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Come la crisi finanziaria possa esser risolta non è chiaro. La Germania continua a temere l'inflazione, mentre la crescita è bloccata e aumenta la disoccupaizone. I problemi energetici e il ruolo delle compagnie petrolifere.
L’anno 2011 si chiude con una musichetta che sembra più una marcia funebre che un canto natalizio. Manca anche la neve, perché l’accumulo di CO2 nell’atmosfera ha cambiato l’aspetto tradizionale delle giornate di fine anno. Niente neve e poca “pace per gli uomini di buona volontà” soprattutto in Italia, ove i cittadini si preoccupano, o . almeno, dovrebbero preoccuparsi, della situazione non solo della loro economia, ma anche della loro società.
Sul piano dell’economia, l’accumulo del debito necessario per finanziare la spesa pubblica ha finito per raggiungere livelli tali da creare serie preoccupazioni ai nostri creditori. L’economia italiana non cresce più da anni, il che toglie a costoro la voglia di prestarci denaro se non a tassi di interesse che si possono tranquillamente chiamare usurari. La nostra società, malata di molti mali, e dominata da un’abitudine ormai consolidata alla corruzione, non sembra più capace di definire un percorso virtuoso né sul piano dell’economia, né su quello della vita politica e culturale. Tanto era consolidata l’abitudine di gestire il paese con le chiacchiere, che per affrontare il problema economico e finanziario abbiamo dovuto ricorrere a un Governo, per così dire extraparlamentare, il quale ha chiuso un periodo durato molti anni di non governo che ci ha lasciato un’economia debole, un prestigio internazionale pari a zero e un numero molto ridotto di amici.
La crisi economica e finanziaria non è solo italiana, il che riduce ancor di più la nostra capacità di uscirne . Ai problemi prima dell’Irlanda e poi della Grecia, e del Portogallo e della Spagna e poi dell’Italia, l’Europa ha reagito con delle raccomandazioni che, per amor di verità, si dovrebbero considerare come dei veri e propri ordini. L’Europa chiede che l’Italia adotti “riforme strutturali”, cioè, in pratica la riduzione dei servizi pubblici, delle pensioni e dei salari, con conseguente riduzione della domanda globale dei consumatori, il che non potrà fare altro che aggravare la crisi economica già in atto. Questa impostazione è dovuta in modo specifico al Governo tedesco, il quale insiste ormai da anni sul concetto che la Banca Europea non è un “lender of last resort” che mantiene alto il valore della valuta e basso il costo dell’approvvigionamento finanziario, tenendo alto il valore dei propri titoli, e ricomprandoli in caso di pericolo.
Questa teoria deriva innanzi tutto dalla paura dell’inflazione, fortemente sentita dai tedeschi dopo la grande crisi degli anni 1920-30, che portò i nazisti al potere. Applicate alla situazione attuale, queste istruzioni si risolvono in un tentativo di affrontare problemi immediati con misure di lungo periodo che, se potessero avere degli effetti positivi, l’avrebbero comunque in un periodo non breve. Inoltre, il complesso delle misure “consigliate” finisce per colpire soprattutto i cittadini meno abbienti. Infatti, il servizio pubblico è uno strumento fondamentale per ridurre le differenze del reddito fra i cittadini. Se questi servizi mancano o sono insufficienti, le differenze fra cittadini aumentano a dismisura, fino al paradossale sistema americano in cui un numero sempre più piccolo di cittadini detiene quote altissime e fortemente crescenti del reddito del paese.
Libertà, fraternità e uguaglianza sono da sempre i principi di base della democrazia, ma sembra che due concetti su tre stiano ormai scomparendo. Come questa crisi finanziaria possa esser risolta, non è ancora certo. Essa ha già provocato un forte disaccordo fra l’Inghilterra e gli altri membri della Comunità Europea, che sembra difficile da ricucire. C’è da sperare che con il passar del tempo la tensione si riduca, e renda meno probabile un risultato catastrofico. C’è comunque da temere che l’applicazione anche accorta di questi “consigli” all’economia italiana possa avere un effetto deprimente sull’economia nel medio termine, a meno che il Governo non trovi opportunità oggi non visibili, o che gli italiani capiscano la situazione, e come sia possibile farvi fronte.
Le cose non vanno tanto bene nemmeno nel settore energetico e, in particolare,quello dell’industria petrolifera. Il tono non cambia, anzi: “Siamo alla crisi “ dice Pasquale De Vita, un uomo che di crisi ne ha affrontate tante, e le sa riconoscere anche da lontano. Anche questa crisi riguarda tutta l’Europa, e tocca principalmente la parte “a valle” dell’industria, colpita dalla stagnazione della domanda di prodotti petroliferi, causata sostanzialmente dall’aumento progressivo del loro prezzo, che a sua volta rispecchia l’aumento del greggio, dovuto più alla speculazione che a un eccesso di domanda rispetto all’offerta sul mercato.
La compressione della domanda di carburanti dovuta al prezzo è visibile in tutta l’Europa, ma tocca particolarmente l’Italia, un tempo esportatore di prodotti petroliferi. Le misure già adottate dal Governo Italiano per aumentare il gettito fiscale dei carburanti, scoraggeranno ulteriormente la domanda. Benzina e gasolio petroliferi sono ormai assimilabili ai beni di lusso, con la sola e importante differenza, che il loro consumo non può essere evitato non avendo le nostre città un sistema efficiente di trasporto pubblico. Il che ha, fra l’altro, avuto l’effetto di ridurre le città a parcheggi all’aria aperta, con gravi effetti. Ad esempio, sono scomparse le aree libere, dove in ogni quartiere, specie in quelli più poveri, correvano e giocavano i bambini e i ragazzi. Oggi, i bambini non escono più a giocare perché le strade sono pericolose e gli spazi aperti sono dei parcheggi: stanno in casa davanti alla televisione o al computer, mangiano merendine piene di zucchero, ingrassano, e sviluppano delle intolleranze alimentari che dureranno tutta la vita.
Le stesse compagnie petrolifere sembrano perdere interesse al “downstream” e mostrano una forte tendenza a concentrarsi sulla parte all’origine, esplorazione e produzione, cioè al cosiddetto “upstream”. Ciò risponde a dei fenomeni che non sono completamente nella possibilità di controllo delle imprese. Il volume di capitale da investire per scoprire e produrre un nuovo barile sta aumentando, data la necessità di lavorare in aree difficili, come i mari profondi e le terre glaciali, e le crescenti profondità che è necessario raggiungere. Inoltre, il prezzo del greggio aumenta, e molto probabilmente aumenterà ancora, per effetto della speculazione ed anche della domanda dei paesi in via di sviluppo che stanno moderando il loro ritmo di crescita, ma aumentano ancora a tassi rilevanti. Le imprese sono quindi portate ad assumere sempre più l’aspetto di “global upstreamers”, impegnate principalmente nella ricerca e produzione di greggio, e a considerare il sistema raffinazione-distribuzione come un’appendice utile, ma non strategica. Naturalmente, non tutte le compagnie petrolifere si comportano allo stesso modo.
Ve n’è qualcuna che segue lo sviluppo delle tecnologie downstream, ad esempio con i grandi progetti petrochimici nel Medio Oriente. In quest’area le materie prime si possono ottenere a prezzi migliori che in Europa, se non altro per il costo del trasporto, e da quei porti è facile rifornire tutti i mercati. Una strada che era stata imboccata anche dall’impresa italiana, e poi non più perseguita, forse per concentrare le risorse finanziarie al settore upstream, che richiede capitali sempre maggiori per raggiungere risorse sempre più profonde e lontane dalle aree di domanda.