L'impossibile germanizzazione dell'Europa

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Nell'ultimo decennio le economie dei Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) hanno avuto andamenti molto diversi: gli ultimi tre sono cresciuti a un ritmo doppio della media europea. Il modello tedesco non può essere quello dell'intera Unione europea.

Il tormentone greco ha trovato una pausa, almeno momentaneamente. L’accordo Merkel-Sarkozy ha stabilito che Papandreou si rivolgerà ai mercati finanziari e al FMI, e, se ciò non dovesse bastare (nel giro di un mese la Grecia deve finanziarsi per una ventina di miliardi), interverranno i paesi europei, sulla base della loro partecipazione (1) al capitale della BCE. 

Ha vinto quindi la Merkel, non solo per aver ottenuto l’intervento del FMI, ma perché l’eventuale intervento europeo avverrebbe dopo le elezioni nel popoloso Lander Nord Reno–Westfalia, che la cancelliera affronta in un momento di caduta di consensi, in cui i suoi alleati liberali cavalcano la linea dura contro gli infidi greci (oltre alla richiesta di riduzione delle imposte).      

    Crescita % Pil  annua 1999-2008

Area euro   2,0
Portogallo  1,3
Irlanda         5,3
Italia             1,1
Grecia          4,0
Spagna        4,2
 

Per effettuare qualche riflessione che allarghi lo sguardo rispetto al cacofonico concerto offerto da autorità nazionali ed istituzioni pubbliche europee, può essere utile partire dall’andamento dell’economia dei Piigs negli anni duemila; come si vede vi sono due gruppi nettamente distinti: Irlanda, Spagna e Grecia che crescono il doppio (o più) della media dei paesi dell’euro (tutti, comprese Francia e Germania), ed Italia e Portogallo che crescono quasi della metà. Tutti e cinque i Piigs hanno un peggioramento della bilancia commerciale in questo periodo; in modo marcato Grecia e Portogallo, in modo meno forte Irlanda e Spagna ed in modo lieve l’Italia. 

I fenomeni sono dovuti a cause diverse: nei tre paesi a forte crescita è proprio l’andamento dell’economia, più della perdita di competitività, che genera il peggioramento della bilancia dei conti correnti; nel caso del Portogallo invece è l’andamento del costo del lavoro rapportato alla produttività (2). Ma se guardiamo i tre paesi a forte crescita, notiamo che nel caso della Grecia il deficit pubblico ha svolto un ruolo di rilievo, a differenza di Irlanda e Spagna, dove invece è stato l’indebitamento privato a crescere con molta forza. Lo scoppio della crisi ha messo in difficoltà tutti i Piigs, ma nel caso di Irlanda e Spagna i debitori in difficoltà sono le banche, mentre nel caso della Grecia lo è il debitore pubblico. 

In effetti non è affatto detto che i trucchi cosmetici dei bilanci pubblici greci siano maggiori di quelli di molte banche europee, comprese quelle britanniche, francesi e tedesche. Certo in Grecia si sono dedicati alla finanza creativa in misura maggiore di quanto non sia avvenuto, per dire, in Italia, dove pure Stato, Regioni, Provincie e Comuni si sono dati da fare con swaps e cartolarizzazioni, e dove proprio in questi giorni si svolge un processo a quattro banche internazionali per “circonvenzione di incapace” (essendo quest’ultimo il Comune di Milano).

E’ molto probabile che la crisi greca sarà superata, ma i greci, una volta indossato il saio dei penitenti, non potranno non chiedersi per quali ragioni rimanere nell’euro, se ciò comporta la necessità di mettersi al passo con l’anemico andamento della Germania. E domande analoghe possono essere fatte in altri paesi mediterranei, alle prese con seri problemi, vuoi produttivi (Portogallo), vuoi di rientro da una bolla immobiliare (Spagna). Come è stato più volte sottolineato, se la maggior parte del commercio europeo si svolge all’interno dell’Europa, non è possibile che tutti i paesi siano in attivo e basino la loro crescita sull’export-led. 

In Germania la dottrina della “economia sociale di mercato” viene considerata, a ragione, un successo. Si tratta di una visione che però ha sempre rigettato l’impostazione keynesiana; l’esportazione in tutta l’Europa delle virtù di bilancio pubblico germaniche genera solo una deflazione prolungata. In questo i francesi hanno ragione, e potrebbero anche aggiungere che dopo tutto il loro debito pubblico non è poi così più alto di quello tedesco.                

Note
(1) L’ineffabile Berlusconi ha dichiarato che l’Italia non dovrà fare prestiti, al più offrire garanzie. In altre parole i prestiti le fanno le banche con lauti guadagni, mentre il rischio lo prende il Tesoro.
(2) Nel caso dell’Italia i dati del clup segnalano un netto peggioramento in questo periodo, ma il dato aggregato nasconde andamenti molto diversi tra industria e servizi; tra le imprese che esportano vi sono stati forti aumenti di produttività, e questo spiega perché le esportazioni abbiano sostanzialmente retto. 

 

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it