Qui si fa l’Europa …

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Che noi siamo europei è un dato incontrovertibile, ma conferire a questo dato culturale una valenza “di per sé” politico-istituzionale è un errore clamoroso.

“Qui si fa l’Europa o si muore”, è il grido che oggi si sente echeggiare sui media. Parafrasi della famosa apostrofe garibaldina a Nino Bixio (attribuita da Abba al generale, durante la battaglia di Calatafimi, combattuta contro le “preponderanti truppe borboniche”, comandate da un generale in carrozza, probabilmente già al soldo degli inglesi e predisposto alla fuga).

Circostanze e contenuto si attagliano perfettamente alla situazione attuale. Come allora la frase “si fa l’Italia” era un mero conato verso un obiettivo indefinito (quale Italia? Di lì a poco Bronte e poi la cosiddetta “lotta al brigantaggio” con l’incendio di interi paesi, stupri e cataste di morti si sarebbero incaricati di dimostrare che tipo di Italia si apprestava a realizzarsi per il Mezzogiorno), oggi la locuzione “si fa l’Europa” ha lo stesso indice di perspicuità politica.

Si parla per frasi fatte e prive di senso: “il Regno Unito è uscito dall'Europa”, “l’Europa è il nostro unico futuro”, ecc. Che noi siamo europei è un dato incontrovertibile e immodificabile, così come nel 1860 eravamo comunque tutti italiani, anche se divisi in formazioni statuali differenti. Tuttavia, conferire a questo dato culturale una valenza “di per sé” politico-istituzionale è un errore clamoroso.

Così come, nel XIX secolo, per la futura Italia politica ci furono diverse opzioni sul tappeto (quella federalista di Cattaneo, quella giobertiana, quella mazziniana, compresa quella cavourriana, che prevedeva, almeno all'inizio, solo un regno del nord), anche per l’Europa politica dovremmo discutere meno genericamente delle sue forme istituzionali, presenti e future.

Oggi la UE ha una congerie di centri di potere e almeno tre capitali. Gli organismi principali sono il Parlamento, la Commissione, l’Eurogruppo e il Consiglio dell’UE. Di questi quattro, gli unici a esercitare un potere effettivo sono gli ultimi due e in particolare l’ultimo, che non è nient’altro che la sede in cui si riuniscono i capi di governo dei diversi paesi membri, la cui sovranità, con buona pace degli anti sovranisti, è restata intatta e detta ancora le regole del gioco in base all'effettivo peso economico e politico della singola nazione. Questa incoerenza istituzionale non può che generare un surplus di potere amministrativo, che finisce per surrogare un potere politico disfunzionale se non inesistente.

E’ questa “l’Europa” che intendiamo lanciando il grido di dolore dal sapore garibaldino? Quale delega democratica hanno ricevuto gli amministratori brussellesi che determinano la vita e la morte dei singoli paesi della UE? Che forma istituzionale ha oggi la UE? Rappresenta una tappa verso la formazione degli Stati Uniti d’Europa, verso una futura Confederazione Europea, oppure è destinata a rimanere una forma più ampia e sofisticata (e complicata) di EFTA – European Free Trade Association? Quanti conoscono la differenza tra “stato federale”, “stato confederale” e “zona di libero scambio”? Perché obbligarci a votare e a combattere per un mito?

I miti servono, non c’è dubbio, poiché esprimono in una immagine “poetica” la sintesi immediata di una realtà complessa. Tuttavia, accanto a essa, è altrettanto necessaria un’analisi “prosaica” della realtà.
Sul mito dell’Europa ho già qui stesso espresso alcune riflessioni (L’Europa tra Mythos e Historìa, maggio 2019). Dal punto di vista politico, il federalismo europeo, se non si vuole risalire a Kant, è piuttosto recente, non risale oltre la metà del XIX secolo (Proudhon, Cattaneo) e, come concreta proposta istituzionale, è nato agli inizi del XX secolo, all’interno dalla cultura politica “più europeista” del nostro continente, quella austro-ungarica (Popovici, Coudenhove- Kalergi).
Sia Coudenhove- Kalergi che poi Schumann, Monnet e Spinelli hanno agito in epoche immediatamente post-belliche, dinnanzi alle rovine fumanti di un’Europa sconfitta, vittoriosa o vinta che fosse. Se dovessi ritrovare un parallelo nella storia, mi verrebbero in mente le leghe delle città greche (la lega achea, la lega etolica) dopo il ciclone macedone e confrontate ormai all'incipiente dominio di Roma: città-stato ricche per lasciti culturali e patrimonio intellettuale, ma ormai totalmente imbelli. Alla metà del XX secolo, non c’erano più la Macedonia e Roma, ma gli USA e l’URSS, il mondo di Yalta.

Gli inizi dell’Europa politica sono dunque dettati da uno stato di necessità, quella del confronto e dell’arginamento dell’Unione Sovietica sul teatro europeo, arginamento messo in atto militarmente con la NATO (che precede il Patto di Varsavia) e politicamente con il primo embrione della Comunità Europea, il Mercato Comune.Si è trattato fin dall'inizio di una questione franco-tedesca: la Francia, che solo l’intelligenza politica del generale De Gaulle aveva fatto sedere al tavolo dei vincitori, aveva bisogno della Ruhr e del carbone tedesco, la piccola Germania di Adenauer di un ombrello politico, sotto il quale ricostruire la propria economia. La scelta da parte degli Alleati di rifiutare la proposta di Stalin per una Germania reintegrata nei suoi confini pre-bellici, ma neutralizzata, va in questo senso: la mutilata e impoverita RFT non poteva reggere il confronto con la Francia. Dunque il nucleo generatore dell’Europa è, potremmo dire, un nucleo “piccolo-carolingio”, per parafrasare un termine noto nella storia dell’unificazione tedesca.

Sotto l’ombrello della NATO e della divisione in blocchi del mondo, il MEC è cresciuto “pacificamente” – non disturbato da spese militari eccessive, quasi tutte accollate alla superpotenza americana – e nella prosperità. Gli ampi finanziamenti a fondo perduto goduti dalla Germania dagli inizi degli anni ’50 (di cui, evidentemente, l’attuale dirigenza politica tedesca ha scarsa memoria) e dall'Italia consentirono una poderosa e straordinaria ripresa continentale (in Europa si parla dei “Trenta gloriosi”). Con il tempo, i legami intereuropei si sono fatti sempre più stretti e ampi, in una parabola che va dal Trattato di Roma del 1957 con i suoi sei Stati fondatori al Trattato di Lisbona, che cinquant'anni dopo coinvolge ben 27 Stati del Continente.

Due gli eventi critici che hanno interrotto l’idillio: lo shock petrolifero della metà degli anni ’70 e, soprattutto, la caduta del Muro di Berlino nel 1989, con la successiva liquefazione del blocco sovietico. In seguito a quest’ultimo evento epocale e, soprattutto, a causa della frettolosissima e costosissima – si ricorda, la Germania, di chi ha pagato il conto? - “riunificazione” tedesca (più che di Wiedervereinigung si dovrebbe parlare quantomeno di Annektierung, essendo Anschluss ancora oggi impronunciabile), gli equilibri “reali” nel Continente sono stati profondamente modificati, senza tuttavia che le istituzioni europee ne prendessero atto.

Di fronte a una Francia sempre più debole e incapace di fare da contrappeso allo strapotere economico della Grande Germania, di fronte al clamoroso allontanamento del Regno Unito dalla UE, tutto è sembrato immoto, aggrappato ai Regolamenti Europei, la zattera burocratica di chi non può e non vuole decidere politicamente. L’egemonia tedesca (o, per meglio dire, la “prepotenza” tedesca, come l’ha acutamente definita Paolo Soldini su “Critica Marxista”) ha assunto le fattezze di un capo contabile, alle prese con il pareggio di bilancio, quando è ben noto che mal gliene incoglie all'impresa che si affida ai ragionieri! Di qui la tragedia della Grecia (a cui è stato imposto un governo non eletto dai cittadini … e poi si parla di Orban!) e un senso di insopportabile angustia.

Messa sotto tutela anche l’Italia nel 2011 con il governo ipercostituzionale di Monti-Napolitano, le cose sono andate di male in peggio: tagli indiscriminati alla sanità (oltre 30 miliardi), alla scuola (oltre 10 miliardi), attacco al Welfare e alla contrattazione (le famose “riforme di struttura”). Il risultato di questo massacro? Una crescita pressoché nulla nel decennio, un incremento dei disequilibri nella distribuzione del reddito, e … un aumento del debito! Un debito quello italiano che, cifre alla mano, non è affatto più grande di quello tedesco o francese (nel 2017 quello esplicito della Germania è di 2092 miliardi, 2.358,897 quello della Francia, 2.358,537 quello dell’Italia. Senza contare che il nostro debito implicito - quello cioè che è dato dagli impegni futuri dello Stato in materia di previdenza, sanità e assistenza - è molto più basso di quello tedesco (aggregato tra debito esplicito e implicito italiano 57%, tedesco 149%). La questione delle questioni sta nel PIL italiano, in continua decrescita, stante l’assenza di ogni politica di investimenti pubblici e di una visione economica strategica di ampio respiro.

L’Europa? Sempre più lontana, apatica, terreno di conquista dei paesi del nord (della Germania in primis, ma anche di quella Società per Azioni mascherata da stato che è l’Olanda, vero paradiso fiscale intra moenia, in barba al suo virtuismo calvinista).

La tragedia del Coronavirus sta fungendo da catalizzatore di processi che avrebbero dovuto iniziare molti anni fa (ricordate l’infausta parentesi della Costituzione europea, bocciata nel 2007 a causa dei no della Francia e della solita Olanda? Ricordate gli Eurobond proposti da Tremonti oltre dieci anni fa, che fecero tanto infuriare la Germania e che costarono la testa al ministro del Tesoro, cioè lo stesso Tremonti?). Innanzi tutto bisogna decidere quale Europa futura vogliamo (la sua forma istituzionale) e “se” la vogliamo; la BCE, con Draghi, si è dimostrata l’unico organismo europeo davvero tale, ma non basta più. I tempi sono molto stretti per rimettere a galla una rinnovata barca europea. Altrimenti è meglio iniziare a pensare a come uscire da quella che, lungi dall'essersi dimostrata una casa comune, si sta rivelando una gabbia, molto angusta per alcuni

Claudio Salone

Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/

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