Libri - La borhesia e il mito della mondializzazione

Sottotitolo: 
Un libro scritto per la Francia che parla anche dell’Italia: Christophe GUILLUY, « Le crépuscule de la France d’en haut », Flammarion, 2016, pp. 253.

Il libro di Guilluy ha innanzi tutto il pregio di essere stato scritto da un geografo, un tipo di intellettuale ormai raro in Italia.[1] L’ancoraggio geografico al territorio e alle popolazioni ha fornito all’ A. una prospettiva di analisi diversa rispetto alle interpretazioni più propriamente politico-economiche dei dati sulla nostra attuale realtà.

La nuova metropoli mondializzata: la patria della nuova borghesia

Le prime parole del primo capitolo sono: “Tornano le cittadelle medievali”. In queste nuove roccaforti vive una nuova borghesia, che si caratterizza per la sua inclinazione verso l’open society, la mescolanza sociale e l’eguaglianza dei diritti individuali. So potrebbe dire verso il politically correct.[2] Questa vernice progressista nasconde in verità un feroce meccanismo di esclusione, secondo uno schema tipico del vincente modello nord-americano: massima ampiezza dei diritti individuali, tradotta nella massima diseguaglianza in seno alla società.[3] Dunque un progressismo senza progresso, che custodisce con grande efficacia privilegi e ricchezze prodotte dal laissez-faire globalizzato. “La mondializzazione è il regno del Re Mercato e un’opportunità riservata alle classi superiori.” Se prima la borghesia accettava e combatteva apertamente la lotta di classe, adesso, sposando quella che l’A. definisce “la menzogna della società aperta”, essa tenta addirittura di negare l’esistenza di quella stessa lotta di classe. “Nella loro volontà di distinguersi dai borghesi tradizionali, le nuove classi superiori “aderiscono alla ‘cultura del narcisismo’, al culto dell’ego, rafforzato proprio dalla eclissi delle classi popolari e recuperano il termine ‘popolare’, giocando a ‘fare il popolo’.”[4]

In realtà, i processi economici hanno continuato a svilupparsi in maniera, per certi versi, ancora più dura rispetto al passato, provocando il sistematico allontanamento dalle metropoli globali – da lì e solo da lì nasce e transita la ricchezza mondializzata -  dei ceti operai e impiegatizi, anche attraverso uno spettacolare aumento dei prezzi delle case e un sistema sempre più esteso di “gentrificazione” delle aree urbane destinate all’edilizia popolare.[5]

Il trionfo della nuova borghesia mondializzata ha reso dunque “invisibile il dominio di classe”, sostituendo la lotta di classe con la confusione delle classi. Non è un caso, sottolinea l’A. che la sinistra “moderna” abbia, ad esempio, nella megalopoli parigina, con il suo alto reddito e il 43% di funzionari e impiegati di grado superiore, un suo terreno d’elezione. Rinserrate nelle neo-cittadella medievale e costrette a vivere gomito a gomito, destra e sinistra tradizionali finiscono per confondersi, anche perché sono entrambe d’accordo sulla irreversibilità del modello economico mondializzato.[6] “Riflesso di un modello unico, le metropoli si fanno banditrici della politica unica e del pensiero unico, in attesa del partito unico.” Sarà interessante a questo proposito seguire la marcia trionfale di Macron.

La fascistizzazione della periferia invisibile

Il modello in integrazione assimilazionista, laico ed egualitario, francese ha lasciato il posto alla frammentazione ineguale del trionfante comunitarismo anglo-americano, per cui, in nome del multiculturalismo, vivono sul medesimo territorio, ma restando diversi per lingua, costumi, religioni, storia e cultura, gruppi sociali in cerca di ancoraggi e identità.[7]

Scacciate dai luoghi dove si produce la maggior parte della ricchezza, della ricerca e della comunicazione, le classi popolari vengono sempre più perifericizzate, tra campagna e centri urbani medio-piccoli, e ridotte al silenzio, tacciate di essere “sovraniste” e “retrograde” da una martellante campagna mediatico-ideologica, che ha provveduto con successo a fascistizzare le richieste di ripristino di una sovranità nazionale. [8]

Quali però le ragioni per cui un processo di diseguaglianza tanto brutale si è realizzato un po’ dappertutto in Europa? La risposta sta nel controllo ferreo delle “rappresentazioni sociali e territoriali”: la rappresentazione sociale mira a conservare il mito di una classe media maggioritaria, ormai sostanzialmente scomparsa, al fine di nascondere l’emergere di nuove categorie popolari precarizzate; in parallelo, la rappresentazione dei territori e delle metropoli contribuisce a rendere invisibile la Francia periferica. Nel paese immaginario delle élites francesi, tutte le persone “modeste” semplicemente non esistono.

“La retorica dell’apertura consente di squalificare tutte le rappresentazioni che contestano l’ordine economico e sociale esistente.” L’opposizione popolare alla mondializzazione e al libero scambio è spesso ridotta dal mainstream a una manifestazione di razzismo.[9] Il nuovo partito operaio è, nei dati, il FN. Tra le cause di ciò vi è certamente lo slittamento dei partiti socialisti europei verso le dottrine liberiste già dai primi anni ’80, ma anche “la ribellocrazia di sinistra, quella di chi lotta contro il capitale, le banche, il mercato, le multinazionali, ma che difende anche la mondializzazione.” Descrivere l’insicurezza sociale e culturale dei ceti popolari significa oggi per costoro “fare il gioco di”. E’ il pasoliniano “fascismo degli antifascisti”. Fascistizzare tutti quelli che fanno emergere la nuova realtà popolare.

L’ideologia “bougista”: il mito della mobilità e dell’ascensore (discensore) sociale

La sfida, finora vinta, è stata quella di instaurare senza conflitti un modello egemonico di economia della diseguaglianza, che rende invisibili i perdenti della mondializzazione. Gradualmente espulsi dai processi produttivi rilevanti, gli operai sono stati collocati in periferia (discensore sociale), mentre la classe media si frantuma, verso l’alto e verso il basso: negli anni ’60 ci volevano 12 anni perché un membro della classe media potesse salire verso livelli sociali superiori. Oggi ne sono necessari 35.

La maschera progressista del conservatorismo mondializzato vede le metropoli come il territorio privilegiato “del tutto è possibile”, le “ideopoli”, della mobilità verticale, da contrapporre al resto del Paese, statico e senza idee.[10] Ma, come l’A. si incarica di sottolineare, tale mobilità è solo narrata: ad esempio, nessuno dei grandi “creatori” di ricchezza mondializzata, da Mark Zuckerberg a Bill Gates, viene “dal basso”. Inoltre, e le statistiche sulla (im)mobilità sociale nelle scuole stanno lì a dimostrarlo, “‘i figli e le figlie di’ sono come pesci nell’acqua in questa società liberale, in cui la norma è ‘ciascuno per sé’.” Nelle università, nei giornali, nel il mondo del cinema e della politica, in aperto contrasto con le dichiarazioni di apertura al diverso, tutto il sistema è saldamente in mano ai bianchi che abitano nelle metropoli mondializzate e la diversità è rappresentata solo in misura residuale. I “bobo” progressisti e aperturisti infatti “non intendono giocare con l’avvenire dei propri figli, la mescolanza sociale e il multiculturalismo reali li lasciano agli altri”.

Le diseguaglianze sono dunque esplose dovunque nel mondo globalizzato. Se negli USA, negli anni ’70, la percentuale più ricca della popolazione incamerava l’8% della ricchezza nazionale, oggi quella stessa percentuale è passata a incamerarne il 20%.

Il nomadismo globale, tipico mito della modernità mondializzata, è imposto dai media come un dato incontestabile.  Se ne deduce il grottesco slogan che per risolvere il problema della disoccupazione basta accettare l’ipermobilità. Secondo l’ideologia “bougista” insomma, si resta disoccupati perché ci si rifiuta di muoversi. Per le classi escluse dalla mondializzazione, l’emigrazione rappresenta invece una necessità dolorosa, quasi mai una scelta volontaria e felice. A smentire poi il mito ci sono i dati: nel 2013 il mondo contava 223 milioni di migranti internazionali, cioè a dire solo il 3% della popolazione mondiale, la fotografia di una società prevalentemente sedentaria.

Le nuove società periferiche: dall’ideologia alla gestione del quotidiano

Per la prima volta nella storia, le classi popolari non vivono più laddove si crea la ricchezza e il lavoro, ma in una “Francia periferica”, sempre più fragile e nascosta. “L’economia mondializzata, che poggia sulla divisione internazionale del lavoro e sulla crescente robotizzazione e automazione dei processi produttivi, non ha più bisogno di una classe popolare occidentale, troppo cara e tropo garantita, ma di manodopera a bassissimo prezzo (cinese, indiana, africana). Così, quei ceti popolari sono stati progressivamente perifericizzati e resi ininfluenti.”

Questa espulsione ha provocato quella che l’A., in modo suggestivo, definisce il marronage delle classi popolari, assimilabile alla “fuga dalle piantagioni” degli schiavi. Esse cioè non si riconoscono più nelle narrazioni che provengono dall’alto, dalle istituzioni tradizionali (partiti, sindacati, media).

Sta nascendo una “contro società”, che non è la società del ripiegamento o di chi non sa (con buona pace di BHL), che non prefigura una chiave interpretativa del mondo, ma si fa carico delle contraddizioni che un modello di sviluppo non voluto comporta: “non sono le idee che spingono il mondo, ma la quotidianità”. E il quotidiano è caratterizzato dalla complessità, non dall’ideologia. “Le classi popolari non hanno altra scelta se non quella di resistere all’ordine dominante facendosi carico della realtà”.

Quello che la società dominante chiama “ripiegamento” è in realtà la risposta a una società iperliberista che distrugge ogni nozione di solidarietà. “Il progetto mondialista non ha creato l’uomo nuovo, ma l’uomo ordinario, di orwelliana memoria.” Citando Jean-Pierre Le Goff, “la società dei consumi e del tempo libero ha esaltato la sfera privata a detrimento delle culture e delle istituzioni sociali tradizionali.” Del resto, la mescolanza sociale non è  mai stato un obbiettivo delle classi popolari, che trovano nell'ancoraggio locale una risorsa per la loro economia familiare.

La panne della mobilità sociale rafforza la società popolare. Questa società è depositaria dello “spirito del dono” (Maus), di una mutua solidarietà, che agisce non per spinta ideologica, ma perché costretta dalla realtà del quotidiano.

“E’ evidente che l’idea secondo la quale il popolo non esiste più si collega al pensiero magico di coloro che hanno tutto da temere personalmente dal suo risveglio politico, piuttosto che all’analisi del mondo così com’è.”

Di qui nasce anche la pericolosa crisi attuale dei processi democratici (il calo costante della partecipazione al voto): le classi dominanti e superiori sembrano sempre più tentate da un’opzione di totalitarismo soft. Si veda la reazione delle élite alla Brexit o all’elezione di Trump, allorché hanno riconosciuto con grande fastidio gli esiti del voto democraticamente espresso (BHL). In Francia, sull’onda della Brexit, che ha visto il voto “remain” concentrato nelle città metropolitane e tra i giovani, si è giunti a proporre (Fillon) che ai giovani sia dato il doppio suffragio (“democrazia a punti”). E così in Svizzera. “Si arriverà”, si chiede l’A., “alla Gazzetta Ufficiale che ufficializzerà un voto con coefficiente 3 per i giovani delle metropoli, 2 per i dirigenti, 1 per gli operai e 0,5 per i disoccupati?” Bisogna invece sempre ricordare che la “la democrazia riposa su un principio fondamentale, quello per cui un operaio ignorante e un intellettuale raffinato sono egualmente capaci di decidere le sorti di un paese.”

In questo denso e sfaccettato saggio di Guilluy, munito peraltro di un corredo ricco e molto significativo di carte tematiche della Francia, c’è molto, molto di più. Spero possa essere presto tradotto in italiano, perché de te fabula narratur.
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[1] Vedi il precedente intervento su Il blog di Claudio Salone “Aiuto! Ha ragione la Littizzetto!”

[2] “Il sinistrismo del ’68 ha facilitato e accelerato l’avvento del capitalismo liberal-libertario e la totale egemonia del mercato” (M. Clouscard, cit.). Come dice efficacemente l’A., si è passati dai Rougon-Macquart agli hipsters.

[3] L’A. cita in proposito Margareth Thatcher: “La società non esiste.”

[4] Si veda la gentrificazione del più popolare tra gli sport, il calcio, ottenuta con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei biglietti allo stadio.

[5] A Londra si è giunti a punte di 80.000 € al mq. L’aumento poi degli interventi di edilizia pubblica nelle metropoli non serve a favorire il ritorno dei ceti popolari, ma a dare alloggio a quei “key workers” senza i quali la qualità e la sicurezza della vita urbana verrebbe messa a repentaglio (poliziotti, badanti, personale sanitario e scolastico, ecc.).

[6] J.-P. Chevènement: “non resterà niente della destra e della sinistra se la prima abbandonerà la nazione e l’altra la società.

[7] Jacques Julliard: “il multiculturalismo è una beffa, una beffa sanguinosa”. Del resto, dice l’A., “come poteva non cedere la diga repubblicana di fronte a Wall Street, al CAC 40, a Hollywood?”

[8] Il mentore di una tale interpretazione è Bernard Henry-Levi, cui l’A. non risparmia opportunamente critiche e frecciate ironiche.

[9] La classe dominante usa ormai l’antifascismo come uno strumento di lotta di classe. A tal proposito, l’A, cita gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini (1974: “un antifascismo facile che ha per oggetto un fascismo arcaico che non esiste e non esisterà mai più”).

[10] Les Idéopôles, laboratoires de l’électorat socialiste è il titolo di un saggio di F. Escanola e M. Vieira, del 2014 citato dall’A. Non vi è chi non veda, alla luce della disfatta del PS, come la realtà si incarichi talvolta di lacerare i veli dell’ideologia.

Claudio Salone

Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/