in tutta la sua grandezza in un regime di libertà sindacale. I costituenti lo sanno, ma se la cavano addossando al legislatore il compito di andare alla ricerca di un equilibrio compatibile coi principi fondativi dei regimi democratici tra la dimensione privato-sociale e la dimensione pubblico-statuale tanto del sindacato quanto della contrat- tazione collettiva. Come dire: i costituenti non vanno oltre un annuncio del tipo « armiamoci e partite » nel momento stesso in cui prefigurano un assetto dei rapporti tra Stato, sindacati e lavoratori senza precedenti nella storia dell’Italia unita.
Se si trascura questo aspetto essenziale della questione, si corre il rischio di sottoporre il progetto costituzionale ad una narrazione che ne enfatizza le affinità col precedente. È un rischio di cui, tutto preso dal dissacrante furore di deporre l’art. 39 in una bara da sigillare con cura, Federico Mancini non si curò scrivendo (nel 1963) la sua prolusione accademica in coincidenza con la presa di servizio nella cattedra di diritto del lavoro nella Facoltà giuridica bolognese divenuta vacante col passaggio di Carnacini alla cattedra che era stata di Redenti. Ma le affinità che enfatizzò erano involontarie e superficiali. Il fatto è che l’equilibrio tra la dimensione privato-sociale e la dimensione pubblico- statuale che i costituenti impongono di instaurare nelle forme del diritto positivo non è in rerum natura e, comunque, si rivelerà impossibile dopo la rottura dell’unità sindacale originata dal Patto di Roma del 1944.
La Cgil unitaria si dissolve allorché l’anti-fascismo, che ne era stato il collante durante la Resistenza, perde la centralità nel pensiero che presiedeva all’azione politica e nel sentimento popolare che percorreva il dopo-Liberazione a vantaggio dell’antiomunismo che, anzi, diventa il nuovo collante. Acuta infatti è la percezione della necessità di completare sul versante della rappresentanza sociale del lavoro la conventio ad excludendum pattuita tra i partiti che formano i governi centristi guidati dalla Dc nel clima della guerra fredda destinata a spaccare in due il mondo fino alla fine dell’ottavo decennio del secolo XX. È per blindare un sistema politico bloccato che si opta per l’astensionismo legislativo. Una scelta cruciale che apre la strada alla de-costituzionalizzazione del sistema sindacale.

Come dire che, disapplicando l’art. 39, lo Stato finge di non voler ingerirsi nella dinamica sindacale; in realtà, si propone di controllarla con strumenti più efficaci e penetranti di quelli consentiti dai padri costituenti. In fondo, per stipulare contratti collettivi valevoli erga omnes (con un potere decisionale proporzionato alla propria consistenza associativa) ai sindacati sarebbe bastato superare un test di democraticità condotto sui loro statuti da qualche funzionario pub- blico: il che dà la misura di quanta fiducia i padri costituenti riponessero nella libertà sindacale. Una fiducia illimitata. Una fiducia che, invece, i governanti dell’epoca non potevano permettersi. Tranne che nei confronti della Cisl: che era l’avamposto piazzato in partibus infedelium su cui la Dc faceva assegnamento per dare al mondo delle imprese un competitore più collaborativo che conflittuale. Di sicuro, diffidavano della Cgil, appiattita nei confronti dei partiti di sinistra marxista il più grosso dei quali, il Pci, ne faceva la cinghia di trasmissione di una strategia politica di conquista del potere. D’altra parte, anche questo sindacato, il solo virtualmente interessato all’attuazione dell’art. 39 in ragione della sua superiore consistenza associativa specialmente nel settore industriale, si convinse in fretta che non era il caso di insistere. Sapeva che governi e Parlamenti non avrebbero dato l’OK all’attuazione dell’art. 39 se non marginalizzando il diritto di sciopero sia per alleggerirne il costo economico subito dalle imprese che per dissuadere il sindacato dal prendere iniziative contrastanti con la strategia dei partiti o, semplicemente, ne compromettessero il primato. Per questo, si diffuse l’opinione che meno si legifera meglio è. Per tutti. Né la Uil aveva interesse a contrastarla; a lei bastava consolidarsi, come in effetti le riuscì perché era sufficientemente scaltra per massimizzare i benefici connessi all’ambiguità di ruolo che solitamente contraddistingue le terze forze.
 
Ecco: è con parole simili a queste che per mezzo secolo ho descritto ai miei studenti le ragioni dell’inattuazione dell’art. 39, senza trascurare di informarli che il linguaggio corrente era criptico. Infatti, si preferiva dire che quella praticata era una contrattazione collettiva di diritto comune. Viceversa, per quest’ultimo la contrattazione collettiva era un’entità sconosciuta. Perciò, l’ammiccamento lessicale nascondeva la più elementare verità e la verità è che si era in presenza della privatizzazione integrale del fenomeno sindacale senza regole precostituite né presidi legali. Ma la necessità, come si suol dire, aguzza l’ingegno. Il proverbiale adagio vale anzitutto per la giurisprudenza che s’inventa argomenti capaci di risolvere problemi tecnico-giuridici che solo una legge sindacale di attuazione dell’art. 39 potrebbe risolvere. La supplenza giudiziaria infatti risolve il problema dell’inderogabilità del contratto collettivo, perlomeno da parte degli iscritti ai sindacati stipulanti, e quello della sua efficacia generale sia pure limitatamente alle tariffe salariali mediante un’interpretazione creativa dell’art. 36 cost. che riconosce il diritto ad una retribuzione giusta e sufficiente per ogni lavoratore. Nel complesso, la giurisprudenza ottiene un risultato pros- simo a quello ottenibile attraverso il riciclaggio degli automatismi previsti dalla legge del 1926 e dunque mimava la medesima esperienza giuridica che, per quanto lontana dalla costituzione, le era più familiare. Ogni riciclaggio, però, è un ripiego. Per apprezzabile che possa essere la loro praticità, gli espedienti sono culturalmente poco dignitosi. Nel nostro caso, frequenza ed ampiezza dell’uso che se ne faceva testimoniavano che i sindacati erano mortificati dall’esiguità delle risorse offerte dalla tecnica giuridica disponibile: l’habitat nel quale dovevano agire era sospeso fra un passato che non voleva passare e l’indetermi- natezza di un futuro che tardava a materializzarsi.
Il sindacato degli anni ’50 non era tenuto a saperlo, ma si muoveva sul terreno più adatto a riattualizzare la teorizzazione di uno dei maggiori giuristi del Novecento sull’esistenza di ordinamenti ai margini di quello statuale, giustapposti e paralleli al medesimo, se non proprio alternativi. Riflettendo sulla complessità dell’universo giuridico, sulla crisi dello Stato e del suo assolutismo, Santi Romano era giunto a scoprire che l’antica massima ubi societas ibi ius non significa soltanto che la società non può fare a meno del diritto prodotto dallo Stato: significa anche che la società produce diritto, sia pure extra-legislativo. E ciò perché la dinamica spontanea dei gruppi privati è in grado di costruire una legalità non meno vincolante, e talora più efficiente, di quella statuale. Come dire che il sindacato degli anni ’50 aspetta soltanto qualcuno capace di persuaderlo, e persuadere il ceto profes- sionale operatori giuridici, che l’inattuazione dell’art. 39 non è un male in sé.
 L’attesa finirà quando, presagendo che un’organica legge sinda- cale sarebbe arrivata chissà quando, Gino Giugni dimostrerà che l’adesione acritica all’ottocentesca concezione stato-centrica del diritto penalizza arbitrariamente la vitalità dell’autonomia privato-collettiva, negandone l’attitudine a creare un ordinamento iure proprio. La sua non era che un’ipotesi di lavoro giustificazionista ed insieme predittiva. Ebbe successo perché si basava su presupposti condivisibili e larga- mente condivisi che aspettavano soltanto qualcuno che se ne assumesse la paternità. Il primo è che ad un movimento sindacale con enormi ritardi da colmare quanto ad esperienza di libertà ed autonomia fosse saggio concedere la chance di costruirsi la sua al di fuori di schemi regolativi prefabbricati all’esterno e calati dall’alto. Come dire: lungi dal piangersi addosso per le speranze suscitate dall’art. 39 e andate deluse, l’inattuazione della norma va caldeggiata in nome della stessa democra- zia, scommettendo sulla voglia di un suo ente esponenziale di imparare a camminare senza stampelle legali. Pertanto, Giugni era interessato a valorizzare più la felix culpa di governi, Parlamenti e sindacati recalci- tranti ad attuare l’art. 39 che a sfidare il legislatore a cimentarsi nell’attuazione di un progetto non memo ambizioso della quadratura del cerchio. Questo giurista, però, non sarebbe diventato l’opinions leader di intere generazioni se la scissione della Cgil non avesse osta- colato l’unità d’azione sindacale meno, molto meno di quanto preve- devano (o auspicavano) in molti.
 
Scusa l’interruzione, ma non capisco bene: la rottura dell’unità sindacale, hai detto poc’anzi, è il vero, insuperato ostacolo dell’attuazione dell’art. 39; adesso, però, dici che il pluralismo sindacale non equivale, nel pensiero di Giugni, e (mi sembra) nel tuo, a dis-unità. Come si conciliano le due affermazioni?
 
Domanda appropriata, ma il contrasto è più apparente che reale. La rottura, che si consumò nel 1948 per effetto (come ho già detto) della pressione di fattori esogeni ed eventi esterni cui si deve il fatto che quella sindacale sia una storia minore, è figlia di un mondo spaccato in due. Però, il pluralismo sindacale che ne conseguì vide a poco a poco scolorirsi la valenza politico-ideologica della sua origine e si tramutò in patriottismo d’organizzazione. Un sentimento che, se accentua la carat- terizzazione identitaria di gruppi intenzionati ad atteggiarsi come di- stinti competitori, tuttavia non fa perdere la consapevolezza di una vitale comunione d’interesse. Dovendo contrattare con la medesima controparte, non possono non capire che l’unità d’azione è la sola condizione che permette di stabilire un rapporto di potere meno sperequato di quello raggiungibile separatamente e dunque più vantag- gioso per i destinatari finali della contrattazione. Il che, però, al tempo stesso si traduce in un aumento della profittabilità del servizio reso dal sindacato predisponendo le costose infrastrutture senza le quali i negoziati  non  potrebbero  nemmeno cominciare.
Quella del sindacalismo del dopo-guerra — sostiene infatti Giu- gni intervenendo al Convegno di studi organizzato dalla Cgil per festeggiare il suo 30° compleanno — è « la storia di come sia cresciuta all’interno di un sistema pluralistico una condizione, se non anche un progetto, di unità sindacale. [...] Gli anni dal ’60 al ’70 io li vedo come gli anni in cui l’unità sindacale è nei fatti ». Giugni inforca occhiali con le lenti giuste: l’evoluzione del diritto sindacale era governata da una stabile coalizione delle confederazioni sindacali maggiormente rappre- sentative che, per un attimo, negli anni ’70 sembrò addirittura in procinto di trasformarsi in una federazione unitaria. Se agli studenti ne parlavo come di un club elitario ed esclusivo, Piero Boni, che è stato il n. 2 della Cgil ai tempi di Luciano Lama, ne parlava come della « quarta confederazione senza nome e senza bandiera ».
La terminologia è troppo fantasiosa per poter essere adottata dalla Corte costituzionale, ma è questa l’impalpabile entità che la stessa Corte non esita a spon- sorizzare come freno delle logiche aziendalistiche che disgregano l’in- tero e spezzano la coesione delle larghe solidarietà d’interessi di cui il club è espressione. Sull’attitudine dei sindacati di farne parte in qualità di carissimi nemici, sulla loro propensione a trattenersi dal farsi rovinosi sgambetti e ad optare per la tendenziale convergenza delle politiche rivendicativo-contrattuali Giugni è fiducioso. Non ha torto: sa che l’unità d’azione ha finito per acquistare una valenza para-costituzionale in quanto è valutata dagli stessi sindacati un succedaneo della mancata applicazione dell’art. 39. Nell’occasione poc’anzi menzionata lo ascol- tai, non senza sorpresa, esprimersi così: « vi è oggi la possibilità — che in precedenza non c’era — di ricostruire intorno ad un filo unitario la vicenda complessa delle varie confederazioni ». Forse, giudicava già allora un anacronismo la molteplicità di strutture confederali e il suo permanere il retaggio di un sistema politico che si regge su pregiudiziali discriminatorie di cui si augurava il tramonto. Viceversa, l’ottimistica previsione sarebbe stata smentita dallo sgretolarsi dell’unico argine di contenimento del processo di de-costituzionalizzazione del sistema sindacale. Difatti, lo smottamento produrrà situazioni ad un passo dall’anti-costituzionalità che minacciano la stessa libertà sindacale di cui le regole di un gioco durato per mezzo secolo avrebbero dovuto celebrare l’apologia. È la stagione degli accordi separati. Essa tocca il suo culmine con l’inaspettata eterogenesi dei fini subita dalla norma- cardine della legislazione di sostegno. Riformulato nel 1995 dal legisla- tore popolare allo scopo di allargare la cerchia dei sindacati con diritto di cittadinanza in azienda, nella Fiat di Sergio Marchionne l’art. 19 dello statuto dei lavoratori si trasformerà nel suo contrario: ossia, in un meccanismo di esclusione di un sindacato di cui nessuno contesta la rappresentatività. Infatti, in conseguenza della rottura del fronte sinda- cale, il rischio da neutralizzare è quello che l’interpretazione letterale dell’art. 19 determini non più il rigonfiamento artificioso dei soggetti ammessi nell’area del privilegio legale, bensì l’estromissione di chi ha diritto di starci.
Per questo, l’Alta Corte si pronuncerà nel senso che, come la sottoscrizione formale e meramente adesiva al contratto non è sufficiente a fondare la titolarità dei diritti sindacali, così la mancata firma non può produrne la perdita. Diversamente, si legittimerebbe «una forma impropria di sanzione del dissenso che incide, condizio- nandola, sulla libertà del sindacato » di dire no, se lo ritiene necessario. Al tempo stesso, l’atteggiamento consonante con l’impresa verrebbe premiato anche a scapito dei lavoratori cui è negata la libertà di scegliere la rappresentanza che  vorrebbero.
 
Di recente, però, qualcosa è successo. O mi sbaglio?
 
No, non ti  sbagli. Uomo di idee semplici e passioni forti, Luciano Lama una volta disse che i sindacati sono come i castori: li guardi da lontano e ti sembra che non stiano facendo niente; poi, all’improvviso ti accorgi che hanno tirato su una diga. La medesima immagine mi è tornata in mente quando ho visto il monumentale immobilismo dei sindacati di fronte all’inattuazione dell’art. 39 interrompersi nell’arco del triennio, tra il 2011 e il 2014, durante il quale si sono svolte con la massima discrezione e pause sapienti le trattative del trittico interconfederale denominato, alla fine, Testo Unico sulla rappresentanza sindacale. Confesso che la sua sottoscrizione mi colpì perché mi ero ormai persuaso che tra la posizione di chi ne aveva subito o sollecitato il rinvio come una realistica necessità e quella di chi voleva farne lo strumento che consentisse di accantonare definitivamente la questione, avesse finito per prevalere la seconda. Meglio tardi che mai, mi sono detto, pren- dendo atto che il sindacato riconosceva di non poter continuare a sottrarsi a verifiche riguardanti il fondamento della sua legittimazione a partecipare da protagonista a processi di produzione di norme valevoli nei confronti di moltitudini di cittadini che non gli hanno conferito alcun mandato ra ppresentativo. Infatti, ha promesso a se stesso di non lasciarli più nella condizione di non sapere chi rappresenta chi né come possano essere regolati i dissensi inter-sindacali per evitare che diano luogo a traumi destabilizzanti; chi è legittimato a contrattare, con quale efficacia e quale responsabilità nei confronti della controparte e dei rappresentati. A tutti questi interrogativi il corposo documento del 2014 fornisce indubbiamente risposte (o principi di risposta). Però, è presto per dire che esageravo a ritenere insuperabili le resistenze ad attuare l’art. 39. Infatti, la sottoscrizione del maxi-accordo non ne comporta l’immediata operatività. Il cantiere è ancora aperto e il completamento di questo work in progress procede a rilento: può persino darsi che si sia arrestato e, comunque, i pochi che sanno non parlano. Sono tutti indizi da cui trapela che l’art. 39 continua a spaventare. Però, fa più paura l’intenzione del governo in carica di stabilire il salario minimo legale. Una misura del genere metterebbe fuori gioco la contrattazione nazionale, in pericolo la stessa esistenza dell’organizzazione ed a nudo il suo costoso sovra-dimensionamento.
 
A proposito del ruolo della Trimestrale nello scorcio finale degli anni sessanta e nei primi anni settanta, hai parlato prima dell’affermarsi di una « scuola di pensiero giuslavoristica » in rottura con la tradizione. Che cosa intendi per scuola di pensiero? Il riferimento va alla scuola bolognese?
 
È una scuola in cui s’insegna che il diritto che dal lavoro prende il nome non può essere del lavoro più di quanto sia al tempo stesso del capitale e che la sua strutturale ambivalenza è all’origine della tendenza della cultura giuridica a dividersi sull’asse destra/sinistra. La giustifica e, anzi, finisce per imporla. Il motivo è auto-evidente: il conflitto d’inte- ressi di cui il diritto del lavoro è strumento di composizione si trasfe- risce pari pari dal piano della sua produzione al piano dell’interpreta- zione delle norme. Qui, cambiano i duellanti, ma le ragioni del conten- dere permangono intatte. « Non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto », diceva di sé Gino Giugni al quale, nel 2000, dedicai uno scritto col titolo Elogio del compagno professore. Con la franchezza che gli è abituale, Luigi Mariucci ha confidato alla sua rivista: « il diritto del lavoro ha costituito un succe- daneo della mia inclinazione alla politica » ed « ha funzionato come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente ». « Il giurista fa politica », è la secca affermazione di Federico Mancini, « e i suoi tempi sono quelli della politica ». Non è detto però che la consapevolezza della politicità della materia sia indispensabile per diventare un giurista del lavoro che conta nel dibattito pubblico. Anzi, se non la sorveglia criticamente e ne ha in eccesso, può accadere che si trasformi
involontariamente in un giurista-militante. Ma non è di una figura del genere che si sente la mancanza. Ciò di cui c’è enorme bisogno è l’onestà intellettuale verso se stessi e verso gli altri.
Infatti, è con la stessa onestà che talvolta mi diverto a cercare affinità e differenze tra mestieri che sembrano non avere nulla in comune, quelli di attore e giurista positivo. Li unisce certamente il fatto che entrambi interpretano testi scritti (generalmente) da altri, salvo che il primo può rifiutarsi di interpretare un testo che non gli piace, mentre il secondo non può fare altrettanto. Pur essendo costretto ad attenervisi, però, il giurista conosce margini di creatività negati all’attore. E ciò perché, a differenza del manufatto letterario, quello normativo non vive senza interpretazione. La quale è sì soggetta a regole legali, ma anche queste regole sono oggetto d’interpretazione. Infatti, l’esegesi non è soltanto letterale: può essere evolutiva o sistematica, orientata alle conseguenze o adeguatrice, variamente ridisegnando ogni volta l’oriz- zonte di senso dell’enunciato normativo.
 Dire questo non significa che sia lecito l’arbitrio interpretativo. Significa solamente che successo e insuccesso dell’interpretazione dipendono dalla quantità dei consensi i quali a loro volta dipendono dalla condivisione della sensibilità cultu- rale e del patrimonio conoscitivo con cui l’interprete tiene conto di come fatti estranei al testo scritto impattano sul medesimo; fermo restando che l’unico limite all’arbitrio, come insegna Guido Alpa, è il self-restraint dettato da valori deontologici e meta-giuridici. Anche questa è una buona ragione che concorre a spiegare perché il giurista si trovi nella pratica impossibilità di nascondere da che parte sta. Non può perché il testo che deve interpretare si riconnette con l’ambiente esterno e lì destra e sinistra non sono soltanto categorie da codice della strada. Casomai, è adesso che cominciano ad esserlo; ma questa è un’altra storia.
Una scuola di pensiero si distingue nettamente dalle comuni scuole accademiche. È aristocratica e insieme informale, mentre le altre sono baronali nell’accezione resa impopolare dai racconti di abusi e soprusi. È laica, mentre le altre sono bigotte nel senso che venerano il capostipite e la sua parola, e perbeniste nel senso che flirtano con logiche di stampo mafioso, ma indossano il doppiopetto. Coltiva la meritocrazia e l’amore per il lavoro benfatto, mentre l’arrivismo corsaro e narcisista porta le altre a sentirsi riconosciute e premiate solamente se portano in cattedra (come si suole dire in gergo) il maggior numero possibile di propri candidati indipendentemente dal loro valore: nien- t’altro che questo è il modo col quale preferiscono manifestare la propria esistenza e misurare la propria vitalità.
Se ho tracciato questa tipologia delle scuole accademiche è perché ho visto da vicino come agiscono ed ho fatto parte di un gruppo di lavoro con le caratteristiche di una scuola di pensiero. Anche se, come tale non ha resistito a lungo, a differenza di quella che Giugni fondò nell’Università di Bari. La causa della sua prematura sparizione non mi è mai apparsa tanto chiara come adesso. La causa, dico subito, è stata la congenita fragilità che rischiò perfino di non farla nascere.
 
L’affermazione ufficiale della scuola bolognese si ha con il Com mentario dello statuto (a firma Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli). Che cosa intendi per « congenita fragilità »? Esistevano diverse anime all’interno della scuola? (9)
 
Le diversità erano sia di temperamento che di scelte inerenti al futuro individuale e dunque anche a legittimi calcoli d’interesse. Cerco di spiegarmi.
A ragione, tutti pensano che la scuola abbia monumentalizzato il suo atto di fondazione col ponderoso volume della collana edita dalla Zanichelli, l’arcinoto Commentario Scialoja-Branca del c.c., dedicato al commento dello statuto dei diritti dei lavoratori e uscito nel primo semestre del 1972. Nessuno, però, sa che Federico Mancini, unico destinatario della proposta editoriale, ne informò immediatamente me soltanto e nessuno ha mai avuto motivo di sospettare che fosse orientato ad associare nell’impresa me soltanto. Cosa che, quando me ne mise al corrente, mi turbò, anzitutto perché era interpretabile come sintomo di una inaspettata mancanza d’interesse al perfezionarsi della gestazione della scuola di pensiero di cui (come dicevo poco fa) erano rinvenibili tracce significative nella Trimestrale. Io invece ci credevo e non volevo privarmi del piacere che mi avrebbe procurato la stesura collettiva del commento della normativa statutaria: il sottile piacere di sentirmi parte di un gruppo espressivo di una cultura giuridica di cui mi riconoscevo produttore e insieme consumatore. Per questo, insistetti e, mi piace sottolinearlo, convinsi facilmente Federico ad estendere la proposta agli altri giuslavoristi fortemente integrati nella Trimestrale. Il loro contri- buto, dovette ammettere anche lui re melius perpensa, avrebbe sensi- bilmente accorciato i tempi della pubblicazione e la tempestività ci avrebbe consentito di influenzare gli svolgimenti del dibattito giuridico- politico e la progettazione delle decisioni giudiziarie. Inoltre, era chiaro che l’assenza in copertina di Giorgio Ghezzi non sarebbe passata inosservata e l’impatto del libro ne avrebbe risentito negativamente. Senza dire, poi, che da studioso serio e coscienzioso qual era Giorgio si sarebbe responsabilmente assegnato un compito circoscritto in ragione della carica appena assunta di assessore comunale. Analogamente, il fatto che Luigi Montuschi, l’ultimo giuslavorista bolognese selezionato da Carnacini, si apprestasse ad aprire uno studio professionale gli avrebbe suggerito di limitare l’impegno editoriale, concentrandolo in pratica sull’art. 7 st. lav. (era ancora fresca di stampa la monografia sul potere disciplinare con cui aveva appena vinto il concorso). Così, in effetti è andata. Montuschi commentò una manciata di norme (la più « pesante » delle quali era, per l’appunto, l’art. 7) e Ghezzi poco più di una mezza dozzina di norme il cui comune denominatore consisteva in ciò: pur non essendo tutte norme di dettaglio, commentarle non richiedeva un largo dispendio di tempo né prolungati soggiorni in biblioteca. La parte restante della normativa statutaria venne divisa equamente tra me e Federico, entrambi professori a tempo pieno.

È la prima volta, caro Giovanni, che rivelo questo aspetto della vicenda-commentario e, se tu non mi avessi proposto questa intervista, avrei continuato a tacerne per lo stesso motivo per cui si esorcizzano i fantasmi. Se, dopo averne taciuto con tutti per tanti anni, adesso rompo il silenzio è solo per dar conto (a te, ma un po’ — lo confesso — anche a me stesso) delle ragioni del veloce declino della scuola di Bologna. Ragioni, alla fin dei conti, riconducibili alla circostanza che le sue fortune non sono mai state realmente al centro degli interessi del suo leader ri- conosciuto. Infatti, qualche anno dopo il suo carisma Federico l’avrebbe speso altrove, lontano da istituzioni come quelle universitarie in crescente degrado e comunque incapaci di ricompensarlo se non in esigua misura, e il suo successo d’immagine l’avrebbe capitalizzato in appropriati inve- stimenti ad alto rendimento da ogni punto di vista. Salpato da Bologna per attraccare al CSM, al termine del mandato avrebbe dovuto, secondo le previsioni, approdare alla Corte costituzionale in quota PSI. Viceversa, la tempesta perfetta che si scatenò inopinatamente nelle aule parlamentari gli impedì di raggiungere il porto previsto e lo costrinse a cambiare rotta: sbarcò in Lussemburgo, dapprima come avvocato generale e poi come giudice della Corte di Giustizia europea.
Fu un lungo viaggio e Federico non si voltò mai indietro. Nean- che una sola volta. Il fatto è che non aveva abbandonato soltanto l’ambiente universitario. Perduto ogni interesse per il diritto del lavoro, si comportava come se avesse voluto cancellare il ricordo di essere stato un protagonista della ripresa degli studi giuridici nella materia. Difatti, mai rialzerà la saracinesca che, quasi in uno slancio liberatorio, aveva tirato giù per separarsi dal micro-cosmo che si era formato con lui e attorno a lui.
Emblematico il suo disimpegno nella seconda edizione del com- mento dello statuto dei lavoratori che aveva certificato la nascita della scuola bolognese. La prima edizione era da tempo introvabile e si comprende perché l’editore fosse interessato a proporne una nuova. A dar retta a ciò che lui stesso scrive nel risvolto di copertina del primo volume della nuova edizione, quello del 1972 è « una delle opere giuridiche del decennio più consultate e citate » (fa piacere sentirselo dire, anche se è solo pubblicità). Suddivisa in due volumi, il primo (1979) si arresta all’art. 13 e il secondo (1981) all’art. 18. Entrambi recano il nome di Mancini, perché suoi ab initio erano i commenti degli artt. 11, 17-18. Ma il nuovo commento sia dell’art. 11 sia dell’art. 17 è la riproduzione testuale del vecchio e del commento dell’art. 18, la cui nuova versione consta di circa 100 pagine, sono manciniani soltanto due paragrafi (nell’insieme una decina di pagine).

La seconda edizione non va oltre questo tornante. Un po’ perché non pare destinata a bissare il successo della prima. E un po’ perché l’espediente praticato per continuare ad esibire in vetrina il nome di Mancini non può più funzionare: i commenti che gli spetterebbero sono numerosi e devono essere rifatti; ma Federico non ne ha tempo né voglia.
Immagino quel che stai pensando. Pensi che la dissoluzione della scuola conseguente a un’insuperata crisi che era anche crisi d’identità, sia addebitabile soltanto a chi rimaneva. Verissimo. Ma la leadership non si acquista né iure hereditario né con atti inter vivos. Si conquista; e finisci per conquistarla davvero se gli altri sono disposti a riconoscerti un corredo di attitudini che sono come il coraggio secondo don Abbondio: se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Del resto, anche se l’ipotesi non è consolatoria, è presumibile che nemmeno la continuata presenza di Federico avrebbe risparmiato alla scuola di finire nella centrifuga dei concorsi a cattedra che fa dei professori universitari facenti parte delle relative commissioni dei faccendieri in cerca di alleanze a qualunque prezzo. Già allora, lo sfascio dell’Università era tanto irresistibile da trascinare con sé anche i migliori e Federico non poteva non averne un lucido presentimento. Oltretutto, era al corrente di insanabili divergenze affiorate dentro le mura domestiche. Di esse non vale la pena parlare, ma è opportuno farne cenno perché contri- buirono alla sua disaffezione alle cose sulle quali mi hai invitato a parlare. È lecito supporre infatti che il deteriorarsi dell’ambiente non fosse estraneo al suo  disamoramento.
 
La Tua collaborazione con Mancini s’infittì all’inizio degli anni settanta. Quali erano le caratteristiche del vostro rapporto scientifico? Come ha inciso sulla tua formazione e sulla Tua idea del diritto del lavoro?
 
Fra il 1970 e il 1972, tra Federico e me si attiva un sodalizio del quale posso dire quel che prima dicevo del sodalizio con Giugni: mi lusingava perché diseguale e, ciononostante, non ho mai provato un sentimento di soggezione. Il solo ricordarlo mi riempie di gioia, perché per creatività, operosità e sincronia delle interazioni era perfetto e comunque non è stato eguagliato dai sodalizi di cui ho fatto parte in epoca successiva. (Nella seconda metà degli anni ’70, esce per i tipi del Mulino — co-autore Tiziano Treu — una storia della strategia dei sindacati nel dopo-costituzione che oggi mi pare irreparabilmente viziata in radice dall’infondatezza della presunzione che fosse declina- bile al singolare e negli anni ’80 la Zanichelli pubblica la prima edizione di un manuale di diritto sindacale e del lavoro — co-autore Giorgio Ghezzi — di cui suppongo mi chiederai qualcosa in seguito).
Per due anni, il livello di produttività del sodalizio si mantenne elevato. Vi contribuì anche l’ideazione di una ricca antologia della dottrina giuridica in materia di diritto sindacale pubblicata nel 1971.Il volume rientrava nel programma di un’iniziativa editoriale del Mulino suggerita dal gruppo di giuristi (tra i quali Federico ed io stesso) raccolti intorno alla neonata Politica del diritto, diretta da Stefano Rodotà. Essi si proponevano inter alia di mettere a punto un’alternativa al metodo della lezione cattedratica contestato dal movimento studen- tesco esploso tra il ’67 e il ’68 nelle Università del centro-nord che reclamava un’organizzazione della didattica articolata in gruppi di studio. Nei nostri propositi, l’antologia era lo strumento adatto per seminarizzare l’insegnamento. Quindi, era dichiaratamente sperimen- tale, perché avrebbe voluto sostituirsi al manuale, il cui genere letterario la prefazione ridicolizzava con una caricatura che ne fa il luogo nel quale « noi professori usiamo celebrare in corpo otto i nostri riti iniziatici ». (La prefazione è a doppia firma, ma l’elegante cattiveria ha l’inconfondibile imprinting manciniano).
Il sodalizio con Federico ha segnato una tappa fondamentale nel mio processo di formazione, perché mi diede la possibilità di lavorare gomito a gomito con un intellettuale d’eccellenza, sbarcato una dozzina d’anni prima di me nel mondo del diritto (anche lui probabilmente) più per necessità che per scelta. Difatti, proprio perché il mondo del diritto gli andava stretto non esiterà a confessare l’indicibile sofferenza che do- vette sopportare piegandosi all’imperativo categorico di « imparare il passo dell’oca » per spianare la via che l’avrebbe portato in cattedra (il che accadde nel 1962) ed è per lo stesso motivo che, d’intesa con Giugni, si batteva per ridefinire i confini di quel mondo. Come dire: Federico si era visto costretto a destreggiarsi in una situazione che gli ricordava quella degli eretici italiani del Cinquecento, i quali — secondo la descrizione che ne ha tratteggiato Delio Cantimori — « tenevano celata la propria fede, aspettando per manifestarla che cessasse il timore del martirio e facendo intanto ossequio alle autorità ecclesiastiche  ».
La mia immensa fortuna è averlo intensamente frequentato quando era già fuori del tunnel e il fiume carsico — come lui stesso chiamava la sua impazienza a trasgredire i canoni della dogmatica — poteva liberamente affiorare e scorrere in superficie. Fortuna non solo mia, peraltro. L’hanno condivisa e apprezzata in tanti. I suoi studenti, anzitutto. E i suoi più motivati laureati, che intraprenderanno la carriera universitaria sotto la sua regia.
Laureati motivati che desideravano ardentemente far parte di  una « scuola di pensiero ».
« I miei boys », li chiamava Federico sorridendo. Con loro andava d’accordo. Anche quando avevano opinioni diverse. Riusciva persino a farli andare d’accordo tra loro, come sa fare soltanto un padre inteso non nel senso (a lui sicuramente sgradito) di autorità-autoritaria, bensì nel senso dell’Antico Testamento, dove pater è sinonimo di fondatore di una comunità. Quella di cui i boys volevano far parte. Difatti, vi entreranno; ma di lì a poco le fondamenta sarebbero crollate e sareb- bero rimaste soltanto macerie. Per questo, sarebbe stato possibile soltanto mitizzarla, come è certamente successo a tutti i boys. Un paio di loro, però, rifiutò di cibarsi di nostalgia e non cedette allo sconforto. Non che Guido Balandi e Luigi Mariucci lo abbiano combattuto credendo in prodigi del tipo Araba Fenice. Piuttosto, ci tenevano a dimostrare — anzitutto a se stessi — che il loro interesse per il diritto del lavoro non era strumentale; che consideravano una tappa, non il capolinea, l’acquisito status di professori straordinari (1985) e che la deriva dell’istituzione universitaria non giustificava propositi di resa.
Non erano nemmeno dei sognatori o degli irrequieti. Casomai, incubi e irrequietezze avevano cominciato a disturbare il diritto del lavoro, provocando un malessere diffuso. Anche tra gli interpreti. Persuasi che, in assenza di contro-misure adeguate arrivassimo tutti disarmati ad appuntamenti decisivi, con la fibra del « lupo di mare », icasticamente riprodotto nel fulmineo flash di Giuseppe Ungaretti, Guido e Gigi persuasero anche me che bisognasse attrezzarsi per risistemare le retrovie di una cultura giuridica del lavoro tra i cui esponenti si distinguevano quelli che sgomitavano per partecipare ad un’avvilente orgia senza fine di concorsi a cattedra (nel giro di pochi anni triplica- rono).
 
Hai disegnato un percorso che va dalla ‘scuola bolognese’ alla fondazione di « Lavoro e diritto ».
 
In effetti, Balandi e Mariucci mi proponevano con insistenza di promuovere un’iniziativa editoriale che agisse da fattore di riaggrega- zione programmaticamente aperta ad apporti stranieri e diventasse un luogo di ricerca frequentato da giuristi del lavoro che si riconoscessero in una certa idea di diritto del lavoro. La stessa che aveva caratterizzato un tratto non irrilevante del lungo itinerario percorso dalla Trimestrale e, nella prima metà degli anni ‘80, si era manifestata ancora più diffusamente e con maggiore continuità in Politica del diritto dopo la decisione presa (non ricordo per quali motivi) da Stefano Rodotà di condividerne con me (e Franco Bricola) la direzione. Sia l’una che l’altra rivista erano, per giuristi del lavoro come me e come loro, un veicolo accogliente ed insieme penalizzante, perché un ospite non ha il potere di disporre della casa dove è alloggiato. Alla contraddizione io mi ero abituato, ma per loro era un’anomalia. Durata fin troppo, dicevano. E avevano ragione. Però, li avevo avvertiti con la franchezza che è la cifra stilistica dei nostri rapporti, mi sarei comportato come il babbo che compra per il figlio la bicicletta tanto desiderata: adesso che ce l’hai, pedala. Peraltro, la cosa non poteva certo indispettirli o intimorirli. Difatti, erano e sono degli ottimi passisti. Specialmente Guido, che ha ininterrottamente posto la rivista al centro della sua attività di (impa- reggiabile) organizzatore di cultura, non solo giuridica. Come dire: anche se per trent’anni figuravo d’essere il direttore del periodico, perché l’editore (il Mulino) mi conosceva bene e si fidava di me, il mio ruolo è stato in realtà quello di averla messa al mondo, nel senso che ho facilitato il parto come una levatrice; ma la creatura non l’ho fecondata io. Battezzammo la rivista Lavoro e diritto (consorella della più anziana Arbeit und Recht vicina al DGB, il maggiore sindacato tedesco, e della Trabajo y derecho nata in Spagna un paio di anni fa) e nel novembre dell’anno scorso ne abbiamo festeggiato il 30° com- pleanno con un Convegno.
 
Lavoro e diritto si presentò sin da subito come una rivista proget- tuale, caratterizzata da un’apertura nei confronti della dimensione storica e della comparazione. Particolarmente fitto il colloquio con la giuslavori- stica spagnola.
C’è una frase che riassume il senso dell’itinerario scientifico- culturale compiuto coniugando la dimensione del diritto comparato e la dimensione della storia giuridica: « ci piacerebbe che di questa rivista un giorno si potesse dire: si occupa del presente, è attenta ai cambia- menti dell’oggetto della sua osservazione, ma non ne dimentica le radici ». Poiché la pronunciammo in sede di presentazione di Lavoro e diritto, è bello poterla riprendere trent’anni dopo cambiandone l’into- nazione. Da ottativa che era si è convertita in assertiva. Per favore, però, non chiedermi quando. Certo, non d’incanto né all’improvviso, bensì attraverso un processo di crescita collettiva fatta di considerazione degli altri e valutazione della necessità del loro contributo.
Nessuno di noi, infatti, poteva considerarsi autosufficiente. Il progetto editoriale origi- nario andava realizzato coinvolgendo giuristi affermati o ancora ai primi passi, selezionati tenendo conto che non fingano di non sapere che destra e sinistra non sono soltanto categorie da codice della strada. Bisognava pilotarne e controllarne il turn-over per mettere la persona giusta nel posto giusto al momento giusto. Nel suo svilupparsi, il progetto andava continuamente ridisegnato, tenendo conto del mutare dei profili culturali e delle propensioni dei nuovi arrivati. Insomma, « il vero protagonista della storia che abbiamo vissuto », come direbbe Antonio Tabucchi, « non siamo noi, è la storia che abbiamo vissuto ».
Nello stesso arco di tempo in cui nasceva la rivista, ebbi la fortuna (Dio mio, quanta ne ho avuta) di conoscere un personaggio straordi- nario che mi offrì l’opportunità d’intestarmi, più o meno come era accaduto con Lavoro e diritto, un’iniziativa che non avevo deciso da solo né autonomamente. Amico di Salvador Allende, Pedro Guglielmetti era arrivato in Italia come esule e prestava servizio nel Centro OIL di Torino (adesso è in pensione). Giugni, cui dapprincipio si era rivolto, lo indirizzò a me. Pedro mi cercò e mi propose di organizzare presso l’Università di Bologna un curso per esperti latino-americani in diritto del lavoro e relazioni industriali. Di questa specie di master della durata, per molto tempo, di tre settimane (ora ridotte a due) non posso raccontarne le vicissitudini. La sua storia interna sarebbe troppo lunga. Ti prego, perciò, di accontentarti di sapere che è stato il più rocambolesco e felicemente riuscito tiro di una biglia di flipper che mi sia capitato di effettuare in vita mia. La prima edizione si svolse a Bologna in coinci- denza con le celebrazioni del IX centenario dell’ateneo (1988) e si replicò per un quinquennio. Poi, il flipper andò in tilt. Dopo tre anni, però, il curso riprese in forma rinnovata e dura tuttora, anche se per svariate ragioni si tiene in Spagna.

Era d’obbligo che te ne parlassi, perché esso si pone in piena sintonia con l’orizzonte di senso della nostra conversazione. L’originalità del curso sta in ciò: i partecipanti provengono da tutti i paesi del continente latino-americano e la partecipazione segna la nascita di rapporti destinati a consolidarsi anche in ragione della comune appar- tenenza ad un’associazione costituita (più di vent’anni fa) dagli ex becarios che annualmente promuove un encuentro organizzato dagli ex del paese ospitante. L’esperienza realizza un modello di comparazione in presa diretta tra sistemi giuridici che, benché limitrofi, di norma si ignorano e si sviluppa attraverso un intreccio di scambi continuativi all’interno delle coordinate culturali che sono disegnate durante il curso. Così, quando negli ambienti universitari dell’America Latina, senti parlare di un curso de derecho del trabajo che si replica ogni settembre in Europa senza ulteriori specificazioni, è probabile che i parlanti si riferiscano a quello iniziato nella mia Università più di trent’anni fa. Ma io non ne sono el fundador (anche se tutti, là, hanno l’abitudine di chiamarmi così); l’ideatore e il vero animatore « in servizio permanente effettivo » è Pedro.
Comunque, strada facendo, il curso ha finito per trasmettere un’immagine di sé che ne fa una propaggine della scuola di pensiero che, forse troppo presto, abbiamo considerato estinta; oppure, sì, quest’ultima è morta davvero precocemente, ma svolge la funzione della società pecunia-opera di cui ti ho già parlato. Lo dico sommessamente, perché la cosa ha del fiabesco: sarebbe come scoprire, ma è successo soltanto a Ippolito Nievo, che « Rinaldo può vivere anche molti secoli dopo le crociate ».
E il ‘curso’ fece nascere nuove collaborazioni e consolidò rapporti già esistenti con giovani giuristi spagnoli.
Da circa vent’anni il curso si è innervato su un mio sodalizio extra-moenia che ha arricchito grandemente la mia formazione. Alludo ai dioscuri di Madrid. Là risiedono Antonio Baylos e Joaquin Aparicio, titolari di cattedra di diritto del lavoro nell’Università di Castilla-La- Mancha (in una delle quattro sedi della quale, Toledo, da alcuni lustri si svolge il curso). Ed è là, a Madrid, che li ho conosciuti nel 1982, perché il loro tutore accademico pro tempore ne aveva accolto il suggerimento di invitarmi a un seminario della Complutense. Mi dissero di aver letto con mucho gusto qualcosa di mio, ma pare che li avesse favorevolmente impressionati soprattutto l’intervento che avevo svolto in un meeting tenutosi a Siviglia (1978) sulla Costituzione della Spagna post-franchista nei giorni in cui le Cortes ne stavano ultimando i lavori preparatori. Lo aveva organizzato il cattedratico locale, Miguel Ro- dríguez Piñero col quale avrei poi stretto una solida amicizia, invitando gli autorevoli membri del Gotha europeo del diritto del lavoro. (Se c’ero anch’io era solamente perché Miguel aveva autorizzato Giugni e Mancini ad estendere l’invito ad un « giovane in gamba »).
Col passare del tempo, il rapporto con Antonio e Joaquin è venuto assumendo il carattere della fraternitas non solo per le indubbie affinità elettive, ma anche per le molte esperienze di lavoro e di studio che abbiamo condiviso e condividiamo tuttora: il curso di cui ho appena finito di dire, collaborazioni editoriali, specialmente con la loro Revista de derecho social dove appaiono con una certa regolarità miei scritti (tradotti prevalentemente da Baylos), la partecipazione a ricerche sulla storia del diritto del lavoro spagnolo (in questo momento è in corso di svolgimento una ricerca sulla transizione dal franchismo alla democra- zia) e ad eventi organizzati dall’organizzazione sindacale CC.OO., nonché dalla Fondazione Primero de Mayo, con le quali i dioscuri madrileni intrattengono intensi  rapporti.
 
Ti proporrei di tornare ancora agli anni settanta e ai primi anni ottanta. Qual era lo statuto ‘vissuto’ e commentato nel vivo dei dibattiti degli anni settanta? Quale lo statuto riletto negli anni successivi? Una ‘svolta’ del diritto del lavoro (e nel Tuo percorso di studi) era già percepibile a dieci anni dallo Statuto dei lavoratori, nelle sue prime rughe?
 
Talvolta, ho il sospetto che cadenze e movenze del mio rapporto col diritto del lavoro abbiano avuto un andamento poco lineare: strade che convergono e assonanze che suggestionano soprattutto perché hanno il sapore dell’improvvisazione, automatismi che scattano senza preavviso, ma al momento giusto. Tuttavia, è possibile individuare non tanto svolte in senso proprio quanto piuttosto cambi di passo. A svoltare, semmai, è il diritto del lavoro ed è un’autentica inversione di tendenza: il lavoro è sotto attacco e c’è chi sta preparando il trionfo, anzitutto sul piano politico-culturale, dell’offensiva contro il movi- mento sindacale. In tutti i paesi industrializzati, ne è rinvenibile il momento o evento emblematico.
Nell’America reaganiana, uno sciopero dei controllori si conclude con un licenziamento di massa. Nella Gran Bretagna thatcheriana, uno sciopero dei minatori è stroncato con metodi para-militari. In Italia, l’episodio più simbolico e traumatizzante si consuma a cavallo tra il 1979 e il 1980, giovandosi di una teatralizzazione non meno appari- scente di quella che emerge dalle cronache al di là dell’Atlantico e della Manica. Il luogo è la Fiat di Cesare Romiti. È Torino, nelle cui strade sfila in corteo « per la libertà di lavoro e contro lo strapotere dei sindacati » una folta rappresentanza della maggioranza « silenziosa » che l’autunno caldo del ’69 aveva ammutolito e gli spari delle P.38 terrorizzato. È l’aula giudiziaria ove si svolge il processo dei 61 licenziati dalla Fiat perché sono sospettati di collusione con le Br.
In effetti, i 61 creavano problemi un po’ a tutti. Alle gerarchie aziendali, ai vertici (specialmente confederali) del sindacato e del Pci che a livello nazionale stava sperimentando la tenuta del compromesso storico. Ai 100.000 (e passa) abitanti del pianeta-Fiat e a chissà quanti italiani. I 61 si rifiutavano di considerare esaurito il ciclo conflittuale che s’incarnava nel sindacato dei consigli. La loro intransigenza contraddiceva la ratio politica della normativa statutaria adottata dal legislatore un po’ per necessità e un po’ per convinzione. Pensava che fosse necessario per aiutare il sindacato a riassorbire un’ondata ininterrotta di rivendicazioni scopertamente classiste ed era convinto che lo statuto avrebbe contribuito a trasformare, insieme al sistema delle imprese, l’intera società italiana, incentivando l’uno e l’altra a vedere nel sinda- cato un legittimo interlocutore e nel diritto del lavoro — il che non era mai successo — la possibilità di mantenere la promessa del 2° comma dell’art. 3 cost.
Non tutti i 61 erano delegati di reparto, di linea, di gruppo omogeneo. Però, appartenevano alla razza di quelli che nel quotidiano controllavano le condizioni di lavoro facendone oggetto di un’ossessiva micro-contrattazione sostenuta da una conflittualità permanente. Come dire: avevano il torto di interpretare lo statuto in maniera percussiva, come se fosse stato messo a loro disposizione per destabilizzare il potere aziendale. Per questo, la Fiat cercava l’occasione buona per dimostrare la fallacia del riformismo del legislatore statutario e la sua contro- fattualità, come testimoniava la giurisprudenza spericolata di giudici che, a dare retta ai mass-media, indossavano la banditesca maschera di
« pretori d’assalto. Ai loro occhi — come dirà Luigi Mengoni con un sarcastico risentimento poco conciliante con la mitezza del suo carattere - il sindacato appariva « come agli occhi di Dio apparve l’Inghilterra nel glorioso 1689: la guardò e vide che tutto era bene ».
L’occasione, come ho già detto, maturò a cavallo tra il 1979 e il 1980. Ma la Fiat era interessata non tanto a disfarsi legittimamente di debitori di lavoro inadempienti quanto piuttosto a dare in pasto all’opinione pubblica la notizia che il sindacato usava lo statuto in modo sbagliato ed a convincerla che tra il disordine nella fabbrica e il disordine fuori si era stabilita una connessione, almeno indiretta. Essendo questo il vero obiettivo, occorreva che il clima interno si deteriorasse fino a marcire, anzitutto perché ciò avrebbe aggravato l’imbarazzo del sindacato a difendere in giudizio quanti sarebbero stati incolpati dell’insostenibilità della situazione ambientale. Per la Fiat quindi era importante ritagliarsi la parte di chi, dopo aver sopportato un’infinità di soprusi, a un certo punto non ce la fa più e, battendo i pugni sul tavolo, urla « basta: è ora di finirla ». Insomma, fa scoppiare il petardo col maggiore fragore possibile per richiamare l’attenzione della sinistra politica e vedere l’effetto che fa sulle maestranze, sul sindacato, sulla città di Torino, sui mass media e su un’opinione pubblica incline a farsi persuadere che, dopo l’assassinio di Aldo Moro, la società fosse ormai priva di mezzi di difesa. Pertanto, ciò che stupisce non è il licenziamento dei 61; piutto- sto, colpisce il ritardo nell’intimarlo e colpisce il quomodo è intimato. Infatti, il licenziamento disciplinare era viziato dalla palese violazione della puntigliosa normativa statutaria che procedimentalizza l’esercizio del potere disciplinare. È come se la Fiat ne scontasse in anticipo l’invalidazione giudiziaria. Infatti, il vizio formale della decisione di licenziare i 61 è funzionale all’obiettivo più immediato: accertare come reagisce il sindacato quando dei lavoratori sono accusati di un eccesso di militanza sindacale. Il calcolo si rivelerà esatto. Il sindacato decide di subordinare la sua disponibilità a presentare un ricorso ex art. 700 c.p.c. a nome e per conto dei 61 alla dichiarazione sottoscritta da ciascuno di essi che condanna l’uso della violenza nella lotta sindacale. L’espediente è escogitato allo scopo di tutelare il buon nome del sindacato che ci tiene ad essere considerato un competitore ligio alle regole che incivi- liscono anche il più aspro scontro ed insieme selezionare, tra i rappre- sentati, quelli che lottano lealmente distinguendoli dai devianti. Per quanto comprensibile, è la spia di un profondo disagio. In sostanza, equivale ad ammettere che la materia scotta e il sindacato, che ne è pienamente consapevole, si asterrebbe volentieri. Se potesse. Ma non può, perché — come Ghezzi racconterà nel Processo al sindacato (1981) da lui vissuto dal di dentro — il processo che sta per celebrarsi ha natura più politica che giudiziaria. A ben vedere, questo è il solo esito collaterale che la Fiat poteva ripromettersi, perché la lite giudiziaria era perduta in partenza. Vi sono però soccombenze che valgono una vittoria. Infatti, la Fiat prenderà serenamente atto del decreto pretorile d’urgenza emanato a norma dell’art. 700 c.p.c. che, dichiarati nulli i licenziamenti, ricostituisce de iure rapporti di lavoro cessati de facto. Ma non si rimangia la decisione. Anzi, non impiega più di un minuto a reiterarla licenziando nuovamente i 61. Insomma, riparte immediata- mente, sgommando come fanno i bulli del volante. Stavolta, però, li licenzia in maniera formalmente corretta, perché ha raggiunto la cer- tezza che il sindacato non si tirerà indietro e accetterà di condurre il dibattimento sul terreno da lei scelto: tracciare in astratto il confine tra lecito e illecito nei conflitti di lavoro.
Come dire: ha raggiunto la certezza che la sorte dei 61 non interessa al sindacato fino al punto di legarvi la sua. Il che apparirà più chiaro a tutti in seguito, quando il sindacato azionerà l’art. 28 non tanto per tutelare i 61 quanto piuttosto per tutelare se medesimo. Diversamente, non si asterrebbe dal chiedere al giudice di completare la rimozione degli effetti della condotta della Fiat ordinando, ove ne accertasse l’antisindacalità, la reintegra dei licenziati che, nel caso di specie, costituirebbe la più adeguata misura di riparazione. E l’ambiguità del petitum non può non aumentare la visibilità della circospezione con cui il sindacato si muove sin dall’inizio dell’intera vicenda; una vicenda che si chiude nella primavera del 1980 senza che il sindacato proponga opposizione al decreto che respinge il suo ricorso, come se avesse una gran fretta di voltare pagina e una gran voglia di non parlarne più.
Ho dovuto indugiare nel racconto della drammatica controversia, perché la sua instaurazione, il suo sviluppo e il suo esito segnano « la » svolta. Infatti, quello è il contesto in cui nasce l’idea che quello del lavoro sia un diritto giovane invecchiato precocemente. « Lo statuto ha delle rughe », scrive Mancini sul giornale di Eugenio Scalfari; e non erano nemmeno trascorsi dieci anni. Io, invece, non ci sto ad assumere l’aria del figliol prodigo che torna dal padre e gli confessa i danni che ha causato alle stesse idee di progresso per seguire le quali se ne era andato di casa. Ritengo che il ruolo del giurista del lavoro non sia quello di inseguire i fatti con l’intento di giustificarli e razionalizzarli o, tutt’al contrario, polemizzare con loro, finendo così per abbaiare alla luna.
« Nell’interesse della materia », come amava dire Giugni, credo che il giurista del lavoro farebbe cosa buona e giusta se si abituasse a decifrare il futuro allungando lo sguardo sul passato non solo per capire quanta parte di esso non vuole passare, ma anche per non cadere in revisioni- smi senza memoria che slittano nel trasformismo. O, all’opposto, per non sponsorizzare fughe in avanti. Come capitò a Giorgio Ghezzi. Il quale, ripensando nel 1996 alla trilogia di suoi scritti apparsi sulla Trimestrale tra il 1967 e il 1970 che esaltavano le potenzialità neo- rivoluzionarie presuntivamente acquisite dal diritto del lavoro durante l’autunno caldo, riconoscerà onestamente di averlo fatto in base ad
« un’ingiustificata ipostatizzazione di linee di tendenza desunte a dina- miche rivendicative di troppo breve periodo [...] nonché sostanzial- mente ristrette ad esperienze spontanee di autotutela collettiva ».
 
Nasce da questi avvenimenti il Tuo « cambio di passo  »?
 
Esso si produce nella prima metà degli anni ’80, con l’avvicinarsi della fine precoce del nuovo inizio del diritto del lavoro segnato dallo statuto del 1970. Per quanto rallentato e ammorbidito, il declino era sotto gli occhi di tutti coloro che volessero vedere: la legislazione c.d. dell’emergenza della seconda metà degli anni ’70 era soltanto la punta dell’iceberg e la vicenda dei 61 lasciava presagire che niente sarebbe più stato come prima. « È stato bello », scrivevo, « ma è durato poco »; avrei, però, potuto scrivere con la medesima sincerità: era troppo bello per essere vero. In realtà, era cominciata la transizione che ci avrebbe portato dove siamo oggi. Non posso dire che ne avessi la netta percezione. Tuttavia, ne recano una visibile traccia due scritti pubblicati, rispettivamente, su Politica del diritto e sulla Trimestrale: L’Amar- cord del diritto del lavoro (1982) e Il diritto del lavoro tra disincanto e riforme senza progetto (1983); ai quali si sommano Alle origini del diritto del lavoro: l’età pre-industriale, nella Rivista italiana di diritto del lavoro (1985) e « Noi e loro »: diritto del lavoro e nuove tecnologie (1986), ancora sulla Trimestrale. Dall’insieme dei saggi trapela che avevo già in testa (e nel cuore) l’idea di scrivere il libro che, una decina di anni dopo, il Mulino vorrà mandare alle stampe col titolo Il lavoro in Italia. Un giurista racconta. Un titolo che non mi ha mai convinto del tutto: avrei preferito quello che sarà utilizzato nel 1997 nella traduzione spagnola, a cura del Consejo economico y social: El derecho, el trabajo y la historia.
 
A lasciar presagire che ‘niente sarebbe stato più come prima’ nel Diritto del lavoro s’inserì tragicamente anche il terrorismo. Il momento in cui è apparso chiaro a tutti che niente avrebbe più potuto essere come prima è arrivato quando al tuono a sinistra che attraversò sul finire degli anni ’60 i nostri cieli seguirono gli anni di piombo durante i quali gli spari delle P. 38 ammutolirono tanto i giuristi del lavoro quanto gli operai. Da quel momento, anche la conflittualità sindacale più sana e meno inquinata dall’ideologia — quella, per intenderci, che funzionava da fattore di accelerazione del progresso sociale — ha esitato a manifestarsi, come se temesse di essere fraintesa e al penoso silenzio nelle fabbriche ha fatto riscontro il pensoso silenzio dei giuristi del lavoro. Pensoso perché, sia pure ciascuno a modo suo, si videro costretti a rivisitare criticamente l’entusiasmo col quale ave- vano partecipato alla stagione del disgelo costituzionale e del riformi- smo sociale culminato nella legislazione statutaria.
Può darsi che tutte le corporazioni di giuristi abbiano conosciuto giorni migliori di quelli attuali. Però, la corporazione dei giuristi del lavoro ha addirittura subito lutti, perché la storia vi ha fatto irrompere la più demenziale caricatura della lotta di classe. All’inizio degli anni ’80, il bersaglio dell’irrazionalità sanguinaria è Gino Giugni, che subisce un attentato andato a vuoto unicamente per l’imperizia degli esecutori. Letali invece saranno le schegge impazzite che colpiscono Massimo D’Antona (1999) e Marco Biagi (2002). Per quanto diversi nell’approc- cio al diritto del lavoro, condividevano la passione civile di progettarne il futuro. Una passione che è una componente virtualmente costitutiva della vocazione al ruolo di intellettuali d’area giuridica: Massimo ha scritto che il giurista « somiglia ad un ingegnere che edifica coi materiali che gli offre il linguaggio i ponti sui quali scorrono le comunicazioni tra diritto e società ».
 
L’inizio degli anni ottanta è caratterizzato dalla collaborazione con Giorgio Ghezzi che diede vita al Manuale edito con la casa editrice Zanichelli. C’è un qualche rapporto tra la stesura del Manuale e quello che ha definito il tuo cambio di passo?
 
Ho cominciato a scrivere il manuale di diritto sindacale e del lavoro con Giorgio Ghezzi nel 1981. Di lì a poco, però, le modifiche del quadro normativo e del suo contesto mi imposero il « cambio di passo » di cui ti parlavo poc’anzi. Infatti, mentre nelle prime edizioni affiora quasi con riluttanza, nelle successive edizioni, come dirò tra un attimo, emergerà corposamente.
Del manuale in due volumi (il primo vede la luce nel 1982 e il secondo nel 1984) la Zanichelli pubblica ben quattro edizioni nell’arco di circa 15 anni (senza contare gli Aggiornamenti in volumetti separati che arrivano al 2000) e le nuove edizioni (specialmente le ultime, del 1995 e del 1997) esigono un ampio rifacimento che richiede tempo, prosciuga energie e determina gli stati d’animo nevrotizzanti propri di chi sa di costruire su un terreno che sta franando. Le prime edizioni, infatti, recano ancora ampie tracce dell’idea interamente novecentesca che la disciplina-standard del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, sottoposto a regole tendenzialmente uniformi e sinda- calmente protetto, potesse funzionare come prototipo delle discipline dei rapporti contrattuali in cui si effettua lo scambio tra lavoro e retribuzione. Nelle ultime edizioni, invece, si afferma l’opposto: il contratto di lavoro stabile e sine die aveva cessato di funzionare da stella polare dei contratti di lavoro lato sensu e dunque anche del diritto del lavoro legificato, giurisprudenziale e negoziato in sede sindacale.
Alla lunga, il fatto che il cantiere restasse sempre aperto e i lavori non finissero mai costituì uno dei principali motivi per cui, varcata la soglia del nuovo secolo, considerammo esaurita l’impresa-manuale. Di motivi per mollare, però, ce n’erano altri. Di per sé, la stessa scelta di proporre a Giorgio di confezionare insieme un manuale in periodi della nostra vita che vedevano lui impegnato a Montecitorio e me alle prese del secondo triennio consecutivo di presidenza di Facoltà, non era certo la più felice delle scelte possibili. Senza dire, poi, che pur non avendo ancora piena consapevolezza della criticità della situazione in cui si trovava il diritto del lavoro, ero assalito dal dubbio che il peggio dovesse ancora venire. Approfondendosi, questa contraddizione mi apparirà sempre meno tollerabile fino a obbligarmi a domandare a me stesso il perché della scelta. La risposta che sto per esporti è quella che mi diedi. Ed è impietosamente sincera.
In primo luogo, avevo introiettato la credenza vetero-professorale che la scrittura di un manuale completasse nel migliore dei modi il curriculum di chi ha insegnato per decenni all’Università; e sapevo che anche Giorgio la pensava così. Però, giudicavo troppo onerosa un’av- ventura individuale e Giorgio era il partner ideale. Non solo era per me quello che Federico diceva di considerarsi nei suoi confronti: un fratello maggiore. Il fatto è che in lui vedevo quello che tutti vedevano e Giovanni Tarello riassumeva così: « la punta avanzata della corsa a sinistra » di quell’entità che un tempo era stata la scuola di pensiero bolognese. Né a me né a Giorgio, tuttavia, sfuggiva che del nostro manuale nessuno avrebbe detto « ogni sua pagina pare scritta dalla stessa mano »; e ciò a causa di una insopprimibile diversità di linguaggio e stili espressivi. Pertanto, avevamo messo in conto il rischio che all’omogeneità di sostanza non avrebbe potuto corrispondere la desi- derabile omogeneità di forma. Probabilmente, sbagliammo a sottosti- marlo: ai temerari succede.
In secondo luogo, venni preso dall’irragionevole desiderio di dimostrare che un manuale può non essere soltanto un noioso testo d’esame. Cosa pressoché impossibile, perché l’alto potenziale costrittivo e prescrittivo che caratterizza questo genere letterario ha la proprietà non solo di intristire lo studente, ma anche di azzerare la creatività degli autori. Ciononostante, le sfide intellettuali mi piacciono e quella di tentare di scrivere un manuale in contro-tendenza finì per sedurmi. Per questo, sia pure non senza un filo di sado-masochismo, mi fece sorri- dere la garbata ironia dell’incipit della recensione di Giugni: « chi abbia dimestichezza con le opere degli autori non ha difficoltà ad attribuire all’uno o all’altro ogni capitolo. Gli autori non sono Fruttero e Lucen- tini e neppure i fratelli Taviani ».
 
"Il lavoro in Italia. Un giurista racconta" compare a metà degli anni novanta. È un libro che nasce da lontano, maturato a partire, come hai detto, dall’inizio degli anni ‘80, e che s’inserisce appieno nel dibattito di fine secolo sull’identità disciplinare della giuslavoristica.
 
Ho desiderato scrivere Il lavoro in Italia più di qualsiasi altro libro, antecedente o successivo. Ma la sua gestazione è stata lentissima. Anche per questo, forse, tra quelli che ho scritto è il libro che amo di più. Scriverlo mi ha addestrato a valutare il nuovo che avanza senza perdere la memoria di un passato bisognoso di essere ripensato, sia pure senza nostalgia. Dopotutto, se non può dirsi che il nuovo sia figlio del diritto del lavoro del Novecento, nemmeno può dirsi che sia arrivato contro di lui. La verità è che, di strada, il diritto operaio delle origini ne ha fatta tanta. Ha incivilito il vincolo di dover dipendere da altri per poter lavorare che demolì modelli di vita sia individuale che collettiva. Pur essendo veicolato da un irriducibile antagonismo d’interessi, si è sforzato di comporre le fratture sociali provocate dall’industrializza- zione per attutirne gli effetti più destabilizzanti. Ha costituito parte integrante dello statuto dell’impresa fordista che glorificò l’homo faber per poterne disciplinare col suo consenso i comportamenti in confor- mità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato.
È diventato il diritto del secolo. Un secolo che ha visto maturare le condizioni di base in mancanza delle quali mai e poi mai si sarebbe potuto rivendicare con successo che lo Stato monoclasse divenisse lo Stato pluriclasse che è ora. Infatti, se le nostre democrazie sono sopravvissute e si sono consolidate, lo devono anche alla capacità del diritto del lavoro di mantenere la promessa di consentire l’accesso al popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose alla forma di cittadinanza che Theodor Marshall definiva « industriale » forse perché odorava di petrolio e sudore, carbone e vapore di macchine o perché tutti gli indicatori macro-economici convergevano nella medesima di- rezione all’interno delle coordinate tracciate dall’espansione del pro- cesso di industrializzazione sostenuto dalla politiche keynesiane d’in- tervento statale.
 
È proprio a partire dalla metà degli anni ‘90 che si avvia il dibattito sulla crisi del diritto del lavoro. Contestualmente, proprio in coincidenza con la pubblicazione del Lavoro in Italia, il principale filo conduttore dei Tuoi scritti è necessità di (tornare a) spostare l’accento sulla cittadinanza. Evidente è la polemica contro il mercato, contro il processo di de- costituzionalizzazione del diritto del lavoro e la marginalità della tutela giurisdizionale dei diritti.
L’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva di Gino Giu- gni (1960) si apre con queste parole: « Il diritto del lavoro, da più di dieci anni, vive in condizione di attesa ». Attesa di una legge sindacale organica che non sarebbe mai arrivata. E difatti, la monografia avrebbe ottenuto un ineguagliato successo di pubblico e di critica (come si usa dire di un film premiato con l’Oscar) perché il suo autore fu il primo giurista italiano a presagire che il provvisorio sarebbe diventato perma- nente e sulla base di questa premessa teorizzò che al diritto sindacale e del lavoro sarebbe toccato conoscere miserie e grandezze dei processi di giuridificazione spontanea. Per questo, scandalizzò un ‘trentanovista’ convinto come Giuseppe Pera e a Gino Giugni, che gli aveva mandato riservatamente il dattiloscritto in lettura preventiva per averne il parere, sconsigliò di pubblicarla. Adesso, invece, non scandalizzerebbe nessuno una monografia di diritto del lavoro che si aprisse con la parafrasi dell’incipit della più importante monografia di diritto del lavoro della seconda metà del Novecento italiano: « Il diritto del lavoro, da più di venti anni, vive in condizione di attesa della sua morte annunciata ».
A ben vedere, però, la disagevole condizione non è affatto una novità. Il diritto del lavoro è sempre stato paragonabile ad un edificio situato in una zona ad alto rischio sismico, perché è sempre stato costretto a confrontarsi con logiche di mercato capaci di farlo collas- sare. Tuttavia, le difficoltà che incontra non hanno smesso di crescere; tant’è che molti di noi hanno iniziato ad interrogarsi su quanto tempo mancasse alla sua demolizione assai prima della fine del secolo che aveva visto la sua affermazione. Pertanto, poiché il devastante sisma che lo ha colpito in questi ultimi anni e in tutti i paesi dell’Unione Europea è stato preceduto da numerosi segnali, il minimo che può dirsi è che l’allarme è stato sottovalutato. Ed io credo di sapere perché. Il fatto è che i segnali d’allarme erano filtrati da un diaframma costituito da fideismi che oggi mi sembrano perfettamente speculari e simmetrici al catastrofismo dell’attuale disincanto. Infatti, se le prime volte che mi recavo in America Latina per partecipare agli encuentros degli ex becarios del curso non sbagliavo a credere di avere compiuto un viaggio più attraverso il tempo che nello spazio, sbagliavo a immaginarmi di essere entrato in contatto col passato remoto di quello che doveva considerarsi il più euro-centrico dei diritti nazionali. Viceversa, sbarcavo nel suo futuro prossimo nel suo stesso luogo d’elezione. Per questo, in occasione dei più recenti soggiorni, l’avere in tasca il biglietto del volo di ritorno non mi procurava più la tranquillizzante sensazione che provavo negli anni ’80. Originata da un senso di superiorità al limite della supponenza, la sensazione — di cui oggi arrossisco — era quella di possedere la certezza che quel ticket mi avrebbe permesso di tornare in un angolo del pianeta dove il diritto del lavoro che insegnavo ai miei studenti non sarebbe mai stato maltrattato: non poteva né doveva essere maltrattato.
 
In che senso fideismi e catastrofismi sono speculari e simmetrici?
 
Nel senso che quanto più a un diritto venuto al mondo per aggiustarlo un po’, e non per rifarlo da cima a fondo, viene attribuita la prodigiosa virtù di realizzare aspettative poco meno che grandiose tanto più lo si idealizza, finendo così per allontanarlo dalle sue reali dimen- sioni; le quali hanno poco da spartire con l’epicità, moltissimo invece con la cronaca quotidiana. Come dire che la cultura giuridica animata da propositi di segno progressista si è fatta del male da sola. Dopotutto, i successi migliori li ha ottenuti quando, nell’impossibilità di arrestare o contrastare l’ininterrotto processo di trasformazione di una società ad ordinamento capitalistico, ha avuto il coraggio morale e la spregiudi- catezza intellettuale occorrenti per renderlo socialmente sostenibile e perfino desiderabile, assecondando gli sforzi che gli esseri umani de- vono compiere per adattarvisi. Non è molto, ma è tutto.
Questo in effetti è accaduto e me ne considero responsabile.
 
La ‘dimensione epica’ del diritto del lavoro non riesce più a fissare nessi tra disincanto e ragionevoli utopie?

« Ricostruire » è la parola d’ordine che risuona dopo ogni terremoto. Declinata come un imperativo morale, essa risponde all’esigenza di rassicurare gente spaventata. Nel nostro caso, il clima sociale che si è gradualmente formato durante lo sciame sismico che ha investito il diritto del lavoro è la risultante di un mix di apatia, sfiducia, rassegna- zione, conformismo, paura. Soprattutto, paura. Quella di chi, esposto al ricatto occupazionale, ritiene accettabile anche un lavoro scandalosamente sfruttato. Debole e intermittente, invece, è l’opposizione aperta- mente conflittuale.
È intellettualmente onesto riconoscere che la sfida della ricostru- zione trova tutti impreparati. In primo luogo, le rappresentanze istitu- zionali del lavoro. La sinistra politica, che ha fatto la fine del soldato di cui si sono perdute le tracce: c’è chi dice che sia morto da eroe e c’è chi dice che abbia disertato.
I sindacati, che si rinchiudono all’interno di perimetri aziendal-corporativi e riscoprono, magari coi brividi del neofita, la convenienza di forme di partecipazione che un recente accordo tra la Confindustria e le maggiori confederazioni sindacali considera espressione di una « cultura del coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro » (sic). Dal canto loro, i giuristi del lavoro non sono meno disorientati. Il che non meraviglia: avevano già dimostrato di essere privi della cultura dell’emergenza sismica che suggerisce come comportarsi quando la scossa tellurica arriva. Figurarsi adesso che bisogna ricostruire! Infatti, molti di loro accarezzano l’idea che si possa ricostruire il diritto del lavoro dov’era e com’era, quando ancora « la storia non era finita » — per riprendere una notissima e discussa espressione di Francis Fukuyama. Ma quella di de- contestualizzare la forma novecentesca del diritto del lavoro per poterla riprodurre, eguale nel diseguale, è un’idea meta-storica.
 
Occorre dunque dire addio al diritto del lavoro del Novecento?
 
Tutto lascia presagire questo finale.
Il « dove » del diritto del lavoro non è più quello dell’epoca in cui traghettò il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose dalla condizione di sudditi a quella di cittadini. Non può esserlo perché la globalizzazione dell’economia ha de-territorializzato il sistema delle sue fonti di produzione, cancellando letteralmente i confini degli Stati- nazione ciascuno dei quali è destinato a cedere quote crescenti di sovranità democratica alla business community dei nostri giorni, che è l’erede  della  societas mercatoria medievale.
Né più realistica è la proposta di ricostruire il diritto del lavoro com’era.
Due sono le componenti fondamentali del diritto del lavoro del Novecento. In primo luogo, esso non si sarebbe formato con le carat- teristiche che abbiamo conosciuto (anzitutto, uniformità e inderogabi- lità) se il modo di produrre nella fabbrica fordista non si fosse imposto anche come un modo di pensare, uno stile di vita, un modello di organizzazione della società nel suo complesso. In secondo luogo, il diritto del lavoro non avrebbe assunto la forma vincente che ha potuto esibire di se medesimo, se la Russia sovietica non avesse intimorito l’Occidente capitalistico e, indirettamente, non lo avesse persuaso a essere tollerante nei confronti del riformismo delle forze politiche e sociali che sponsorizzavano un diritto a misura d’uomo.
Pertanto, sia il passaggio alla società post-industriale che l’implosione dell’Urss hanno spinto moltitudini di comuni mortali che, per guadagnarsi da vivere, devono lavorare all’altrui servizio ad incammi- narsi dentro un gigantesco processo di mutazione antropologico- culturale il cui esito conclusivo più evidente è la riduzione della distinzione tra destra e sinistra a categorie da codice della strada. A tutto ciò, poi, si deve sommare il fatto che nemmeno il capitalismo è quello dell’età dell’industrializzazione. Si è finanziarizzato e, nel passare dall’economia di scala all’economia di scopo in un mercato globalizzato, ha cambiato lo stesso lavoro e la concezione che se ne ha. Ormai, perduti il profilo identitario e l’unità spazio-temporale che aveva in passato, anche il suo futuro non è più quello d’una volta. Al lavoro culturalmente e politicamente egemone della società industriale che si declinava al singolare è subentrata la galassia dei petits boulots. Minuscoli. Eterogenei. Precari.
Come dire: la strategia ispirata al principio di ricostruire il diritto del lavoro com’era dà per scontato ciò che non lo è affatto. Presuppone che tutti i discorsi (quello giuridico incluso) presto o tardi ripartiranno da dove si sono interrotti, come se il virtuoso rapporto d’interazione tra economia e democrazia che si protrasse durante i gloriosi trent’anni fosse caduto in uno stato di latenza provvisoria e, benché inabissato, sia destinato a riaffiorare. Presuppone che, col cessare dello sciopero degli investimenti senza precedenti che ha indebolito il sistema produttivo, all’economia reale sarà restituita la centralità che aveva. Presuppone che il volume di produzione aumen- terà creando nuova occupazione, mentre nel medio-lungo periodo la prospettiva è, se non la decrescita, la crescita-zero o una crescita rallentata a causa delle compatibilità ambientali e della finitezza delle risorse naturali; e, comunque, l’innovazione tecnologica creerà meno posti di lavoro di quelli che divora. Presuppone che il lavoro occasio- nale, usa-e-getta, a chiamata sia un fenomeno transitorio e l’espansione dell’Uber economy o dell’economia voucherizzata possa essere arrestata con divieti legali, per eticamente doverosi che possano apparire.
 
Scrivendo riguardo all’art. 8 della legge 138 del 2011 [la contrattazione « di prossimità » che può derogare in peius a gran parte della legislazione del lavoro e ai contratti nazionali di categoria] hai invitato a storicizzare la norma per cogliere la presenza, ‘non solo nei governanti’, di una concezione proprietaria della contrattazione collettiva, di una dimensione patrimonialistica e mercatistica degli interessi in gioco. La questione interpella — hai aggiunto — tutti gli operatori giuridici perché costringe a fare i conti con gli effetti preterintenzionali di un paradigma disciplinare legato a una fase ormai superata della cultura giuridica. Quali sono le responsabilità della cultura giuridica, quali gli effetti preterintenzionali?
 
Forse era scritto che al diritto del lavoro toccherà morire come era nato: in maniera anonima e semi-clandestina. Così, se allora nessuno si accorse che stava venendo al mondo, adesso nessuno ha informazioni precise del contrario. Infatti, secondo l’art 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 che ratificò un decreto-legge emanato nei giorni del ruit hora dell’ultimo governo Berlusconi, la contrattazione « di prossimità » (ossia, aziendale o territorialmente circoscritta) può derogare a gran parte della legislazione del lavoro, sancendo la caduta del predicato dell’inderogabilità in peius delle regole prodotte dalla più blasonata delle fonti di produzione normativa costituzionalmente legittimate, nonché l’evaporazione del principio per cui a lavoro uguale devono corrispondere uguali diritti, economici e non.
La norma pesca nel profondo perché, iper-valorizzando la dimen- sione privatistica, patrimonialistica e mercatistica degli interessi in gioco, interpella tutti gli operatori giuridici. Li interpella perché non possono dirsi estranei al processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire il lavoro, le sue regole e la sua rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore interesse presidiato dallo Stato ed ha finito per incentivare i sindacati a farsi una concezione proprietaria della contrattazione collettiva. Non che, ci tengo a sottolineare, l’art. 8 ne rappresenti l’inevitabile punto d’arrivo, come se non fosse altro che il suo necessario completamento.
Ciò non toglie che la radicalità della scelta normativa è troppo spudorata per non suscitare il bisogno di chiedersi chi o che cosa l’abbia in qualche modo preparata e dunque se abbia radici nella politica del diritto che ha egemonizzato il dopo- costituzione in materia sindacale e del lavoro. In effetti, non mancano indizi che invogliano a storicizzare la norma, situandola all’interno di un più ampio orizzonte di senso ove è dato reperire la chiave di lettura che permette di riconoscervi l’estremizzazione della logica sulla quale si è costruito l’impianto politico-culturale di un’intera esperienza giuridica.
 
Gli indizi sono dunque da ricercare nel dopo-costituzione: alludi alla scissione tra pubblicisti e privatisti, al ruolo giocato dagli innovatori? Il primo indizio è che lo stesso Giugni si domandava, più stupefatto che soddisfatto, come mai la sua leadership culturale si fosse affermata più facilmente e più rapidamente del previsto. Certo, era giusto che stravincesse « il più bravo di tutti », come riconosceva lealmente Giuseppe Pera, o che la Cisl di Giulio Pastore e Mario Romani tifasse per lui: aveva bisogno di darsi un’identità e la rivaluta- zione dei corpi intermedi cari alla cultura cattolica, coessenziale alla teorizzazione di Giugni dell’ordinamento intersindacale, era proprio ciò che quel sindacato voleva che si facesse. Sì, sono risposte plausibili. Ma quella risolutiva è che una vera contesa culturale non poteva esserci per il semplice motivo che non c’è stata nemmeno una vera sconfitta della gius-privatistica; o, più esattamente, era una sconfitta che permetteva alla gius-privatistica di ri-legittimare il pieno controllo della provincia che aveva cominciato a colonizzare nel tardo Ottocento.

Per questo, Mario Rusciano potrà dottamente parlare di Santoro Passarelli e di Giugni come di esponenti di culture giuridiche del lavoro « sincroni- camente complementari ». In realtà, la gius-privatistica ha dei continua- tori negli stessi messaggeri del nuovo e i giuristi che al seguito di Giugni prendono posto nella cabina di regia dell’evoluzione della cultura giuridica del lavoro sono più spregiudicati dei predecessori. Enfatiz- zano la superiorità dell’autoregolazione sociale rispetto all’eteronomia legislativa e anzi, visto che il contesto storico-politico favoriva un uso più distorsivo che corretto del dato costituzionale, finiscono per rim- picciolire la trasgressività della de-costituzionalizzazione della materia sindacale e del lavoro al punto di ravvisarvi (come ironizza Riccardo Del Punta) « una forma superiore di attuazione costituzionale ». Non pro- vano nemmeno un serio imbarazzo a considerare bene economico tutto ciò che è fonte di arricchimento: a cominciare dal lavoro che, secondo i più riveriti testi, « non è una merce ».
Tuttavia, ciò che più li univa è ciò che non potevano dirsi e comunque non si dissero. Il non-detto è che un diritto del lavoro al passo con la Costituzione, e alla sua altezza, non è la risorsa di cui ha bisogno l’economia capitalistica. A distanza di tempo, quindi, appare sempre più chiaro che l’agenda politico-culturale che non riconosce la priorità all’allineamento con la Costituzione del diritto del lavoro è la medesima che nel dopo-Liberazione pospone l’istanza di defascistizzare l’ordinamento giuridico argomentando, pe- raltro non senza qualche buona ragione, che è malata di massimalismo. Ma è anche la medesima che aveva attribuito alla Carta del lavoro del 1927, ossia all’atto fondativo del regime fascista, una portata superiore a quella del discorso d’investitura di un premier che, convinto di durare chissà quanto, presenta il suo governo con un documento politico- programmatico nel quale sono prefigurati i lineamenti che uno Stato da rifare andrà assumendo. Gonfio di effetti-annuncio, lasciava tutto nella vaghezza in modo da (se non anche al fine di) rendere incerta la verifica degli adempimenti, complicata l’identificazione degli inadempienti e impossibile la loro punizione. Non c’è nulla, quindi, assolutamente nulla di paragonabile al rigore tecnico della legge dell’aprile del ’26 redatta da un decisore politico,
Alfredo Rocco Guardasigilli del Regno di fresca nomina, cui sono familiari gli stilemi della professione giuri- dica. Infatti, alla perentorietà di una legge che — azzerato il conflitto collettivo veniva e addomesticato il sindacato — preclude al diritto individuale del lavoro gli itinerari evolutivi che soltanto la libera misurazione dei rapporti di forza è in grado di tracciare fa riscontro l’intonazione ideologico-discorsiva della risoluzione deliberata da un organismo privo di competenza legislativa come il Gran Consiglio del fascismo che rinvia all’esperienza successiva la conoscibilità di quanto di essa sarebbe stato percepito come un impegno vincolante. Non a caso, la monografia più importante del ventennio, scritta da Paolo Greco nell’ambito di un prestigioso Trattato di diritto civile, tratta la Carta del lavoro a stregua di un contenitore di principi generali cui l’ermeneutica assegna solitamente un rilievo residuale. Il che non era affatto sbagliato e anzi era metodologicamente corretto. Vero è che la deliberazione venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, ma ciò signifi- cava soltanto che si attribuiva a questo veicolo cartaceo l’attitudine a solennizzare un evento che doveva segnare inizio di una nuova era. È invece inammissibile che sia voluto far fare alla Carta del 1948 la stessa fine della Carta del 1927 la cui valenza è, a voler concedere tutto, soltanto para-costituzionale. Un conto infatti è negare l’idoneità a disciplinare il divenire giuridico ad un atto che si colloca oltre il perimetro della positività giuridica; ben altro è sbatterne fuori l’atto fondante  della medesima.
 
Aiutami a comprendere meglio. Qual è la Tua lettura del rapporto tra giuspubblicistica e giusprivatistica nella fase di affermazione del diritto del lavoro nell’Italia repubblicana?

Mi viene spontaneo rispondere così: il rapporto è segnato dalla reciproca incomunicabilità, un vero e proprio black-out, perché giuspubblicistica e giusprivatistica agivano su campi distinti e secondo logiche separate. La secca risposta non può sorprenderti dopo ciò che ti ho detto poco fa. Ma mi rendo conto che ti sono debitore di qualche chiarimento.
La giusprivatistica aveva ravvisato fin dalle origini un’indiretta conferma della legittimità del suo possesso del diritto del lavoro nel- l’indifferenza che verso il medesimo manifestava la coeva giuspubblici- stica. In effetti, gli schemi cognitivi di quest’ultima erano stati costruiti nel corso di una tradizione disciplinare risalente all’epoca in cui lo Stato svolgeva il ruolo di gendarme per garantire l’ordine pubblico minacciato da classi sociali pericolose. Si direbbe, pertanto, che — una volta chiusa la parentesi del fascismo giuridico — la giuspubblicistica riprese le vecchie abitudini mentali pur in presenza di un documento costitu- zionale che ha fatto del lavoro l’elemento fondativo della Repubblica. Tanto, deve aver pensato, alla modernizzazione avrebbe provveduto la parte più avanzata della cultura giuridica del lavoro. Così facendo, però, sottostimava l’inclinazione di quest’ultima ad accreditare un colossale pregiudizio favorevole all’idea, più mitica che storicamente accertata, che il diritto privato assicurasse un ordine naturale delle cose alterna- tivo all’ordine artificiale creato dal diritto pubblico.
Infatti, il clima politico-culturale che aveva vinto il virus trasmesso dal fascismo giuri- dico avrebbe rinvigorito grandemente la tradizione mono-disciplinare che comprimeva le regole del lavoro negli appositi involucri confezio- nati dai privati nell’esercizio di un potere di auto-determinazione che la retorica degli interpreti considerava come la più sacra manifestazione dell’individualismo economico e giuridico. A rigore, quindi, toccava proprio alla giuspubblicistica dimostrare che il diritto pubblico parto- rito da uno Stato democratico non poteva essere di per sé sinonimo di 
autoritarismo, di indebite interferenze dall’alto e dall’esterno, di ridu- zione degli spazi di libertà individuale e collettiva.
 
Se comprendo bene, nell’odierno smantellamento del diritto del lavoro s’insinua il peso dell’uso ‘residuale’ della Costituzione fatto dai ‘messaggeri del nuovo’ negli anni cinquanta e sessanta? Non ti pare di fissare un nesso troppo forte (e, se posso dirlo, eccessivamente autocritico) tra ‘delegittimazione della Costituzione’ e costruzione disciplinare del diritto del lavoro nell’Italia repubblicana? E d’altronde non ti pare che l’impossibilità di una netta rottura con la tradizione disciplinare costitui- sca una conferma dell’evoluzione del diritto del lavoro caratterizzata da microdiscontinuità?
 
La micro-discontinuità del diritto del lavoro, ossia la sua costante evolutiva, non è un dato di per sé positivo: a volte, chi si accontenta non gode per niente, alla fine. Con ciò non intendo negare che abbia permesso al diritto del lavoro di guadagnarsi la gratitudine delle moltitudini che, non potendo né scegliere né rifiutare i cambiamenti, ma soltanto subirli, sono messe nella condizione di disporre del tempo dell’adattamento: un fattore decisivo nei processi di transizione. Dopo- tutto, i comuni mortali gradiscono cambiare adagio il modo di pensare e di vivere; mentre detestano di essere trattati come creta nelle mani dello scultore. Tuttavia, la ragionevolezza della costante evolutiva del diritto del lavoro può essere interpretata anche come una spia, se non di cedevolezza, della propensione a cercare accomodamenti, anche a costo di sfidare il rischio dell’irreversibilità degli effetti collaterali di lungo periodo, in omaggio al principio per cui ciò che è urgente deve prevalere su ciò che, pur essendo meno urgente, è importante in linea di principio. Tuttora persistenti, infatti, sono gli effetti prodotti non solo dal black-out che portò la gius-pubblicistica ad appaltare alla gius-privatistica lo studio sistematico del diritto sindacale e del lavoro, ma anche (per dirla con Piero Calamandrei) dall’ostruzionismo delle maggioranze governative che imposero un blocco della Costituzione.
Un blocco durato per alcuni decenni; gli stessi che avrebbero dovuto essere impiegati per ripianare un colossale deficit di coscienza demo- cratica e cultura civica. Certo, ha del prodigioso che le duecento parole della prima parte della costituzione siano riuscite, malgrado tutto, a conservare il fascino di un racconto popolare. Infatti, se oggi la Costi- tuzione scende nelle strade, vuol dire che i padri costituenti guardavano lontano e che, come sostiene Stefano Rodotà, anche « i diritti sulla carta sono un forte strumento di mobilitazione politica ». Ciononostante, si fa fatica a immaginarsi come il paese sarebbe cresciuto, e cosa sarebbe oggi, se l’attuazione del progetto costituzionale avesse potuto contare su di una partecipazione di massa, trasversale e non episodica, come quella che registrano le cronache dei nostri giorni. Probabilmente sarebbe un paese migliore e, sicuramente, diverso. In effetti, a causa di una ritardata percezione popolare della necessità di metabolizzare il sistema di valori cui si ispira la Costituzione, il terreno nel quale essa affonda le sue radici non è stato fertilizzato come in teoria avrebbe dovuto succedere. Anzi, è stato inquinato; e finora non è stato possibile bonificarlo completamente.
 
È solo con lo statuto dei lavoratori che si fissa allora un momento di incontro tra le diverse anime della giuslavoristica, un momento di realizzazione del dettato costituzionale?
 
La domanda contiene in sé la risposta. Ma il punto è che, se è vero che con lo statuto dei lavoratori il diritto del lavoro è diventato maggiorenne, non è vero che lo statuto fosse il coerente svolgimento, lo sbocco naturale e il coronamento della cultura giuridica dominante. Come ho già detto, quest’ultima diffidava della tesi secondo cui tra il diritto del lavoro e la Costituzione dovesse stabilirsi la stessa relazione d’intimità che sussiste tra la grammatica e la lingua. Pertanto, esonerato il primo dalla coazione ad adeguarsi alla seconda, l’uso che i messaggeri del nuovo raccomandavano di fare della costituzione non è paragona- bile a quello che la carovana dei Re Magi seppe fare della stella cometa. Piuttosto, può dirsi che i messaggeri del nuovo erano favorevoli a un uso della Costituzione, se non proprio residuale, paragonabile a quello che della linea Maginot si proponeva di fare l’esercito francese nella prima guerra mondiale. Il che è esattamente quel che accade adesso.
Adesso che lo stanno smontando un pezzo alla volta, è dietro di essa che il diritto del lavoro si vede costretto ad asserragliarsi, senza però garanzia di non essere travolto. Basterebbe pensare all’uso capovolto dell’art. 4 cost. ad opera della più recente legislazione (il c.d. Jobs Act), secondo la quale quanto più si abbassano gli standard protettivi degli occupati tanto più si alzano le probabilità di occasioni di lavoro dei disoccupati. Vero è che l’esperienza dimostra come la previsione sia sostenuta dalla stessa logica di chi è disposto a giurare che, tagliando i capelli a chi ne ha, i calvi vedranno crescere i propri. Sta di fatto però che, nella misura in cui è strumentale all’effettività del diritto al lavoro di tutti, acquista un’insperata copertura costituzionale lo smantella- mento del diritto del lavoro.
 
« Umberto Romagnoli, custode per antonomasia della storicità, ergo dell’apertura al mutamento della materia (ma anche critico feroce dei ‘revisionismi’ senza memoria) », il giudizio è di Riccardo Del Punta (10).

Il giudizio di Del Punta è una delle più riuscite istantanee che mi ritraggono allo scrittoio. Infatti, la custodisco in un album segreto che mi piace sfogliare quando mi assale la malinconia.
 
Nel leggere oggi lo statuto dei lavoratori dove sta il confine tra necessaria apertura al mutamento e revisionismo senza memoria?
 
Molti dicono che lo statuto li dimostra tutti, i suoi quarantacinque anni. Ma ragionano così soltanto perché sono prigionieri di un sillogi- smo che è facile confutare.
Premessa maggiore: lo statuto chiuse un ciclo di inattese lotte operaie di cui la storiografia parla come del « secondo biennio rosso ». Premessa minore: il referente dello statuto era la fabbrica fordista. Ergo, lo statuto è un ferrovecchio. Il sillogismo è falso e la deduzione che se ne ricava una sciocchezza, perché lo statuto non ha mai legato la sua vitalità a un modo di produrre storicamente determinato. Si riconnette, invece, a valori di carattere permanente e universale la cui vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa era simboleggiata dal fordismo, ma che vanno protetti indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio del modello dominante di produzione e organizzazione del lavoro. Pertanto, la ragione vera della richiesta di rottamare lo statuto bisogna cercarla altrove ed è questa: perduta la rappresentanza politica, il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose dispone soltanto di una rappresentanza sindacale rissosa — ed è anche per questo che non ha più la forza contrattuale di prima.
Ecco perché quarantacinque anni non bastano per esprimere un giudizio definitivo sullo statuto. Non bastano perché la linea di politica del diritto anticipata dallo statuto non ha avuto gli svolgimenti che meritava. Insomma, c’è un Nuovo Mondo che sta ancora aspettando il suo Colombo.
 
In questa rivista (11) hai scritto che ‘tornare allo statuto’ è sfida al futuro, ‘nuovo inizio’ legato al ‘non detto’: in primo piano non c’è lo statuto che « contribuì a stabilizzare la subalternità dell’individuale al collettivo corganizzato », ma lo statuto come « input normativo per andare oltre la concezione del rapporto di lavoro come regolazione dell’impianto privato-contrattuale di un rapporto di mercato ».
 
Lo statuto, scrisse Massimo D’Antona, « è la legge della cittadi- nanza del sindacato in azienda ». Ma anche Massimo sapeva che lo statuto esprime la consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro sulla vita delle persone eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto tra privati. Pertanto, anche Massimo sapeva che lo statuto trasferisce nell’ambito di un rapporto instaurato da un contratto di diritto comune il principio costitutivo della società contemporanea che fa del lavoro il passaporto per la cittadinanza. Lo statuto lo ha declinato in chiave di divieti rivolti al datore di lavoro: divieto di perquisire il dipendente, di impadronirsi dei suoi stili di vita e dei suoi stessi pensieri, di discriminarlo; divieto di punirlo se non con modalità capaci di incivilire un primitivismo come il cumulo in un medesimo soggetto dei ruoli di accusatore, giudice e parte lesa.
ome dire: lo statuto sancisce la non-espropriabilità anche nel luogo di lavoro di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino. Per questo, lo statuto è la legge delle due cittadinanze. Del sindacato e, al tempo stesso, del lavoratore in quanto cittadino di uno Stato di diritto. Infatti, il legisla- tore statutario riconosce al lavoratore più di ciò che può dare un contratto a prestazioni corrispettive. Molto di più; e può farlo perché prende sul serio un evento che a molti sembra tuttora secondario o addirittura un’esagerazione retorica: issandosi nelle zone alpine del diritto costituzionale elaborato nel secondo dopo-guerra fino a diven- tare, da noi, il formante dello Stato, il lavoro è entrato nell’età della sua de-mercificazione.
 
Il discorso pone al centro la cittadinanza. È l’inversione del percorso dallo status al contratto?
Non era mai successo che il diritto del lavoro — né quello legificato né quello giurisprudenziale né quello di cui è artefice il sindacato — pretendesse di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino. E ciò perché « nella prima modernità », come ha scritto Ulrich Beck, « dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto piuttosto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavora- tore ». La stessa autonomia negoziale privato-collettiva ha metaboliz- zato in fretta il metodo, non opportunistico né contingente, di un pragmatismo sensibile ad una concezione manageriale del lavoro. Anzi, la condivide a tal segno da interpretarla in maniera dogmatica, assu- mendo cioè che la dimensione mercatistica dello stato occupazional- professionale acquisibile per contratto non può non schiacciare la dimensione politico-istituzionale dello status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico. « Per molto tempo », confesserà Vittorio Foa, « abbiamo visto nell’operaio solo un operaio da difendere nel suo rapporto col lavoro e da rappresentare nei suoi soli interessi materiali, e non abbiamo visto gli altri versanti della sua vita ». Per questo, è il suo disincantato commento, non avremmo dovuto stupirci che a un certo punto abbia smesso di ascoltare i nostri discorsi. Il fatto è che erano discorsi solidali con una logica produttivistica ed efficientistica che dà per scontato il sacrificio dello status di cittadinanza a vantaggio  dello  stato occupazional-professionale.
Dunque, è sufficiente uno sguardo d’insieme sul passato che aveva alle spalle per porre in luce come lo statuto fosse privo di antecedenti normativi. In effetti, aveva gettato le premesse necessarie per imprimere una violenta torsione all’evoluzione del diritto del la- voro. L’avrebbe voluta non più polarizzata sullo scambio contrattuale di utilità economiche. Non più dominata dalla necessità di disciplinare i comportamenti del lavoratore dipendente in conformità con le esi- genze della produzione. L’avrebbe voluta più attenta ai valori extra- contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore.
Viceversa, l’esortazione del legislatore statutario a ripensare le connessioni che si stabiliscono tra lavoro e cittadinanza è caduta nel vuoto: soltanto Massimo D’Antona intuì che, per il diritto del lavoro, era « una questione di ridefinizione strategica ». Perciò, quella che lo statuto racchiude è una virtualità rimasta inespressa perché ha spaven- tato l’impresa più di quanto non abbia sollecitato il sindacato. Infatti, tanto l’impresa quanto il sindacato si sono sottratti alla sfida a rilegit- timarsi mediante l’adeguamento dei rispettivi modelli di comporta- mento alla trama dei diritti del lavoratore dipendente valorizzati da Bruno  Trentin  nella  sua  ideale  Città  del  lavoro:  a  cominciare  dal « diritto di essere informato, consultato, abilitato ad esprimersi nella formazione delle decisioni che riguardano il suo lavoro » e, aggiungo io, la sua regolazione. Un diritto che trasforma il suddito in cittadino. Un diritto funzionalmente polivalente e strutturalmente multi-direzionale. Ossia, un diritto esigibile nei confronti non solo dell’impresa, ma anche del sindacato. E ciò perché il sindacato, non diversamente dall’impresa, rientra nella categoria delle autorità private principalmente in ragione dell’efficacia vincolante posseduta de iure o de facto dalle regole del lavoro che contribuisce a produrre.
 
La virtualità inespressa dello statuto si lega fortemente dunque al ruolo del sindacato. Il dibattito sulla rappresentanza sindacale ha diviso (e continua a dividere) i giuristi.

I giuristi (quelli del lavoro inclusi) si occupano moltissimo di quel che il sindacato fa. Pochissimo di quel che è. Anche per questo, si ascoltano spesso giudizi come questi: « è un sindacato molto rappre- sentativo, ma è un cattivo rappresentante » oppure « è poco rappresen- tativo, ma è un efficiente rappresentante ». Il fatto è che rappresenta- tività e rappresentanza entrano in rotta di collisione sia quando il sindacato è vittima di una overdose di universalismo — che può indurlo persino a trascurare l’aggiornamento dell’anagrafe degli iscritti — sia quando ubbidisce ad una logica chiusa di gruppo, facendo sua una concezione della rappresentanza rigidamente ricalcata sull’ordinario modello privatistico. Si dirà che, stante la forma storica che ha assunto nel nostro paese, il sindacato non è seccamente riducibile né al primo né al secondo tipo. Casomai, è un ibrido. Tant’è che me ne sono fatta presto un’idea simile a quella che esibisce di sé il centauro della leggenda: metà uomo e metà cavallo. Che, per l’appunto, è un ibrido di successo. Suggestivo finché si vuole, ma problematico perché, quando la straordinaria creatura si ammala, non si sa se chiamare il medico o il veterinario. Per fortuna, la questione non è all’ordine del giorno, perché il sindacato ritiene di avere una salute di ferro: con un passato di cui gloriarsi come il suo, sembra convinto di avere un futuro di cui fidarsi e, in una situazione di opacità come quella attuale, conosce l’arte della rimozione.
Nondimeno, fin dall’inizio ho trovato insoddisfacente l’angolo visuale prevalente nell’annoso dibattito dottrinale sulla rappresentanza sindacale che si trascina stancamente col ritmo dello stop and go. Infatti, l’ottica adottata (anche in giurisprudenza) privilegia esclusivamente l’aspetto della rappresentanza sindacale che ne fa il congegno in assenza del quale la contrattazione collettiva non potrebbe neanche funzionare; punto e basta. Non che si possa dubitare di questo suo carattere strumentale e della sua indispensabilità. Però, l’ottica è riduttiva e, al di là delle intenzioni, amputa l’orizzonte di senso in cui si situa la rappresentanza sindacale, perché sfiora appena i nodi della sua legitti- mazione democratica e li lascia nello sfondo. Va detto però che il sindacato ci ha aiutato a sbagliare. Se è vero che quello che supera la congiuntura italiana degli anni 1960-70 è il sindacato rinnovato dei consigli di fabbrica, agente del cambiamento e soggetto generale, è del pari vero che non sempre si comporta coerentemente con la consape- volezza, che dice di avere, di non poter vivere in autonomia rispetto ai lavoratori che intende rappresentare. L’intero capitolo III della mia prima monografia l’ho scritto perché ero attratto dalla centralità della democrazia — come prassi essenziale affinché le rappresentanze siano davvero tali — e, per contrastare le naturali derive burocratizzanti dell’organizzazione sindacale, richiamavo l’attenzione sulla qualità del clima associativo che si forma al suo interno.
Ma questo è anche il capitolo meno letto di Il contratto collettivo di impresa. Fatto sta che, già allora, mi faceva una certa impressione che un’imponente tradizione di pensiero (anche) giuridico dimostri di saper apprezzare, nel sindacato, più che altro la capacità di assicurare la governabilità della fase post- contratto, esercitando il dovere d’influenzare i rappresentati a compor- tarsi in conformità agli impegni presi dall’organizzazione.
 
Si può dire, insomma, che lo statuto dei lavoratori lanciava una sfida che non è stata raccolta. Ma è possibile ‘tornare allo statuto’ ignorando le sue rughe, i tanti mutamenti presenti nella « realtà giuridica effettuale »? Poiché la sfida lanciata dallo statuto non è stata raccolta, bisogna chiedersi perché. A mio avviso, alla pregiudiziale ostilità dell’impresa si è sommata la freddezza o il disinteresse o la sospettosità o la pigrizia mentale (o tutte queste cose insieme) del sindacato. In proposito, assume un valore simbolico la controversia che seguita a lacerare il mondo sindacale in ordine all’ammissibilità di procedimenti di valida- zione consensuale dell’esito contrattuale di conflitti di lavoro riguar- danti intere collettività. La controversia è tuttora irrisolta.
Peraltro, alla fine precoce del nuovo inizio segnato dallo statuto ha contribuito anche la cultura giuridica che, quando si occupa del sindacato, dimostra di saperne apprezzare soltanto la capacità di assi- curare la governance della fase post-contratto. Viceversa, una Costitu- zione come la nostra che attribuisce al sindacato la funzione di un legislatore privato vieta ai giuristi di glorificarlo a stregua di una creatura angelicata dotata d’intrinseca democraticità o, al contrario, accreditarlo come un soggetto maturo e responsabile soltanto se dimo- stra di operare all’interno di una concezione proprietaria dell’interesse collettivo e, in buona sostanza, dei diritti di cui dispone. Non a caso, i padri costituenti subordinarono il conferimento ai sindacati di una potestà para-legislativa a un obbligo da cui invece sono esonerati i partiti politici: l’obbligo di darsi « un ordinamento interno a base democratica » (art. 39, comma 3). Quindi, proprio perché la Costituzione fa del sindacato un soggetto che agisce in qualità di un tutore piuttosto che di un rappresentante in senso tecnico-giuridico, è costi- tuzionalmente corretto desumerne che il livello di democraticità del- l’esercizio del potere contrattuale collettivo dipende dall’intensità (continuità, trasparenza, incisività) della partecipazione al processo decisio- nale assicurata ai destinatari della contrattazione collettiva che, per lo più, sono estranei alla vita associativa del sindacato.
Se non fosse di questo parere anche l’Alta Corte, non se ne comprenderebbe l’insistenza con cui si richiama all’esigenza che i rapporti tra lavoratori e sindacato siano presidiati da « regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia »: la prima volta, nella forma di un obiter dictum contenente un monito al legislatore (sent. 30/1990) e, da ultimo, nella forma di un’addictio adeguatrice di una norma statutaria strapazzata dal legislatore popolare nel 1995 la cui dizione testuale permetteva, in un mutato contesto ambientale, inaudite violazioni dei più elementari principi della demo- crazia sindacale (sent. 231/2013).
Del resto, il legislatore statutario non si proponeva obiettivi qualitativamente differenti: « il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando », diceva Giacomo Brodolini, « si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica alla vita associativa e della formazione di canali democratici tra il sindacato e la base ». Lo statuto però ha omesso di definire la posizione dei rappresentati di fronte al rappresentante: infatti, pur prevedendo l’attivazione di istituti di democrazia diretta come l’assemblea e il referendum, non impone alle rappresentanze sindacali aziendali di usarli per verifiche del consenso. Vero è che, se debitamente contestualizzata, l’omissione non è priva di plausibili giustificazioni. Ciò non toglie che questa sia la ruga dello statuto.
Una ruga resa sempre più vistosa dalle trasformazioni del lavoro, dell’organizzazione produttiva e del sindacato.
Lo statuto è invecchiato non solo e non tanto a causa della metamorfosi del lavoro e dell’organizzazione produttiva quanto piutto- sto a causa del mutamento antropologico-culturale che ha interessato la platea cui si rivolge il sindacato di oggi e di domani. Infatti, le istanze di auto-determinazione di fronte ad ogni potere, anche il più protettivo e benevolo, che percorrono l’universo giovanil-femminil-scolarizzato- precarizzato e/o micro-imprenditoriale rendono palese l’inadeguatezza di una normativa che ha premiato un sistema sindacale fondato su vincoli di appartenenza identitaria che si sono spezzati e chissà se potranno riformarsi. Imprevedibilmente diversificato e frantumato, esso intima al sindacato di interrogarsi sul punto se l’amore per la specie — il lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato — non lo abbia portato a perdere di vista il genere e, adesso che il lavoro si declina al plurale assai più di quanto non potesse accadere in precedenza, chie- dersi se l’obbligo imposto alla Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni non faccia parte del nucleo duro della costituzione (art. 35, co. 1).
Il trittico confederale assemblato nel T.U. del 2014 è animato dalla trasparente intenzione dei contraenti di prefabbricare la piatta- forma, l’ordito, l’impianto di un intervento legislativo che da più parti si ritiene auspicabile. Io tuttavia sono del parere che, anche qualora tale evento si producesse, il problema di come impostare la rappresentanza sindacale si porrebbe egualmente. Infatti, la rappresentanza sindacale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la contrattazione collettiva vive nel dopo-costituzione, ma anche (e forse soprattutto) perché ha perduto affidabilità come veicolo delle istanze dei rappre- sentati. Il T.U. è ricco di soluzioni giuridico-formali nel tentativo, in sé encomiabile, di far uscire il contratto collettivo da una crisi dipendente dall’eccesso d’informalità che caratterizza il dopo-costituzione. Però, esso non affronta in maniera risolutiva la crisi della rappresentanza sindacale. La sola fessura da cui trapela la consapevolezza della sua esistenza è costituita dalla previsione che i contratti nazionali saranno sottoscritti « previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavo- ratori a maggioranza semplice ». Mettiamo pure da parte le perplessità causate dall’indeterminatezza delle procedure e dalla vaghezza della loro obbligatorietà. Accantonare invece non si può la circostanza che nell’insieme il T.U., dando il massimo risalto alla « esigibilità » del contratto collettivo, celebra l’elogio dell’efficacia cogente degli impegni contrattuali e sponsorizza il decisionismo dei vertici nientemeno che al livello che sembra destinato a diventare il cuore del sistema.
Stabilisce, infatti, che i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale « se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu » e, se firmati da rsa, sono sottoponibili a verifica entro certi limiti ed a certe condizioni. Non può certo sorprendere che il T.U. affronti il problema della rappresentanza sindacale nell’ottica della contrattazione collettiva per garantirne l’ordine. Anzi, desta sensazione che nei summit confederali che hanno confezionato il trittico sia furtivamente affiorata una perce- zione della necessità della sua democratizzazione. Questo, infatti, è un problema che appartiene ad una dimensione schiettamente endo- associativa e la controparte non c’entra per nulla né ha qualcosa da insegnare. Quindi, l’auto-riforma del sindacato è senz’altro la via mi- gliore. In astratto. In concreto, però, sono trascorsi più di tre anni e non si colgono segni significativi dell’interesse del sindacato ad ispezionare il lato nascosto della rappresentanza che è suo compito esercitare
 
Anche il futuro non è più quello di un tempo: è necessario dunque un nuovo inizio, un nuovo paradigma giuslavoristico. Ma con quali compagni di viaggio? Entro una società sempre più individualistica e ‘desocializzata’ è possibile avere ancora un paradigma giuslavoristico?

È difficilissimo. Però, conforta la certezza che nessuno riuscirà mai a fare del deterioramento generalizzato degli standard protettivi spettanti al cittadino in quanto lavoratore un pretesto per revocare il passaporto che consentì di accedere allo status di cittadinanza. Piutto- sto, si diffonderà la percezione — che infatti affiora già nelle varie e ancora confuse proposte di un reddito di cittadinanza — della necessità di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino- lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debi- tore di lavoro sul cittadino in quanto tale. Nel linguaggio degli ingegneri-architetti che hanno un po’ di familiarità con la cultura dell’emergenza sismica, si potrebbe parlare di ri-localizzazione del diritto del lavoro.
Stando così le cose, l’alternativa che inchioda il pensiero giuridico-politico si profila con sufficiente chiarezza. O si accontenta di razionalizzare la regressione del diritto che dal lavoro ha preso il nome allo stadio di diritto di una transazione economica; e in questo caso aderirà ad una concezione parentetica dell’intervallo di tempo che separa la sua fine dal suo inizio, quando c’era soltanto il diritto del contratto di lavoro. Oppure, e tutt’al contrario, si ribella all’idea che il diritto del lavoro, se ha un futuro, non può averlo se non nel suo passato, come se la fine non potesse non ricongiungersi sempre all’inizio e il principio segnare sempre l’itinerario percorribile. In questo caso, si impegnerà affinché gli effetti del formidabile cortocircuito determinato dall’incontro del diritto del contratto di lavoro con le costituzioni del secondo dopoguerra (e, segnatamente, con l’autonomia collettiva in una cornice di libertà sindacale garantita) possano continuare a prodursi per vie e con modalità consone alle radicali trasformazioni subite dalla società e tuttavia capaci di contrastare — nei limiti del possibile — l’egemonia della cultura dominante.
È, però, indispensabile che il pensiero giuridico-politico si procuri fin d’ora le antenne che gli permettano di elaborare la strategia necessaria per respingere le mi- nacce alla democrazia cui ha diritto il lavoratore in quanto cittadino e assicurarne la vitalità che non ha mai avuto. Il dato da cui ripartire è che il diritto del lavoro del ‘900 ha consegnato alla storia delle idee giuridiche un referente sociale che si distingue nettamente da quello del diritto del contratto di lavoro. Non è il suddito capite deminutus dell’età pre-industriale, durante la quale il lavoro era culturalmente insignificante e politicamente ininfluente, né l’eroe controvoglia dell’industrializzazione simboleggiato dall’operaio. Non è l’artigiano espropriato della libertà di decidere cosa, come e quanto produrre né il produttore deresponsabilizzato a cui si richiede più obbedienza che consenso. È il cittadino che si obbliga per contratto a vestirsi da produttore per poter acquistare il pacco-standard di beni e servizi il cui possesso gli permette di essere o (il che è lo stesso) credersi un cittadino nella pienezza delle sue prerogative. Un cittadino sempre meno disposto a sacrificarne qualcuna via via che interiorizza una concezione del lavoro come forma o modalità di esercizio del diritto di cittadinanza. Questo c’era nella valigia del diritto del lavoro che si presentava alla dogana del nuovo secolo e questo gli hanno permesso di portare con sé. In effetti, aveva contribuito a educare moltitudini in fuga dalla povertà pericolosa di mendicanti e vagabondi, facendo della povertà laboriosa la condizione subordinatamente alla quale lo Stato monoclasse avrebbe concesso al popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose il passaporto che gli consente di accedere allo status di cittadinanza di cui il costituzionalismo democratico della contemporaneità è stato il garante.
E' quindi arrivato il momento di riaffermare che l’evento è simile nei suoi effetti al gesto di Eva, dopo il quale il mondo non è stato più lo stesso; e ciò perché è figlio di un’opzione culturale e valoriale capace di resistere alla pressione eser- citata dall’opposta opzione che riduce gli incontri del diritto col lavoro ad altrettante occasioni per perfezionare una tecnica regolativa d’im- modificabili rapporti tra diseguali. Come dire: se il lavoro industriale ha raggiunto l’apogeo della sua emancipazione allorché le leggi fondative delle democrazie occidentali ne hanno fatto la fonte di legittimazione della cittadinanza, nella società dei lavori i diritti di cittadinanza appar- tengono anche a chi cerca lavoro e non lo trova, a chi lo perde e a chi, più per necessità che per scelta, ne fa tanti e tutti diversi. Insomma, non tutto è reversibile e sarebbe giusto riconoscere che il punto di non ritorno lo stabilì il diritto del lavoro del Novecento.
 
Nessuna nostalgia, dunque, della dimensione ‘epica’ del diritto del lavoro?
 
Mi sono stufato di montare la guardia a un diritto del lavoro che sta sparendo, ma non ho motivo di rimangiarmi la biografia intellet- tuale. Casomai, mi congratulo con me stesso per essermi proposto di fare ciò che potevo per togliere il diritto del lavoro dalla condizione in cui l’avevo trovato: la condizione propria del figlio di un dio minore.
Adesso però mi rendo conto che seguitare a raffigurare il diritto del lavoro come il prodotto e insieme il veicolo delle grandi svolte della storia fino a farne una chiave di lettura privilegiata è un lusso che non posso più permettermi. Giudico prioritario domandarsi, con Hannah Arendt, « cosa succede a una società fondata sul lavoro se il lavoro viene a mancare » o è sempre meno regolare e dignitoso.
Diversamente, le mie parole non parlerebbero a una quantità crescente di uomini e donne di cui la letteratura della contemporaneità racconta la storia: una storia di vite spezzate che si assomigliano come gocce d’acqua, di « ricatti subiti, contratti non rinnovati ‘per esigenze di mercato’, mancanza di tutele », di « trentenni che vivono come studenti e di coppie che rimandano giorno dopo giorno il momento in cui fare figli ».
D’altra parte, non solo il capitalismo, ma anche il lavoro non è più quello d’una volta. Oggi, infatti, non ce n’è più una nozione condivisa e al lavoro si adatta quel che Sant’Agostino diceva del tempo: se non mi chiedi cos’è, lo so; ma, se devo spiegartelo, ho dei problemi. Nemmeno di questa certezza perduta, però, è il caso di nutrire nostalgia. A ben vedere, l’idea di lavoro con la elle maiuscola e la virtù salvifica che gratificava il lavoro egemone della società industriale era mutuata dall’ideologia borghese della laboriosità non meno che dall’ideologia operaia del riscatto e dunque non era figlia di molte madri, e non tutte oneste. Né l’apologia che ne hanno fatto le religioni, quella cattolica non meno di quella protestante, ne ha impedito lo sfruttamento più brutale.
 Anche per questo, non è da eretici credere che la gente abbia col lavoro un rapporto che ricorda quello del bimbo con la scuola dove non va se proprio non deve; né dire « chi chiede un lavoro chiede un salario » è da visionari profanatori di tabù. Insomma, non sta mica scritto che la secolarizzazione del lavoro ne sminuisca per forza il diritto. Se ne aspetti, piuttosto, la trasformazione in un ordine normativo attento più al lavoratore in quanto cittadino che del cittadino in quanto lavoratore. Le parole sono le stesse, ma gli accenti sono diversamente distribuiti in modo da far capire che nella biunivoca correlazione tra lavoro e cittadinanza è successo qualcosa d’ineludibile: la metamorfosi del la- voro, che ne ha cambiato la percezione sociale, non è ininfluente sullo status di cittadino e su come fruirne. Insomma, la direzione di senso in cui sta camminando la società moderna è segnata da un movimento inverso a quello che ne segnò l’inizio, come se l’itinerario percorso avesse un andamento più circolare che rettilineo. Se la modernità è cominciata col passaggio dallo status al contratto cui un pensatore del calibro di Henry Maine non esitò ad attribuire una valenza progressista, il cerchio si sta chiudendo col ritorno allo status. Che non è più quello delle società castali; è lo status di cittadinanza presidiato dalla demo- crazie costituzionali.

 In effetti, l’inclusione sociale è un obiettivo troppo importante per la convivenza civile per seguitare a subordinarne il raggiungimento ad una categoria del pensiero come il lavoro, adesso che si declina al plurale, si cerca e non si trova o lo si perde facilmente. L’obiettivo è raggiungibile se la cittadinanza viene sganciata dalle variabili modalità del rapporto di lavoro in essere e dunque viene considerata non già come un posterius, bensì un prius. Non si creda però che la giuridificazione dei lineamenti della società industriosa sia predeterminata dalle Costituzioni. Essa si modellerà su quel che sta raggomitolato nel sottosuolo e gli scavi porteranno alla luce durante questo un passaggio d’epoca di cui non si vede né la fine né lo sbocco. Tanto, l’inevitabile non succede mai, ha detto qualcuno; l’imprevisto sempre.

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1. Momenti di storia della cultura giuridica del lavoro in « Lavoro e diritto », 2016, 1, pp. 3-15; lo scritto riprende e sviluppa l’intervento nel Convegno « L’idea del diritto del lavoro, oggi » (Venezia, settembre 2015) dedicato alla memoria di Giorgio Ghezzi. Gli Atti sono pubblicati dalla casa editrice Cedam (Padova, 2016).

2 Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto, Roma, Donzelli, 2009, pp. XIII-XV. Si cfr. F. MANCINI, Il liberale Tito Carnacini, in « Rivista trim. di dir.     e proc. civ. », 1984, p. 625 e ss.; ID., Intervista (1993) poi in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, a cura di P. Ichino, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 478-479.​ 3. Giuristi del lavoro, cit., p.1 ​

3. ​Giuristi del lavoro, cit., p. IX.

4. Il contratto collettivo di impresa, Milano, Giuffrè, 1963, pp. 30, 62, 113 ​

5. GIUGNI,  Intervista (1992), in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, cit., 

6. Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, Bologna, il Mulino, 1995, p. 10-11, 60, 83 

7. GIUGNI  Intervista, cit., p. 447), fa riferimento alla « regola non scritta per cui in ogni concorso ci doveva essere una vittima sacrificale », un meccanismo che colpì prima lo stesso Giugni, poi Ghezzi. « In omaggio a questa stessa regola » nei concorsi successivi furono sacrificati — aggiunge — Persiani, Romagnoli e Ghera. Sulla vicenda concorsuale del 1970 in cui Romagnoli vinse la cattedra con Tiziano Treu e Luigi Montuschi, si cfr. anche Giuseppe PERA, Intervista (2006), in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, cit., pp. 563-564). 

8. Giuristi del lavoro,  cit.,  p. 109.

9. Un accenno alle tensioni e alle convergenze presenti nella scuola riguardo al ‘Commentario’ è in Federico MANCINI,
Intervista (1993), ora in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, cit., p. 500.

10.  R. DEL PUNTA,  Il diritto del lavoro fra due secoli: dal protocollo Giugni al decreto Biagi, in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, cit., p. 290-291. 

 11. « Quaderni fiorentini », 39 (2010), p. 515 e ss

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