L'impatto sociale delle politiche europee
Sottotitolo:
La crisi dei paradigmi sociali dlel'Unionbe europea e la necessità di u nuovo quadro istituzionale L’IMPATTO SOCIALE DELLE POLITICHE EUROPEE L’occasione di questa riflessione è stata una delle tante iniziative per la celebrazione del primo anno di entrata in vigore del Trattato di Lisbona e l’urgenza di fare un bilancio sull’impatto sociale delle politiche europee. Sul Trattato mi limito ad osservare che per nostra fortuna non è diventato una Costituzione come i più si aspettavano. Altrimenti, con la sacralità che avvolge le costituzioni nella tradizione giuridica latina, sarebbe oggi impossibile introdurre le non poche e centrali modifiche che si rendono necessarie. Un dato innegabile nonostante la ripetitività con la quale se ne nega l’esigenza con esercizi verbali che somigliano più a pratiche di esorcismo che a ragionamenti logici. Forse ha portato sfortuna il luogo fondativo del Trattato, già noto per l’ “Accordo di Lisbona” che nel 2000 lanciò lo sfortunato quanto famigerato obiettivo di fare dell’Europa “la regione più competitiva del mondo”. Ma sul bilancio di un anno dalla firma del Trattato e le modifiche che si rendono necessarie, torno alla fine di questo articolo. Sull’impatto sociale delle politiche europee raggruppo le mie osservazioni in quattro punti. (1) I sistemi europei di welfare, dei quali è bene ricordare sia le diversità esistenti sia i tratti comuni. In Europa, sin dal secondo dopoguerra, sono esistiti quattro tipi di welfare corrispondenti alle sue quattro meso-regioni: baltica, occidentale, centrale, mediterranea. Le diversità sono culturali e si riflettono sulle strutture e le forme giuridico-istituzionali: il rapporto tra diritti e mercato del lavoro, il carattere universale dei diritti, i livelli di istituzionalizzazione delle funzioni richieste, il rapporto con la società civile (famiglia, associazioni, chiese, ecc.), ed infine il settore pubblico concentrato sui servizi (paesi del nord) oppure sulla produzione (paesi del sud). Il tratto comune a questi sistemi è il dualismo tra Stato e mercato. Il primo governa i processi redistributivi con la leva fiscale e si fa carico delle esternalità prodotte dal sistema produttivo; il secondo dirige la produzione come fonte del valore prodotto e dell’occupazione. L’UE ha fatto proprio questo dualismo rafforzandolo, tentando di correggere le diversità sociali e territoriali con le politiche di integrazione. Alla fine del percorso fallisce su entrambi i fronti. Il dualismo si va trasformando da welfare in workfare ed infine in warfare. L’integrazione delle forme e regole dei sistemi di welfare (ad es. la flexicurity) porta al loro indebolimento o crisi, e l’integrazione ha come risultato la disintegrazione del processo di costruzione dell’UE che si esprime con la crisi degli stati nazionali. (2) Le politiche perseguite sono state ispirate su quattro assi fondamentali che è utile ricordare perché non privi di attualità: (a) educazione e istruzione. L’dea base era semplice. L’intensificarsi ed ampliamento dei sistemi educativi e di istruzione avrebbe portato con sé il ridursi delle differenze sociali, tra gruppi sociali e regioni. Questo approccio fu al centro delle strategie socialdemocratiche dei paesi scandinavi nel dopoguerra. Alla fine degli anni Sessanta numerose ricerche misero in evidenza che l’aumento della ricchezza non produce benessere e questo è dovuto anche al fatto che l’aumento dei livelli di istruzione e della ricerca si va ad inserire in un contesto sociale e produttivo che riproduce le ineguaglianze esistenti, non le modifica (B. Hansen, Velstand uden Velfaerd, Kòbenhanvn). Inoltre il rafforzarsi dei gruppi privilegiati produce la rivolta fiscale dei ceti medi per porre fine all’uso della leva fiscale a scopo redistributivo e sposta i ceti popolari verso posizioni populistiche di opposizione. La fine dei governi socialdemocratici ha le sue radici in questi processi. (b) Politiche settoriali. Le politiche perseguite sono state organizzate su alti livelli di istituzionalizzazione sostitutiva della partecipazione della società civile, con la segmentazione della popolazione e dei suoi bisogni (infanzia, giovani, donne, anziani, disoccupati, occupati, ecc.) secondo un modello funzionalista che ha scomposto le cellule fondamentali della vita delle comunità e società su schemi astratti, giuridico-formali. Queste non sono rivolte al rafforzamento delle strutture sociali di base della società ma a funzioni di controllo per obiettivi di integrazione nel quadro della “modernità capitalistica”. Questa forma di governo della società è stata fatta propria negli anni Settanta dai gruppi di potere della globalizzazione che ne hanno tratto le conseguenze introducendo la governance, cioè un sistema segmentato di potere che mediante organi di governo globale – le agenzie internazionali – consente il controllo sui settori strategici della vita e delle risorse delle comunità e degli Stati. Questi ultimi, privati del controllo su questi segmenti strategici non sono ovviamente più in grado di esercitare le loro funzioni di governo della società. Il sistema della governance è divenuto lo strumento principe anche per l’UE con il suo graduale appiattirsi alle politiche della globalizzazione. Gli strumenti messi in moto furono quelli del Fondo per l’Agricoltura, Fondo Sociale, Fondo Regionale, ecc. (d) L’economia sociale. Tutte le politiche qui ricordate perseguono la strategia dell’inseguimento. Sono cioè costruite sull’idea che sia possibile regolare ed orientare i processi economici e politici e controllare i gruppi di potere esistenti mediante regole che ne condizionino i comportamenti o ne rettifichino gli impatti negativi con interventi correttivi. Accettare cioè l’esternalizzazione dei costi sociali da parte di gruppi economici e politici, per poi correggerne gli effetti negativi con interventi a posteriori. I risultati di questo approccio sono ben noti a partire dalle legislazioni antitrust degli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso, per continuare con le forme di industrializzazione imposte dai gruppi monopolistici nazionali nel secondo dopoguerra, e fino alle recenti speculazioni finanziarie, tecnologiche, ecc. Le reazioni non sono mancate ed hanno acquistato forza negli ultimi decenni con le nuove forme di economia sociale ed associative che hanno riunificato a livello territoriale economia, politica e sociale. L’UE si è inserita in questi processi con forme di sostegno e di regolamentazione (Legge europea sull’Impresa sociale, programmi di sostegno ad imprese con funzionali sociali e di inserimento per gruppi deboli, ecc.).
Per uscire da questa situazione è necessaria una seria revisione del Trattato di Lisbona che vincola le economie europee. Tre revisioni si rendono necessarie: 1. La prima riguarda le norme che regolano gli obiettivi ed il funzionamento della Banca Centrale Europea e, quindi, delle Banche Centrali dei singoli stati (“Sezione 4bis” del Trattato). La Banca, si legge, ha un unico obiettivo: “il mantenimento della stabilità dei prezzi”. La realizzazione degli obiettivi dell’Unione è considerato un obiettivo derivato dal primo. Si tratta di un approccio dovuto ad un trauma psicologico tutto tedesco ma che non può essere tradotto in un articolo del Trattato europeo, che riguardi cioè economie e popoli con ben altri livelli di sofisticazione culturale e della teoria economia di quello tedesco. Il Bene Comune, le culture europee e il lavoro, in tutte le sue forme, devono essere messi al centro del Trattato di Lisbona. 2. La seconda fa riferimento alla stessa parte del Trattato che sancisce l’indipendenza della Banca Centrale Europea, e quindi delle varie Banche centrali, dai governi e dai poteri politici dell’UE. Questo principio, sancito anche in molte costituzioni europee compresa quella italiana, ha introdotto nel dopoguerra una rigida divisione ed autonomia dei poteri, anch’essa politicamente illogica e come sanatoria del trauma del fascismo e della guerra. Ma oggi parliamo di rigenerazione delle comunità e di Bene Comune come orizzonte delle società. L’idea dei poteri separati all’interno dello Stato, autonomi rispetto alle forme di espressione della sovranità popolare, appartiene ad una concezione inconciliabile con il principio democratico che si dichiara di voler proteggere. Una “autonomia dei poteri” che è molto apprezzata dai centri economici e finanziari che dietro l’autonomia del “mercato” e della “borsa” amministrano allegramente i propri interessi predatori. Per la Banca Centrale Europea, e le corrispondenti nazionali, deve essere introdotto il metodo di dover spiegare le proprie scelte di politica monetaria con udienze semestrali davanti al Parlamento secondo le forme previste negli Stati Uniti. Inoltre dovrebbe essere introdotto un criterio rigido di controllo sul “conflitto di interessi” che limiti la possibilità di passare da incarichi della Goldman Sachs e delle grandi transnazionali alla guida della Banca Centrale europee e dei suoi Stati. 3. La terza revisione riguarda l’Euro come moneta europea, anch’esso sancita nel Trattato. Si tratta di una decisione inconsistente con la realtà europea. Come osserva giustamente Martin Wolf, facendosi portavoce del comune buon senso: “Qualunque unione valutaria tra economie diverse è inevitabilmente un’avventura pericolosa. Ma se si fonda su idee errate sul modo in cui dovrebbe funzionare, può rivelarsi catastrofica” (Il Sole 24 Ore, 24 Novembre 2010). La diversità delle quattro meso-regioni europee richiede quindi sistemi valutari differenziati come dimostra il fatto che la più importante piazza finanziaria europea resti fuori dall’Euro (Londra), e che la Danimarca e Svezia facciano altrettanto (insieme alla Norvegia che è fuori dell’UE). Per quanto ci riguarda è necessario che si pervenga rapidamente ad una iniziativa valutaria dell’Europa mediterranea che introduca un Euro mediterraneo comprendente la Francia e tutti i paesi dell’Europa del Sud. Questo riporterebbe la sovranità economica e monetaria al servizio degli obiettivi decisi dai governi e dalle istituzioni di questa grande meso-regione europea. Infine è evidente da quanto sin qui detto che l’intera struttura istituzionale dell’UE si deve evolvere dalla attuale struttura federale di 27 stati ad una struttura confederale articolata su quattro federazioni di stati corrispondente alle quattro meso-regioni europee. |