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I problemi economici sono iniziati in Italia all'alba del secondo decennio di questo secolo. Ma tutta l'Eurozona è in difficoltà. La Germania, che è la più grande economia dell'Eurozona, oscilla tra stagnazione e recessione negli ultimi due anni.
La crisi del coronavirus colpisce l’Italia in una fase di difficoltà con alle spalle due anni di sostanziale stagnazione economica. Le sue conseguenze economiche aggraveranno la situazione, accrescendo il disavanzo e il debito pubblico destinato ad avvicinarsi pericolosamente al 150 per cento del reddito nazionale.
Non si tratta solo di un pese per molte ragioni fragile. La Germania che è la maggiore economia dell’eurozona oscilla tra ristagno e recessione. Per Die Welt, tra i più influenti quotidiani tedeschi, la crisi in Italia ha una causa specifica nella presenza della mafia. La tesi sarebbe ridicola se non comparisse su uno dei più importanti quotidiani tedeschi. La mafia è sempre esistita ed è un problema del paese. Ma, durante il primo decennio del secolo, l’Italia, pur crescendo lentamente come tutta l’eurozona, ridusse il tasso di disoccupazione fino a 6 per cento, significativamente più basso di quello della Francia e della Germania. E possiamo rassicurare Die Welt che la mafia esisteva anche allora.
I problemi cominciarono all'alba del secondo decennio. La crisi nata in America colpi l’eurozona e nel 2008-2009. L’Italia segnò una riduzione del PIL intorno al 5 per cento, solo di qualche decimo maggiore di quella che toccò la Germania. Tuttavia questa fase non durò molto. Già nel 2010, l’eurozona mostrò segni di ripresa e l’Italia concluse il primo decennio con una crescita significativa.
Quando la crisi riemerse nell'estate del 2011, i mercati finanziari attaccarono la Spagna e l’Italia. I mercati attaccano quando trovano un terreno fertile. E, in effetti, l’Italia si offriva disarmata ala speculazione. A fine maggio nella sua ultima relazione alla Banca d‘Italia Mario Draghi si era mostrato moderatamente ottimista. Non poteva prevedere che Jean- Claude Trichet, alla testa della Banca centrale europea, dopo aver stoltamente alzato per due volte i tassi d’interesse, avrebbe deciso una politica di violenta deflazione, imponendo il rientro del disavanzo di bilancio , mentre si annunciava una seconda fase della crisi. I mercati colsero la palla al balzo facendo schizzare i tassi d’interesse a vertici mai toccati al tempo dell’euro. L'Italia, la Spagna e la Grecia furono offerte disarmate alla speculazione.
Conosciamo il seguito di questa poltica autolesionista, fondata su un’ideologia neoliberista in auge al tempo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Mentre l’America si avviava verso il decennio di maggiore crescita della sua storia, l'azione congiunta dea Commissione europea e della BCE avviavano il più lungo periodo di sostanziale stagnazione economica della storia europea del secondo dopoguerra.
Non c'è bisogno di profondi studi di teoria economica per capire che con un sostanziale rallentamento della crescita il pagamento degli interessi sul debito pregresso accresce inesorabilmente il debito. In italia il debito pubblico si era ridotto al livello più basso degli ultimi decenni del secolo scorso fino ad oscillare intorno al 100 per cento del reddito nazionale. Poi con lo scoppio della crisi era cresciuto come dappertutto nel mondo. Una normale tasso di crescita l’avrebbe possibilmente ricondotto al livello pre-crisi.
Ma la crescita divenne un obiettivo impraticabile. Con la politica imposta nel 2011 da Trichet e dalla Commissione europea,l’eurozona entrò in una nuova fase di crisi peggiore di quella sperimentata fra il 2008 e il 2009. Le correzioni di Draghi, nominato alla testa della BCE, mirate a porre sotto controllo i tassi d’interesse e, sia pure in ritardo,ad accrescere la liquidità con l’adozione del Quantitative easing diretto al sostegno del sistema bancario, bloccarono il crollo dell’euro.
Ma la Commissione europea, col sostegno della Germania, impose un’austerità priva di senso mentre imperversava la disoccupazione e la crescita si manteneva al livello più basso del a storia dell’Unione europea. Con la compressione della crescita il debito pubblico era inevitabilmente aumentato dappertutto, non solo in Italia. Anzi, in Italia crebbe molto meno che in altri stati membri dell’eurozona con un aumento di 25 punti base rispetto all’inizio della crisi, mentre in Spagna cresceva del 60 per cento, portandosi da meno del 40 a circa il 100 per cento del valore del PIL.
Negli ultimi due anni la modesta ripresa della crescita, appena accennata dopo la prima metà del decennio, ha infine ceduto il posto alla stagnazione inframmezzata da ripetuti periodi di recessione non solo in Italia ma anche in Germania . Non ci sarebbe potuta essere una dimostrazione più clamorosa del fallimento dell’eurozona, considerando che la Germania, la seconda potenza economica occidentale e la quarta a livello globale, ha oscillato negli ultimi due anni, prima ancora che si manifestasse il coronavirus, tra ristagno economico e recessione.
Sono queste le premesse desolanti con le quali l’eurozona dovrà fare i conti nel mezzo e dopo gli effetti devastati della pandemia del coronavirus. La prima a essere stata attaccata è stata, come sappiamo, la Cina, ma ne ha avuto ragione in un breve giro di tempo, pur in un quadro di inevitabile e significativa riduzione della crescita. L’economia cinese si è fermata e la crescita rimarrà significativamente al di sotto del 6 per cento, la misura minima realizzata prima della comparsa del coronavirus. Più pesanti si annunciano le conseguenze economiche della crisi negli Stati Unti. L’incapacità di Trump di coglierne i primi segni ne ha aggravato pesantemente il corso. La sua prima reazione è stata la messa in campo di un trilione di dollari per frenare la caduta dell’economia, mentre la disoccupazione cresce in una misura finora sconosciuta in America.
Ma sotto l’impulso del Partito democratico, l’intervento pubblico è clamorosamente raddoppiato raggiungendo oltre due trilioni di dollari non solo per fronteggiare le conseguenze immediate dell’epidemia, ma anche per rendere possibile la ripresa con risorse che superano il dieci per cento del reddito nazionale. Il Giappone è andato anche oltre con un investimento straordinario corrispondente a un trilione di dollari in un paese con una popolazione pari a poco più di un terzo di quella statunitense.
Per quanto riguarda l’eurozona l’unica certezza è finora l’assenza di una poltica congiunta. Prevalgono al contrario le divisioni. Ma con un’aggravante. Nell’eurozona la spesa pubblica è vincolata a parametri arbitrari in condizioni normali. Di fronte a un evento che annuncia conseguenze economiche e sociali più gravi di quelle generate dalla crisi finanziaria globale del 2008, i bilanci pubblici nazionali sono assoggettati ai limiti che risultano irragionevoli in tempi normali, e del tutto impraticabili in un quadro eccezionale nel quale crollano i consumi di una massa crescente di disoccupati e di lavoratori precari. Mentre, al tempo stesso, crollano gli investimenti per la flessione della domanda indipendentemente dalle agevolazioni che si affanna a garantire lo stato.
Se c'è una novità è la trasparenza delle divisioni che si è sempre cercato di mascherare in un decennio fallimentare di politiche deflazioniste come epicentro dell’eurozona. In questo quadro l’intervento dei singoli stati in termini di spesa è sottoposto alla reazioni di mercati finanziari. L’intervento collettivo sarebbe sostanzialmente immune, ma dovrebbe essere della misura messa in atto negli Stati Uniti e in Giappone.
La pandemia ha investito anche il mondo in via di sviluppo che era rimasto immune dalla crisi del 2008-2009 –una crisi che i fu fondamentalmente occidentale, mentre il mondo in via di sviluppo, come nel caso della Cina e dell'India in Asia, del Brasile e dell’Argentina in Sud America, conservò un tasso di crescita straordinariamente elevato. Ora, invece, tutti i continenti sono investiti in diverse misure dalla pandemia: dall'Asia all'America Latina e all'Africa, dove la maggior parte dei paesi è già largamente vittima di una povertà estrema.
In questo quadro, il consumo cadrà ovunque a partire dai paesi ricchi a causa dell'enorme crescita della disoccupazione e della povertà. La crisi colpirà in particolare la grande massa di lavoratori precari che caratterizza i paesi più avanzati, provocando un calo simultaneo della domanda e dell'offerta di beni e servizi.
L'impatto sarà particolarmente duro nell'eurozona già colpita da una lunga fase di lenta crescita dovuta a un decennio di politiche deflazionistiche e all'elevata disoccupazione nei principali paesi, ad eccezione della Germania. In questo contesto, l’inevitabile aumento del disavanzo di bilancio e del debito pubblico si prestano facilmente all’attacco dei mercati finanziari. Solo un massiccio intervento pubblico promosso a livello europeo può evitare una crisi debitoria consentendo un balzo nella spesa pubblica destinata alla moltiplicazione degli investimenti e al sostegno dell’occupazione. In ogni caso, per essere efficace, l’intervento collettivo a livello europeo dovrebbe essere della dimensione messa in atto negli Stati Uniti e in Giappone.
Finora di questo no c’è sentore. Il rinvio alla prossima riunione dei governi diventa determinante. Se dovesse risolversi con misure puramente di facciata o con ulteriori rinvii, la crisi della pandemia diventerà la crisi dell’eurozona. L’Italia non potrà accettare di essere sottoposta alla stessa terapia in passato rovinosamente imposta alla Grecia. Si aprirebbe la crisi di fatto dell'attuale maggioranza di governo in un quadro che nei sondaggi vede l’opposizione di destra maggioritaria elettoralmente nel paese.
L’eurozona è a un bivio. Sotto l’urto della maggiore crisi che ricordiamo , può operare una svolta radicale, rovesciando la poltica che l’ha posta ai margini della nuova geografia del mondo sviluppato. Se, invece,insisterà in un percorso dimostratosi fallimentare nel corso del passato decennio, potrà difficilmente sfuggire a un definitivo destino di disgregazione.