Circa 150 accademici, prevalentemente economisti, hanno pubblicato su Domani una presa di posizione molto critica su queste scelte. Non solo, dicono, sono quasi assenti le donne e non ci sono personalità del Mezzogiorno, ma soprattutto l’orientamento teorico dei designati è univoco: appartengono tutti alla corrente di pensiero comunemente definita “neoliberista” (o quasi: Marco Percoco, dice chi lo conosce, non ha quell’orientamento). Gente che ha una vera e propria fede nel fatto che i mercati possano risolvere qualsiasi problema e che l’intervento dello Stato sia inutile e quasi sempre addirittura dannoso.
Chi scrive queste righe, che non sempre è politicamente corretto, avverte un po’ di fastidio quando si tirano in ballo questioni di genere e di appartenenza geografica in relazione a problemi di questo tipo. Un peso indubbio ce l’ha invece l’altra questione, quella dell’orientamento teorico.
La presa di posizione dei 150, come si diceva, ha provocato varie repliche polemiche. Scontata quella de Il Foglio, che è tra gli alfieri dell’area culturale che viene criticata. Sul Corriere della sera Antonio Polito esordisce in puro stile “lancio il sasso e nascondo la mano”, evocando nientemeno che l’intolleranza del fascismo giapponese per aggiungere subito dopo “Naturalmente non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di fare paragoni”… Ma forse il paragone voleva insinuarlo direttamente in salotto, visto che alla fine dell’articolo ci ritorna sopra. Poi si chiede se si faranno campagne contro l’assunzione di pacifisti al ministero della Difesa e di cacciatori a quello dell’ambiente, ma questa appare una preoccupazione inutile in un paese dove una legge garantirebbe l’interruzione di gravidanza ma è quasi inapplicabile perché i reparti ospedalieri sono strapieni di medici obiettori che si rifiutano di praticarla.
Suggeriamo ad Antonio di proporre la pacifista Emma Bonino – persona di indiscusse qualità – come prossimo Capo di stato maggiore della Difesa. Infine Polito ricorda come il primo a protestare contro quelle nomine sia stato Peppe Provenzano, vice segretario del Pd (definito in un altro articolo di Gianfranco Polillo, già consigliere economico del Popolo della libertà e sottosegretario nel governo Monti, “ultras della sinistra”). E che tra i firmatari c’è l’ex responsabile economico del Pd Emanuele Felice. Di qui la sua ipotesi “che l'episodio sia un ennesimo sintomo del disturbo di digestione del governo Draghi che affligge una parte cospicua del Pd e delle sue correnti esterne e interne”. E però molti dei 150 non solo non sono iscritti al Pd, ma non ne sono nemmeno elettori. Parecchi, più che “simpatizzanti”, potrebbero essere definiti “antipatizzanti”.
Su un altro livello l’economista Michele Salvati (anche lui su Il Foglio). Salvati esordisce affermando di ritenere che le crisi (quella del 2008 e quella del Covid) possano segnare la fine della fase neoliberista iniziata con Thatcher e Reagan e dare inizio a una nuova fase di “liberalismo inclusivo”, in qualche modo analoga a quella dei trent’anni post-bellici. Il governo Draghi, prosegue, ha il merito di aver fatto spostare partiti come la Lega e i 5S su posizioni meno populiste. “Ma non si tratta di un governo di liberalismo inclusivo, di sinistra liberale, come a me piacerebbe. E' un governo di transizione”, uno dei governi tecnici ai quali i partiti affidano il compito di varare le riforme indispensabili che non sono stati capaci di fare.
Stupisce un po’ che uno studioso autorevole come Salvati trascuri il fatto che questo “governo di transizione” stia prendendo decisioni che condizioneranno pesantemente l’evoluzione economica e sociale italiana ben oltre la sua durata. E che lo definisca un governo “tecnico” subito dopo aver scritto che “non si tratta di un governo di liberalismo inclusivo”. Siamo ancora alla favoletta che possa esistere una “tecnica” senza colore politico? Se non è liberale di sinistra, e potendo ragionevolmente escludere che si possa definire “socialdemocratico”, allora tecnico coincide con liberale di destra, cioè neoliberista: ci sono altre possibilità?
Che quest’area avrebbe contato molto si era capito fin dal primo discorso di Draghi al Senato, da cui era emerso chiaramente che il suo antico sodale Francesco Giavazzi avrebbe avuto un ruolo di rilievo. Uno dei ministeri più importanti per la gestione del Pnrr è stato affidato a Vittorio Colao (che è stato tra l’altro amministratore delegato di Rcs, l’editore del Corriere di cui Giavazzi è un commentatore di punta). Colao è stato anche a capo della task force istituita dal governo Conte 2 per preparare un piano di rilancio del paese. In quel piano la parte del leone la facevano condoni fiscali e sconti e bonus alle imprese: un esperto di scienza delle finanze che si era cimentato a contarli ha detto di aver superato i 40. Poi a capo del dipartimento di cui oggi si contestano le recenti nomine è stato messo Marco Leonardi. Leonardi è stato uno degli economisti di punta del governo Renzi e ha contribuito a provvedimenti come il Jobs act, gli 80 euro e la distribuzione dei bonus, una politica per cui si potrebbe coniare la definizione di una nuova sottospecie del neoliberismo: “confusional-populista”.
Un’altra nomina in questo filone è stata quella di Serena Sileoni, giovane costituzionalista inserita fra i tre esperti che devono occuparsi delle emergenze economiche e sociali provocate dalla pandemia. Sileoni è vice presidente dell’Istituto Bruno Leoni, quanto di più neoliberista sia dato di trovare in Italia: quello sì che merita la definizione di “ultras”, non il povero Provenzano che è un socialdemocratico moderato ed europeista. E del Leoni fa parte anche Carlo Stagnaro, una delle nomine contestate oggi.
Ma Draghi è così ultraliberista? Come impostazione macroeconomica non sembra. Ha più volte sostenuto l’uso della politica fiscale, cosa che ai neolib è invisa, e sembra considerare il debito pubblico uno tra i problemi, ma non quello di cui preoccuparsi prima di tutto e in assoluto. E’ però neolib sulle questioni del lavoro, fautore di quella flessibilità spinta che molti mettono in discussione. E probabilmente lo è anche rispetto ai rapporti tra settore pubblico e privato, cosa che investe una vasta serie di problematiche, dalla sanità ai servizi pubblici.
C’è però da dire che Draghi è soprattutto un pragmatico. L’esperienza del passato ha fatto capire che le sue decisioni, più che da un preciso orientamento ideologico, sono guidate da due fattori: l’attenzione ai rapporti di forza e i progetti per il suo futuro. Non serve tanto di capire se l’una cosa pesi più dell’altra, quanto piuttosto come si combinino. Per questo sarebbe importante essere nella sua testa per conoscere il suo prossimo obiettivo. Gli piacerebbe essere il prossimo presidente della Commissione europea, come sostengono alcuni? Ma in questa fase storica quella non è una posizione di gran potere, certo nemmeno paragonabile al suo precedente ruolo di presidente della Bce.
E’ anche vero che a volte il potere che può essere esercitato da un certo ruolo dipende anche dalla personalità
di chi lo ricopre. E, con tutto il rispetto per Ursula von der Leyen, che sta svolgendo il suo ruolo senza far rimpiangere affatto i suoi due predecessori, sedendo su quella poltrona Draghi avrebbe un peso ben maggiore. Oppure ha in mente di accettare la candidatura al Quirinale, che le forze politiche – se non tutte quasi – sembrano decise ad offrirgli? Nei due casi quello che cambia è la prospettiva per l’Italia. Se l’aspirazione di Draghi è per una posizione a livello internazionale (che sia la Commissione o altro) quello che conta è il consenso dei paesi leader, e non solo quelli che si incontrano a Bruxelles, perché nel dopo-Trump l’alleato americano si è riavvicinato all’Europa, ma dall’Europa pretende appoggio. In questo scenario, Giavazzi e i suoi liberisti facciano dell’Italia un po’ quello che vogliono, basta che gestiscano i problemi più grossi in modi che siano apprezzati all’estero, e pazienza se per il nostro paese non saranno le soluzioni migliori.
Se invece l’obiettivo dovesse essere il Quirinale la cosa cambia, perché avrebbe bisogno dei voti di questo Parlamento, dove potrebbe essere determinante quell’area sfilacciata dei 5S e dei suoi ex. Non è detto, perché ancora non si capisce che succederà al Movimento, che allo stato attuale appare vicino al definitivo suicidio politico. Se però riuscisse – miracolosamente – a ritrovare una guida e una direzione il suo quasi un terzo di parlamentari potrebbe contare. E i 5S forse non saranno né di destra né di sinistra, come molti di loro continuano ad affermare, ma di certo non sono neoliberisti: non lo sono sul lavoro, né sul ruolo dello Stato, né sulla questione dei servizi pubblici. E allora i Giavazzi-boys andrebbero tenuti a freno, quantomeno calmando i bollenti spiriti su flessibilità e presenza dei privati nel servizi. Cose che comunque, visti i tempi stretti che ci separano dalle elezioni presidenziali, potrebbero essere lasciate al prossimo governo.
A chi testardamente ritiene che il concetto di “sinistra” non sia un relitto del passato, e persino a chi è un “liberale inclusivo” alla Salvati, la seconda ipotesi dovrebbe sembrare il male minore. Certo, poi ci vorrebbero forze politiche che fossero veramente alternative ai neolib e riuscissero a condizionare in quel senso la politica dei prossimi anni. Ma a ogni giorno la sua pena e per il momento ne abbiamo più che abbastanza.