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La Corte costitionale condanna la pratica dei contratti collettivi “separati”, instaurata dopo la rottura dell’unità di azione.sindacale, e utilizzata dalla Fiat per escludere la Fiom.
Se ne erano accorti in pochi, ma nel 2010, a Pomigliano d’Arco, si è realmente consumato il prologo di un cambio di sistema. In effetti, c’è qualcosa di schmittiano nel modo di pensare e nel comportamento dei firmatari – nessuno escluso – del contratto per lo stabilimento campano della Fiat che sarebbe stato esteso al settore auto. Partiti dalla premessa che la globalizzazione dell’economia determina uno stato di eccezione simile ad uno stato di guerra, sono arrivati in un amen alla conclusione che per esserne all’altezza bisogna ubbidire ad una superiore legge non-scritta che intima di rompere l’ordine normativo pre-esistente e rifondarlo. Nel 2013, invece, si sono sentiti ordinare di rimettere le cose al loro posto: secondo la Corte costituzionale, la Fiom non poteva essere espulsa dalla Fiat per non avere sottoscritto il contratto istitutivo di un nuovo sistema.
Più che sorpresi, i contraenti di Pomigliano d’Arco sono rimasti basiti: “ma come, noi non abbiamo fatto altro che applicare l’art. 19!”, devono aver pensato sulla falsariga delle argomentazioni difensive sviluppate dalla Fiat davanti alla Corte. Adesso, però, letta la motivazione della sentenza del 23 luglio, sanno come la Corte li ha trattati: li ha presi per gente che vive sulle rive del Lete, come gli antichi chiamavano il fiume dell’oblio. Infatti, con la pazienza e la pacatezza di un vecchio docente di diritto del lavoro riassume per sommi capi la storia dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori, sintetizza come si arrivò al referendum del 1995 e insiste nel sottolineare che la pratica razionalità della norma riscritta dai referendari l’ha mai convinta del tutto.
Del resto, le perplessità affioravano sia nella pronuncia che dichiarò ammissibile il referendum sia, e ancora di più, in una pronuncia immediatamente successiva, con la quale comunicava ai referendari che non era proprio il caso di festeggiare troppo la vittoria. In effetti, colse l’occasione per chiarire come e perché la tecnicalità della firma in calce al contratto aziendale avesse il difetto di piegarsi facilmente a strumentalizzazioni che lambiscono l’illegalità. Più che un criterio selettivo intelligente, a suo parere si trattava di un cieco automatismo capace di estendere la legittimazione a costituire rappresentanze aziendali anche a sindacati inautentici, domestici o addomesticabili – “gialli, si diceva una volta; “di comodo”, li chiama l’art. 17 st. lav.
Come dire: ai firmatari – nessuno escluso – del contratto istitutivo del sistema-Fiat la Corte ricorda di non avere mai nascosto, in primo luogo a se stessa, che la modifica del testo originario dell’art. 19 si presta ad assecondare un revival delle “logiche puramente aziendalistiche” che, si dà il caso, con la sua giurisprudenza ha sistematicamente combattuto. Proprio lei, inoltre, con la sentenza 30/1990 non aveva esitato a classificare odiosamente fraudolento l’uso spregiudicato della libertà di scegliere l’interlocutore contrattuale da parte dell’imprenditore intenzionato ad inquinare “la libera dialettica sindacale in azienda per favorire quelle organizzazioni che perseguono una politica rivendicativa a lui meno sgradita”.
Pertanto, in piena sintonia con una consolidata linea di politica del diritto, la menzionata sentenza 246/1996 restringe il ventaglio delle possibilità di smottamenti di quella che considera una sana e corretta cultura sindacale. La tecnica impiegata dalla Corte è quella dell’implementazione interpretativa della norma statutaria “di risulta”: si direbbe un restauro conservativo ad uso e consumo dei giudici di merito. E’ a loro che, per scongiurare il rischio di un’espansione incontrollata del sindacalismo aziendale, la Corte affida il compito di verificare col massimo rigore che a) il sindacato firmatario sia riuscito ad “imporsi con la sua forza come controparte contrattuale”; b) il contratto non abbia un “contenuto qualsiasi” e contenga, invece, la regolazione compiuta e organica perlomeno di “un istituto importante”; c) la partecipazione del sindacato alle trattative sia stata “attiva”.
Se, all’epoca della decisione, la Corte poteva a ragione ritenere che bastassero le istruzioni da lei somministrate con una pedanteria che a me sembrò il tentativo di mettersi in pace una coscienza che si sarebbe voluta più pulita, adesso si è vista costretta ad un ripensamento.Nello schema di ragionamento seguito dalla Corte assume un rilievo determinante il dato di contesto consistente nella frequenza con cui si stipulano contratti collettivi “separati” in seguito alla rottura dell’unità di azione sindacale che, salvo strappi, ha connotato il dopo-costituzione. E’ in conseguenza della lacerazione del tessuto unitario che il rischio da neutralizzare non è più soltanto lo “sbilanciamento in eccesso” consistente nel rigonfiamento artificioso dei soggetti ammessi nell’area del privilegio legale, ma anche uno “sbilanciamento in difetto” consistente nell’estromissione di chi vi era dentro legittimamente.
Come dire: l’ingigantirsi del pericolo che l’interpretazione letterale della norma diventi un pretesto per cambiare radicalmente e in maniera permanente la cifra identitaria dei rapporti inter- ed endo-sindacali induce la Corte a ritenere che l’implementazione dell’art. 19 sub specie di una calda raccomandazione ai giudici di merito possa non bastare più e si renda perciò necessario un suo intervento che “riallinei il contenuto precettivo dell’art. 19 alla ratio che lo sottende”. Per questo, il 23 luglio la Corte ha optato per una pronuncia additiva vincolante erga omnes, impedendo così il compiersi di una imprevedibile (fino alla fine del secolo scorso) “eterogenesi dei fini” dell’art. 19. Il quale, riformulato per allargare la cerchia dei sindacati con diritto di cittadinanza in azienda, nella Fiat dei giorni nostri si era trasformato nel suo contrario: ossia, in “un meccanismo di esclusione” della Fiom, di cui nessuno contesta la capacità di rappresentare gli interessi della collettività di riferimento.
Come dire: espressione dell’arrogante pretesa di gratificare i buoni e castigare i cattivi, tutta la vicenda appare alla Corte sbilenca e smodata. Nient’altro che una provocazione. Spavaldamente ostentata, per giunta; come se potesse legittimamente inorgoglire un sistema di relazioni sindacali che si regge su di un accordo che dispone di diritti di tutti i lavoratori, anche di quelli che non sono rappresentati dai firmatari: un “accordo ad excludendum”.
Perciò, lodata sia la Corte costituzionale. Stavolta, il suo intervento è servito per scongiurare la frana del sistema sindacale di fatto operante nel dopo-costituzione. Un sistema ad altissimo tasso di de-costituzionalizzazione. Costantemente borderline e dunque ad un passo dall’attraversare i confini della legalità costituzionale. Tenuto insieme da poco più che spago e chiodi.
Certo, la pronuncia è una scheggia della regolazione legale che non c’è. Per questo, la causa è finita, ma la vescica non può dirsi sgonfiata. In effetti, proprio perché non è dato sapere se o quando il vuoto regolativo sarà colmato, la Corte si è spinta ad afferma in motivazione che la qualità di soggetto “significativamente rappresentativo a livello aziendale” non conferisce le sole prerogative specificamente previste dal tit. III della normativa statutaria. Conferisce anche quella di accedere alle future trattative, ossia il diritto a negoziare; per cui l’inadempimento dell’obbligo corrispondente si colora di anti-sindacalità e, come tale, è sanzionabile ex art. 28 st. lav.
Può darsi che così la Corte sia andata oltre il petitum; ma ha giustamente ritenuto di non varcare i “limiti di rilevanza della questione sollevata dai giudici a quibus” e, una volta che c’era la rilevanza, ha avuto il coraggio di non fermarsi alla domanda. E si aspetta che i giudici di merito la seguiranno.