Le metamorfosi del lavoro e un diritto da ricostruire

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La vecchia cultura del lavoro ha subito profonde scosse sismiche. Le diverse forme di protezione sociale e i diritti conquistati nel secolo del fordismo devono trovare una rappresentanza allargata e una nuova sintesi in un rinnovato paradigma della cittadinanza.

Il diritto del lavoro è paragonabile ad un edificio situato in una zona ad alto rischio sismico. Infatti, non può sottrarsi a continui confronti con logiche di mercato capaci di farlo crollare. Per questo, cambia senza soste, come creta nelle mani dello scultore, e la sua costante evolutiva è la micro-discontinuità. Tuttavia, le difficoltà che ha incontrato non hanno smesso di crescere; tant’è che molti hanno iniziato ad interrogarsi su quanto tempo mancasse alla sua demolizione assai prima della fine del secolo che aveva visto la sua affermazione. Pertanto, poiché il devastante sisma che lo ha colpito in questi ultimi anni e in tutti i paesi dell’Unione Europea è stato preceduto da numerosi segnali, il minimo che può dirsi è che l’allarme è stato sottovalutato facendo leva su fideismi speculari e simmetrici al catastrofismo dell’attuale disincanto. 

Così, se le prime volte che mi recavo come visiting professor nelle Università dell’America Latina non sbagliavo a credere di avere compiuto un viaggio più attraverso il tempo che nello spazio, sbagliavo a immaginarmi di essere entrato in contatto col passato remoto di quello che doveva considerarsi il più euro-centrico dei diritti nazionali. In realtà, sbarcavo nel suo futuro prossimo nel suo stesso luogo d’elezione. In occasione dei più recenti soggiorni, infatti, ho percepito che l’avere in tasca il biglietto del volo di ritorno non mi procurava più la tranquillizzante sensazione che provavo negli anni ’80. Originata da un senso di superiorità al limite della supponenza, la sensazione era quella di possedere la certezza che sarei tornato in un angolo del pianeta dove il diritto del lavoro che insegnavo ai miei studenti non sarebbe mai stato maltrattato: non poteva né doveva essere maltrattato.

L’effetto dei terremoti non si esaurisce nei cumuli di macerie che si lasciano dietro e che bisogna rimuovere. Lanciano anche una sfida. E’ la sfida della ricostruzione. In effetti, “ricostruire” è la parola d’ordine che risuona dopo ogni terremoto. Declinata come un imperativo morale, essa risponde all’esigenza di rassicurare un’opinione pubblica spaventata. Difatti, nel nostro caso, il clima sociale che si è gradualmente formato durante lo sciame sismico che investito il diritto del lavoro è la risultante di un mix di apatia, sfiducia, rassegnazione, conformismo, paura. Soprattutto, paura. Quella di chi, esposto al ricatto occupazionale, ritiene accettabile anche un lavoro scandalosamente sfruttato. Debole e intermittente, invece, è l’opposizione apertamente conflittuale.

E’ intellettualmente onesto riconoscere che la sfida della ricostruzione trova tutti impreparati. In primo luogo, le rappresentanze istituzionali del lavoro. La sinistra politica ha fatto la fine del soldato di cui si sono perdute le tracce: c’è chi dice che sia morto da eroe e c’è chi dice che abbia disertato. Al tempo stesso, i sindacati si rinchiudono all’interno di un orizzonte di senso aziendal-corporativo e riscoprono, magari coi brividi del neofita, la convenienza di forme di partecipazione subalterna che un recentissimo accordo interconfederale considera espressive di una “cultura del coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro” (sic). E i giuristi?

Beh, i giuristi del lavoro non sono meno disorientati. Il che non meraviglia: avevano già dimostrato di essere privi della cultura dell’emergenza sismica che suggerisce come comportarsi quando la scossa tellurica arriva; figurarsi adesso che bisogna ricostruire! 

Fatto sta che molti di loro accarezzano l’idea che si possa ricostruire il diritto del lavoro dov’era e com’era. Ma quella di de-contestualizzarlo allo scopo di riprodurre l’eguale nel diseguale è un’idea meta-storica. E ciò perché il suo “dove” non può più essere quello dell’epoca in cui traghettò il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose dalla condizione di sudditi a quella di cittadini. Non può esserlo perché la globalizzazione dell’economia ha de-territorializzato il sistema delle sue fonti di produzione, cancellando letteralmente i confini degli Stati-nazione ciascuno dei quali è destinato a cedere quote crescenti di sovranità democratica e popolare alla societas mercatoria ovvero alla business community.
Né più realistica è la proposta di ricostruire il diritto del lavoro com’era.

Non va mai dimenticato, infatti, che il diritto del lavoro del ‘900 non si sarebbe arricchito delle caratteristiche che abbiamo conosciuto se il modo di produrre nella fabbrica fordista non si fosse imposto anche come un modo di pensare, uno stile di vita, un modello di organizzazione della società nel suo complesso né avrebbe assunto la forma vincente che poté esibire di se medesimo durante “il lungo momento socialdemocratico dell’Europa del secondo dopoguerra”, se il comunismo sovietico non avesse intimorito l’Occidente capitalistico, orientandolo a sponsorizzare un diritto a misura d’uomo. Pertanto, sia il passaggio alla società post-industriale che l’implosione dell’Urss hanno spinto moltitudini di comuni mortali che, per guadagnarsi da vivere, devono lavorare all’altrui servizio ad inoltrarsi in un gigantesco processo di mutazione antropologico-culturale il cui esito più evidente è la riduzione della distinzione tra destra e sinistra a categorie da codice della strada.

A ciò si aggiunga che nemmeno il capitalismo è quello dell’età dell’industrializzazione. Si è finanziarizzato e, nel passare dall’economia di scala all’economia di scopo in un mercato globalizzato, ha cambiato lo stesso lavoro e la concezione che se ne ha. Ormai, perduti il profilo identitario e l’unità spazio-temporale che aveva in passato, neanch’esso è quello d’una volta. Al lavoro culturalmente e politicamente egemone della società industriale è subentrata la galassia dei petits boulots. Minuscoli. Eterogenei. Precari. Pertanto, la strategia ispirata al principio di ricostruire il diritto del lavoro com’era dà per scontato ciò che non lo è affatto.

Presuppone che tutti i discorsi (quello giuridico incluso) presto o tardi ripartiranno da dove si sono interrotti, come se il virtuoso rapporto d’interazione tra economia e democrazia praticato nei “trenta gloriosi anni” dell’Europa del secolo XX fosse caduto in uno stato di latenza provvisoria, a stregua di un fiume carsico. Presuppone che, col cessare dello sciopero degli investimenti di capitale senza precedenti che ha ossificato il sistema produttivo, all’economia reale sarà restituita la centralità che aveva prima. Presuppone che il volume di produzione aumenterà creando nuova occupazione, mentre nel medio-lungo periodo la prospettiva è, se non proprio la decrescita, la crescita-zero e l’innovazione tecnologica divorerà posti di lavoro. Presuppone che il lavoro occasionale, a gettone, a chiamata sia un fenomeno transitorio e l’espansione dell’Uber economy o dell’economia voucherizzata possa essere arrestata con divieti legali.

Nessuno però riuscirà mai a fare del peggioramento degli standard protettivi spettanti al cittadino in quanto lavoratore il pretesto per revocare il passaporto per accedere allo status di cittadinanza di cui la costituzione è stata artefice ed è garante. Piuttosto, si diffonderà la percezione – che infatti affiora nelle varie e ancora confuse proposte di un reddito di cittadinanza – della necessità di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino in quanto tale. Nel linguaggio degli ingegneri non sprovvisti di cultura dell’emergenza sismica, si potrebbe parlare di ri-localizzazione del diritto del lavoro.

La cosa si spiega perché, se il lavoro industriale ha raggiunto l’apogeo della sua emancipazione allorché le leggi fondative delle democrazie contemporanee ne hanno fatto la fonte di legittimazione della cittadinanza, nella società dei lavori i diritti di cittadinanza appartengono anche a chi cerca lavoro e, pur avendone diritto, non lo trova, a chi lo perde magari ingiustamente e a chi, più per necessità che per scelta, ne fa tanti e tutti diversi. Come dire: non tutto è reversibile e sarebbe giusto riconoscere che il punto di non ritorno lo stabilì proprio il diritto del lavoro del ‘900.

Stando così le cose, l’alternativa che schiaccia il pensiero giuridico-politico si profila con sufficiente chiarezza. O si accontenta di razionalizzare il riformarsi del diritto che dal lavoro prende il nome come diritto di una transazione di mercato, e basta; nel qual caso si limiterà ad elaborare schemi cognitivi su cui l’intervallo di tempo che separa l’inizio del diritto del lavoro dalla sua fine è ininfluente, come se fosse stato una fase che si chiusa senza lasciare traccia di sé.

Oppure, smentendo l’assioma che la fine si ricongiunge sempre all’inizio e il principio segna la strada futura, ritiene che il formidabile cortocircuito determinato dall’incontro del diritto del contratto di lavoro con la le costituzioni post-liberali (in particolare, con quella di una Repubblica fondata sul lavoro) e con l’autonomia collettiva in una cornice di libertà sindacale garantita continuerà a produrre effetti per vie e con modalità consone alle radicali trasformazioni subite dalla società e tuttavia capaci di sottrarla – nei limiti del possibile – all’egemonia culturale dominante. In tal caso, però, è indispensabile che il pensiero giuridico-politico si munisca fin d’ora delle antenne che gli permettono di presentire le minacce alla democrazia cui ha diritto il lavoratore in quanto cittadino.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.