Le scelte del governo e lo scontro sul salario legale

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L’attuale scontro sul salario legale – tra contrarietà di Governo e Cnel e proposta dell’opposizione – non è tecnico ma politico. Si trascura il problema sociale dei minimi salariali e del lavoro povero.

Sul salario minimo legale il Governo riaccende lo scontro con l’opposizione anziché condividerne l’iniziativa legislativa. Ha incassato il sostegno tecnico, peraltro prevedibile, del Cnel. Diventato solido scudo del rifiuto governativo.  Il Rapporto-Cnel contiene dati utili (sebbene esso stesso li reputi parziali e divergenti tra banche-dati) ed è molto articolato. Peccato che trascuri il problema sociale: minimi salariali e lavoro povero. Fino ad aggirare il senso della Direttiva Europea (2022/241): vuole rispettarla ma non vi riesce.

La Direttiva non “impone” agli Stati una legge sul salario minimo perché “suppone” l’efficienza della contrattazione per almeno l’80% dei lavoratori; e lascia agli Stati-membri la valutazione dell’adeguatezza salariale secondo le prassi nazionali. Invece il Rapporto-Cnel subito parte contrario all’intervento legislativo: <<non è dato sapere… l’impatto di una eventuale legge in materia di salario minimo sul sistema economico e produttivo e sulla stessa finanza pubblica con riferimento al problema delle esternalizzazioni e degli appalti di servizi nelle pubbliche amministrazioni>>.

Ritiene poi non chiari e comunque dibattuti <<i possibili effetti sui singoli lavoratori e sulle dinamiche complessive del mercato del lavoro (disoccupazione, tassi di occupazione regolare, ecc.)>>. In pratica dice che in certi casi – e nell’impresa medio-piccola – meglio non toccare il “sotto-salario” dei dipendenti. Esplicitamente poi non considera “agricoltura” e “badanti”: settori tipici di sfruttamento dei lavoratori.

Ritiene comunque che in genere per il lavoro povero non serva una legge sui minimi salariali ma occorra valorizzare la contrattazione collettiva. Ottimo intento: chi oserebbe sostenere il contrario? Ma questa strada è al momento percorribile? Tutti sanno che non lo è! Qui il Rapporto si contraddice: prima (per eludere la Direttiva-UE) afferma l’efficienza della contrattazione; poi si dichiara consapevole delle criticità della stessa. Tanto da sottolineare <<l’urgenza e l’utilità di un piano di azione nazionale a sostegno del sistema della contrattazione collettiva quale risposta alla questione salariale e al nodo della produttività>>.

Sorvola però su “quando” e “come”. E nel frattempo? Un’altra contraddizione: prima si calcola in quasi il 100% dei lavoratori la copertura della contrattazione; poi si critica – giustamente – l’esistenza di quasi mille contratti collettivi. Allora il sistema contrattuale non è tanto efficiente, specie nell’equilibrio e nella parità dei trattamenti! 

In effetti l’attuale scontro sul salario legale – tra contrarietà di Governo e Cnel e proposta dell’opposizione – non è tecnico ma politico, comunque sproporzionato. Anche perché alla fine saranno i giudici del lavoro a garantire ai lavoratori ricorrenti una retribuzione proporzionata e sufficiente. Sulla scia di quanto fanno da settant’anni applicando direttamente l’art. 36/1 della Costituzione. E di recente la Cassazione ha ribadito il potere del giudice d’adeguare secondo equità persino una retribuzione stabilita nel contratto collettivo. Quando cioè, per debolezza sindacale od obsolescenza dei trattamenti (molti i contratti scaduti, non rinnovati), anche una retribuzione contrattuale appaia insufficiente “ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Ovviamente la legge sul salario minimo non risolverebbe l’enorme complessa questione salariale, ma servirebbe almeno a non intasare tribunali oberati dalle migliaia di processi. Intendiamoci: la funzione del giudice è comunque insostituibile giacché non sempre la retribuzione – fissata per legge o per contratto – viene effettivamente corrisposta. A parte la “terra di nessuno” del lavoro nero, capita che il datore di lavoro non rispetti né la legge né il contratto. E c’è financo di peggio: può addirittura accadere che sulla busta-paga figuri una retribuzione ma il lavoratore sia costretto ad accontentarsi in realtà d’una somma inferiore; e senza nemmeno la prova, nell’eventuale giudizio, dell’inadempimento del datore, che certo appartiene alla schiera dei “capitalisti-straccioni”. Non tanto folta, ma nel Sud più diffusa di quanto si pensi. Perciò sono molti i casi in cui ai lavoratori non resta che ricorrere al giudice per rivendicare il diritto indisponibile al salario.

In definitiva il Rapporto-Cnel traccia un quadro più roseo del reale, pur nella consapevolezza che per ora non si sa se e quando la contrattazione collettiva sarà autonoma ed efficiente. Per renderla tale bisogna scalare una montagna. Nel frattempo dunque una legge sul salario minimo – magari transitoria, come s’è detto altre volte – potrebbe dare qualche buon risultato e non fare alcun danno. Potrebbe almeno diffondere nella mentalità comune che chi lavora ha diritto alla giusta mercede.

(Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, 15 ottobre 2023)

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.