Sottotitolo:
Nel libro di Mario Pianta un'analisi del rapporto fra politica industriale e consolidamento del welfare per rilanciare il lavoro e favorire un assetto sociale più equilibrato.
Crisi finanziaria, crisi del debito pubblico, austerità. Sembra che non ci sia alternativa per un paese in difficoltà come il nostro. Ma chi ha pagato, effettivamente, il conto della crisi? La risposta la dà il titolo del libro di Mario Pianta Nove su dieci.* Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza, 2012, 12€). E’ sui “nove su dieci” più poveri che ha gravato il peso del declino e del riaggiustamento economico, mentre i più ricchi – “uno su dieci” degli italiani - hanno beneficiato del lungo processo che ha portato a quest’esito disastroso, e si sono ora posti al riparo dai costi della crisi. Le soluzioni, proposte ed attuate, per superare la crisi hanno l’effetto di approfondire le disuguaglianze esistenti, deprimendo le forme di partecipazione politica e indebolendo la democrazia.
Le radici della debolezza strutturale dell’Italia, che l’ha resa così vulnerabile di fronte al crollo della finanza del 2008, sono molte e complesse. L’incompiutezza dell’Europa, l’inadeguatezza della politica a fronteggiare l’evidente declino del nostro apparato produttivo, l’indifferenza nei confronti della deriva dei conti pubblici, il disinteresse, se non peggio, per l’estendersi delle disuguaglianze sociali, tutto questo è ricostruito nei primi tre capitoli del volume; il capitolo conclusivo presenta una “via di uscita”, con le alternative possibili a “questa” austerità.
Vediamo le linee portanti della sua argomentazione, che sono di grande interesse. Punto fermo è la valutazione che il liberismo “va messo in soffitta” in quanto l’esperimento che “il mercato – lasciato a se stesso – sia capace di far crescere l’economia, trovare le produzioni giuste e creare occupazione” è risultato fallimentare come dimostra la lunga recessione che ci coinvolge e di cui non si intravede la conclusione. L’intervento pubblico deve impegnarsi a “indirizzare la produzione delle imprese private, regolare e organizzare i mercati, creare lavoro e redistribuire in modo egualitario i redditi.” Per quanto possa sembrare ovvia e ampiamente condivisa, una tale ridefinizione della politica economica delinea una “visione” radicalmente contrapposta a quella che da lungo tempo la vulgata mediatica, anche nella forma aulica dai “professori”, propaganda come l’unica ammissibile. Essa comporta un rovesciamento egli obiettivi da perseguire e degli strumenti da adottare, nonché una ridefinizione dei vincoli che l’azione pubblica deve affrontare per ottenere i fini perseguiti: l’obiettivo è la stabilità sociale più che l’efficienza economica; lo strumento è la politica industriale piuttosto che quella finanziaria; i vincoli da allentare sono i condizionamenti della finanza più che le relazioni di lavoro.
L’obiettivo di “rimettere le persone al centro” significa considerare come preminente la qualità della loro vita riconoscendo che esse non sono la causa della crisi, ma l’oggetto: “Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, serve mettere al primo posto la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi”. L’attenzione dell’azione politica va spostata sulle condizioni di vita dei lavoratori, non solo di chi un lavoro ce l’ha (e lo vuole mantenere), ma anche di chi questo lavoro non ce l’ha, non lo può avere, lo ha perso senza ritrovarlo o senza poterlo ritrovare. Di fronte a questa priorità, l’economia è un vincolo con cui fare i conti, ma non l’obiettivo al quale subordinare la vita sociale: la contrapposizione con la visione della politica economica corrente non potrebbe essere più drastica.
La ridefinizione dell’obiettivo spiega l’importanza che assume nella proposta di Pianta la politica industriale - di una politica del lavoro e per il lavoro – in quanto strumento per riformare la struttura produttiva e per favorire contemporaneamente il riequilibrio sociale. Si tratta di spostare l’asse dell’intervento riformatore dall’offerta dei lavoratori a prestare la loro opera (centrale invece nella visione della cosiddetta “riforma del mercato del lavoro”), al rilancio di una domanda di lavoro delle imprese attuando politiche che non siano di crescita senza qualità. La questione è cosa e come produrre, e la risposta risiede nell’individuare come aree da privilegiare la “crescita delle conoscenze, delle tecnologie, degli investimenti e delle attività economiche in direzioni che migliorino le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale”.
Nell’attuale situazione recessiva, non è però possibile puntare solo sulla politica industriale; occorre accompagnarla con interventi di sostegno e di stabilizzazione della domanda, declinati in funzione dell’espansione dello stato sociale (rafforzamento degli ammortizzatori sociali, reddito di cittadinanza ecc.). Politica industriale per rilanciare il lavoro e politiche di welfare per contenere gli effetti negativi dovuti ai riaggiustamenti dei mercati sono due aspetti inevitabilmente connessi nell’obiettivo di favorire un assetto sociale più equilibrato. Naturalmente sono ben presenti le difficoltà di trovare, nella presente situazione, i fondi necessari a per il rilancio dell’economia e la ricostruzione sociale. Oltre che dall’Europa, le risorse dovrebbero venire da “una grande redistribuzione” che determini uno spostamento strutturale del carico fiscale dal lavoro alla ricchezza: “va colpito in primo luogo lo stock di ricchezza accumulata negli ultimi vent’anni, che non ha sostenuto gli investimenti e lo sviluppo del paese.”
Proposte come queste per la crescita dell’occupazione, la ristrutturazione industriale, il consolidamento del welfare incontrano numerosi vincoli, sia in campo economico che in quello politico. Un primo vincolo da affrontare è quello europeo che tuttavia – all’indomani della vittoria del socialista François Hollande in Francia - potrebbe essere rovesciato in una risorsa, se le politiche dell’Unione abbandonassero i “dogmi della finanza e del liberismo” per consentire ai paesi in difficoltà (e l’Italia tra essi) un aggiustamento meno gravoso. Le politiche di austerità imposte dall’Europa accentuano la crisi fiscale e prolungano la recessione. Sono invece necessarie politiche che utilizzino le risorse dell’Unione per sostenere la domanda europea, riequilibrare gli assetti produttivi, difendere le economie reali dall’aggressività della finanza globale.
La mancata consapevolezza dell’urgenza di un tale intervento rischia di far implodere il progetto europeo; i singoli paesi, lasciati soli, non essendo in grado di contrastare la pressione dei mercati finanziari cui nulla interessa dei bisogni sociali, si espongono allo smantellamento dell’intervento pubblico e a una grave lacerazione della società che, se “generalizzata a tutta l’Europa, provocherebbe una depressione più grave di quella degli anni Trenta.” Appare ampiamente fondata la critica di ampi settori europei sulla governance economica europea che chiedono che la questione del debito pubblico venga affrontata “in modo che sia sostenibile per i paesi in crisi, accettabile per i paesi forti e attento a non distruggere l’Unione monetaria e l’euro.” L’obiettivo di “ridimensionare la finanza, controllare l’economia, praticare la democrazia” è una ridefinizione radicale della politica economica europea, ma la sola che le può garantire un futuro di civiltà.
L’altro vincolo che viene sottolineato nel volume è quello politico: “La crisi economica è vista anche come fallimento dei processi politici della democrazia rappresentativa nel proteggere le condizioni di vita dei cittadini.” Negli ultimi vent’anni in Europa i governi, anche di centro-sinistra, hanno sposato acriticamente le politiche liberiste confidando nei benefici attesi della globalizzazione. Nell’affrontare la crisi che ne è conseguita, non riescono a intravedere alternative alle politiche di austerità che continuano a colpire la parte più debole della società; la scelta di delegare alle forze economiche le decisioni su come riformare la società priva le forze politiche di una effettiva incidenza sul mondo reale. La politica rischia di essere considerata irrilevante da parte di un corpo sociale che avverte di essere lasciato in balia di un futuro di grande incertezza.
Una capacità progettuale alternativa si può rintracciare nei movimenti sociali e nelle pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa espresse dalla società civile negli ultimi decenni, in un quadro di alleanze sociali con tutti i soggetti aperti al cambiamento. È una condizione per una “nuova” politica, capace “di dare voce al protagonismo di quel 99% dei senza-potere”, con il riconoscimento della “pari dignità tra le diverse forme dell’azione politica – nei movimenti, nel sociale, nel sindacato, oltre che nei partiti.” Il richiamo è per una politica “buona, forte e partecipata”, fondata su valori condivisi - i principi della Costituzione, il benessere, l’uguaglianza, la sostenibilità ambientale -, capace di governare in modo efficace e di guardare al futuro.
Serve un ritorno alla politica: “per far funzionare l’azione pubblica in questa direzione, è necessario che molti, tra quei nove su dieci degli italiani, decidano di ‘riprendersi’ la politica” in modo da poter “costruire una nuova egemonia sulla politica e sull’economia”, con un “blocco sociale post-liberista” a sostegno del progetto alternativo di una società di democrazia allargata ed economicamente sostenibile. È questo il nodo cruciale per superare l’esistente blocco sociale che con un “consenso passivo al potere della finanza e del privilegio” ha sostenuto finora il progetto liberista, dimostratosi illusorio ma che ancora ripropone le sue ricette recessive, prospettando un sicuro e drammatico aggra-varsi della crisi e un impoverimento diffuso.
Il quadro dell’analisi di Pianta rende evidente la complessità di un’alternativa consapevole rispetto alla semplicità della richiesta di austerità. La via d’uscita prospettata – che riprende molte delle proposte avanzate dalla Campagna Sbilanciamoci sulla politica italiana ed europea - richiede un approfondimento della fattibilità delle singole iniziative e delle possibili ricadute economiche e sociali, ma pone l’esigenza di affrontare le attuali difficoltà - declino economico, ampliamento del divario tra ricchi e poveri, emergenza del debito pubblico - con un’ottica profondamente diversa dalla visione neoliberista dimostratasi socialmente fallimentare.
Un cambiamento di questo tipo richiede tempi lunghi e un profondo scontro sociale poiché contesta posizioni di rendita che si sono rafforzate negli ultimi decenni; contraddice convinzioni sedimentate e mediaticamente diffuse da un più che decennale pensiero unico neoliberista; richiede di affrancarsi da una finanza che funziona come strumento disciplinatore dell’esistente. Per quanto complesso sia, questo è il terreno sul quale si gioca oggi la forma futura della nostra società. E qui “Nove su dieci” offre un utile contributo, una chiave di lettura di quanto è successo e una prospettiva di cambiamento: “i contenuti di questa politica sono chiari, le proposte sono molte, concrete, realizzabili. Sicuramente controverse, ma largamente condivise. Capaci di dare benefici economici concreti a nove italiani su dieci, e di far vivere proprio tutti in una società meno degradata, insicura e ingiusta.” Pagine da leggere e proposte da praticare, per chi è alla ricerca di un’alternativa.
*Mario Pianta, Nove su Dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Editori Laterza, 2012, p. 176, 12€, www.novesudieci.org