Piccoli e grandi paesi di fornte alla crisi

Ozlem Onaran e Thomas Obst, due ricercatori del Greenwich Political Economy Research Centre e della FEPS (Fondation for European Progressive Studies), hanno compiuto uno studio econometrico, intitolato: Wage-led growth in the EU 15 Member States, su un periodo di oltre cinquanta anni (1960-2013). Nel sommario essi sintetizzano in questo modo i risultati: ”Questo lavoro stima un modello a più paesi di crescita indotta dalla domanda per 15 paesi della UE.

Una diminuzione nella quota dei salari sul reddito nazionale in un singolo paese porta ad una minore crescita in Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito, mentre stimola la crescita in Austria, Belgio, Danimarca e Irlanda”.

I quattro paesi dove la diminuzione della quota salariale ha avuto effetti positivi sulla crescita sono di piccola dimensione, con una grande apertura agli scambi commerciali con paesi di maggiore dimensione, come Germania e Francia. Mentre nei paesi più grandi la domanda interna (consumi e investimenti) ha un peso prevalente, in quelli più piccoli il ruolo della domanda estera è più importante. Pertanto una diminuzione della quota salariale, che di per sé diminuisce i consumi, può essere compensata, o più che compensata, da un aumento della domanda estera; le esportazioni possono anche attivare gli investimenti interni.

E’ interessante confrontare i quattro piccoli paesi con i quattro maggiori paesi della zona euro, con riferimento agli otto anni successivi alla crisi finanziaria. Nella Tabella I si può in effetti notare come la quota delle esportazioni è più alta in tutti i paesi di piccola dimensione rispetto a quelli più grandi. I tassi di crescita medi annui sono positivi ma molto ridotti per sei paesi, quello della Spagna è nullo e quello dell’Italia nettamente negativo. In tutti i paesi vi è stata una caduta generalizzata nel 2009, seguita da una ripresa negli anni successivi, salvo che per i due paesi mediterranei, dove le politiche di austerità hanno determinato, tra il 2011 e il 2013, ulteriori contrazioni del reddito. Se mettiamo dal un lato Italia e Spagna, e dall’altro l’Irlanda, i tassi di crescita medi non si differenziano molto tra di loro, con la Germania (+0,51) più in alto e la Danimarca (+0,27) più in basso.    

                                                                           Tabella I

Il fenomeno descritto da Onaran e Obst è chiaramente visibile nel caso dell’Irlanda, e, in modo più attenuato nel caso della Spagna. La caduta della quota salariale irlandese è impressionante, così come lo è la quota dell’export, salita in sette anni di 28,8 punti percentuali. Nel caso spagnolo (quota export + 7,9%) si nota che la compressione salariale è stata bilanciata da un deficit medio molto elevato; quello irlandese lo è ancora di più, ma è andato in prevalenza a sostegno delle banche, piuttosto che a sostegno delle famiglie.

Da notare che tutti i paesi, eccetto l’Austria, dove è rimasta praticamente costante, hanno aumentato la quota dell’export, come si nota nella  Tabella II:



In questo caso non vi è una relazione tra diminuzione delle quote salariali e l’aumento dell’export; come si vede Germania e Francia, Belgio ed Italia hanno avuto incrementi simili anche se nei primi due paesi la quota è salita mentre negli altri due paesi è leggermente scesa. 
Per questi quattro paesi il fenomeno comune è stata la compressione della domanda interna, in seguito alle politiche di austerità, che hanno spinto le imprese a cercare di aumentare le venite all’estero, con conseguente aumento della quota dell’export.
Se i trenta gloriosi sono stati gli anni della crescita tirata dai salari, successivamente il modello della crescita tirata dalle esportazioni si è imposto, ma il risultato si dimostra negativo per la maggioranza dei paesi Europei.  

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it