Le Disavventure dell'Eurozona
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I principi ultraliberisti che regolano l’eurozona escludono l’intervento pubblico diretto. Il risultato è un decennio caratterizzato dalla minore crescita e dal più alto livello di disoccupazione del mondo sviluppato. Ciò che maggiormente ci colpisce della pandemia del coronavirus è che conosciamo le conseguenze della malattia in molti, troppi casi irreparabili, ma non ne conosciamo il rimedio. La scienza medica ha bisogno di tempo. Il coronavirus c’impone in altri termini una fase più o meno lunga d’incertezza. Non possiamo dire altrettanto delle sue conseguenze economiche. Conseguenze devastanti dal punto di vista sociale. Vi è un consenso sul fatto che si tratti della più grave crisi economica del dopo guerra. Il crollo dell’economia, la disoccupazione, il disagio sociale non si sono mai manifestati con altrettanta rapidità e ampiezza. 1. La pandemia ha investito l’intero pianeta e non ha risparmiato i paesi abituati a una condizione di benessere. La reazione dei governi è stata tuttavia diversa. Sono indicativi i casi degli Stati Uniti e del Giappone. Negli Stati Uniti, Trump aveva inizialmente deliberato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia un intervento di mille miliardi di dollari, un intervento manifestamente inadeguato. Il partito democratico ha imposto un investimento di risorse prossimo a 3000 miliardi di dollari. In sostanza, una mobilitazione di risorse pari a poco meno del 15 per cento del reddito nazionale. Per avere un termine di confronto, nel corso della crisi del 2008-2009, Paulson, ministro del tesoro di Bush, e poi Barack Obama, eletto alla presidenza, misero in campo 1500 miliardi per il salvataggio del sistema bancario e la ripresa dell’economia. Ancora più significativo e stupefacente è l’intervento del governo giapponese che, avendo stanziato inizialmente risorse equivalenti a mille miliardi di dollari, nelle settimane successive le ha aumentate fino a un ammontare equivalente a 1700 miliardi – una dimensione equivalente a circa il 30 per cento del reddito nazionale giapponese. Il confronto di queste cifre con gli interventi in atto nell’eurozona è sconcertante. La Commissione europea ha con grande clamore messo in conto 750 miliardi da distribuire nei ventisette paesi dell’Unione europea in parte come elargizioni, in parte come prestiti. Si può discutere nel merito e lo faremo più avanti. Ma per ora è interessante notare che si tratta di circa la metà dell’intervento giapponese per una popolazione circa quattro volte maggiore. Il quadro cambia profilo se guardiamo invece alla Germania, che ha pianificato oltre mille miliardi come garanzia per i prestiti e a sostegno dell’economia. Poi il governo ha fatto una scelta inconsueta per la Germania consistente in un impegno diretto di 130 miliardi a carico del bilancio a sostegno del reddito delle famiglie e degli investimenti pubblici. Significativa, fra le altre, la scelta di ridurre le diverse aliquote dell’Iva, abbassando la più alta dal 19 al 16 per cento – per un confronto, in Italia è pari al 22 per cento - per il secondo semestre dell’anno in corso. Altre misure riguardano il reddito delle famiglie, come un assegno di 300 euro per ogni figlio. Il socialdemocratico Olaf Scholz, vicecancelliere e ministro delle finanze, ha tenuto a sottolineare che si tratta del più vasto intervento pubblico dai tempi del dopoguerra. 2. Quipossiamo riprendere il confronto con l’intervento previsto dalle autorità europee. All’Italia e alla Spagna – i due paesi dell’eurozona più colpiti dalla pandemia - sono assegnati nell’insieme circa 300 miliardi, comprendendo sovvenzioni e prestiti. Ma in questo caso più che l’ammontare contano le condizioni previste dalla Commissione europea. L’erogazione dei fondi non potrà essere in campo se non nel corso del 2021 dopo l’approvazione dei ventisette paesi dell’Unione. E’ come rinviare il sostegno economico necessario nel contrasto alle conseguenze dell’epidemia a quando questa ha già prodotto conseguenze sociali devastanti e per molti versi irrecuperabili. Ma non è solo una questione di tempi, pur decisiva. L’impiego delle risorse sotto forme di sovvenzioni e, in misura prevalente, di prestiti a circa 180 miliardi (ma secondo i calcoli dell’istituto di Cottarelli, circa 150 miliardi) è condizionato agli obiettivi determinati da Bruxelles. Vale a dire che i fondi devono essere destinati, sotto il controllo della Commissione nel corso di quattro anni a due specifici settori: l’ambiente e le nuove tecnologie. Nulla che riguardi oggi i devastanti effetti economici e sociali della pandemia. Quali effetti? Secondo in calcoli della BCE la crisi comporta una caduta media del reddito nazionale nell’eurozona di oltre l’8 per cento – una caduta che in Italia, secondo le previsioni del governatore della Banca d’Italia, Visco, può estendersi fino al 13 per cento nel corso del 2020. Con la conseguenza, secondo la Commissione europea, di un aumento della disoccupazione di oltre un milione di unità. Ciò che, sia detto per inciso, comporta nelle regioni più fragili del Mezzogiorno una disoccupazione di un livello maggiore di quello sperimentato in Grecia nei momenti peggiori della crisi dopo il 2010. E’ in questo scenario che non ha precedenti che le istituzioni europee propongono un aiuto finanziario con i limiti che abbiamo visto, nel corso del prossimo anno, quando la crisi derivante dalla pandemia avrà già prodotto effetti disastrosi, per molti versi irreparabili, a carico di milioni di famiglie. Ma la classe dirigente e la grande stampa al suo servizio sembrano non accorgersene o, verosimilmente, fingono di non accorgersene, riservando un plauso alla tecnocrazia europea. 3. Probabilmente consapevole dell’inefficacia dell’intervento della Commissione europea rispetto agli effetti della pandemia, abbiamo visto deliberare da parte della BCE l’aggiunta di 600 miliardi ai 750 già disponibili per interventi mirati a contrastare la crisi economica in corso. Christine Lagarde si è mostrata orgogliosa di una decisione che scavalca gli ammonimenti della Corte costituzionale tedesca tendente ad arginare l’attività della BCE, mettendone in discussione l’indipendenza. Ma nel caso in esame la decisione della BCE non viola le regole invocate dalla Corte costituzione tedesca, trattandosi di fondi destinati al settore bancario privato, non di aiuti destinati agli stati membri. Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, un mastino rigorosamente vigile nei confronti della BCE ai tempi di Draghi, non solo ha pienamente giustificato la decisione della Banca centrale, ma si è anche, sorprendentemente, dichiarato favorevole a un impegno finanziario maggiore. Al di là delle controversie istituzionali, quali possono essere gli effetti dell’intervento della BCE? Un passo indietro può essere illuminante. Mario Draghi, sia pure in ritardo rispetto all’incalzare della crisi in Europa, e rispetto alle scelte messe in campo in America da Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, sin dai primi annunci della crisi del 2008, nel 2015 inaugurò il quantitative easing di stampo europeo. Inizialmente, doveva durare all’incirca un anno. Ma Draghi lo prolungò ripetutamente, anche contro il parere della Bundesbank, mobilitando nell’insieme 2.200 miliardi destinati al sostegno economico dell’eurozona. L’effetto iniziale fu soddisfacente scongiurando una crisi dell’euro. Ma, dal punto di vista della crescita economica, il risultato fu, nel corso degli anni, del tutto deludente. Nel 2018-19, quando ancora il coronavirus non si era manifestato, l’economia dell’eurozona manifestò preoccupanti segni di cedimento. E l’aspetto più sorprendente fu che non solo l’Italia ma anche la Germania subì un nuovo rallentamento della crescita fino a registrare in alcuni trimestri un’aperta recessione. Era la prova inconfutabile dei limiti del quantitative easing che pure Draghi, in contrasto con la Bundesbank, aveva prolungato per un periodo che travalicava il suo mandato, nella speranza di risollevare le sorti dell’eurozona, diventata l’area a più bassa crescita e più alta disoccupazione del mondo sviluppato. Riuscirà la Lagarde a compiere il miracolo che Mario Draghi non riuscì a mettere a segno? Non c’è ragione per pensarlo. Il problema della recessione non è l a mancanza di risorse monetarie. Il punto è che il cavallo non beve. Gli investimenti privati si dileguano non per la mancanza di risorse finanziarie ma per l’inaridimento dei consumi che si riflettono in un sostanziale clima di deflazione con interessi negativi corrisposti dalla BCE sui depositi bancari. Significa questo che le risorse messe a disposizione dalla Banca centrale sono necessariamente sterili e prive di possibili effetti sull’economia reale? Evidentemente non è così, come dimostrano i casi sui quali ci siamo soffermati, dagli Stati Uniti al Giappone, e alla stessa Germania. Il punto discriminante è che la BCE non può fornire, se non entrano limiti ridotti e condizionati, risorse agli Stati membri dell’eurozona. Vale a dire: non può fornire crediti agli organi sovrani che possono rilanciare gli investimenti pubblici sia in forme dirette, sia in combinazione con gli investimenti privati, nell'ambito di una politica mirata alla ripresa della crescita e dell’occupazione. Una pratica nella quale non c’è nulla di nuovo da quasi un secolo dopo la catastrofe economica e sociale della Grande Depressione dei primi anni Trenta. Non c’è nemmeno bisogno di ripercorrere esperienze molto lontane. Basta tornare all’esperienza della crisi del 2008-09 in America, affrontata, secondo molti autorevoli critici, con strumenti insufficienti ma, tuttavia, in grado di avviare una ripresa dell’economia durata dieci anni, la più lunga della storia americana, segnata dal più basso tasso di disoccupazione dell’ultimo mezzo secolo. 4. Gli investimenti pubblici in una straordinaria quantità di campi, sia diretti, sia come stimolo di quelli privati, fanno parte di un’esperienza comune: dai ponti e le strade dissestate, alle periferie delle grandi città, ai sistemi idrici (il maggiore intervento dl New Deal di Roosevelt fu la TVA, la regolazione del corso delle acque nella Tennessee Valley).Per non citare il sostegno all’insieme delle opere pubbliche, anche minori, che possono coinvolgere e rilanciare l’attività delle piccole e medie imprese che rappresentano la maggiore fonte di occupazione. Il debito pubblico aumenta, come aumenterebbe quello delle imprese private se decidessero di investire. Ma il debito pubblico si misura come quota del reddito nazionale. E a misura che il reddito nazionale cresce, il debito come quota prima si stabilizza, poi comincia a ridursi. L’obiettivo è il contrasto della crisi e la ripresa della crescita. Lo Stato non ha difficoltà ad approvvigionarsi sul mercato dei capitali in un quadro come quello italiano nel quale si calcola un risparmio privato concentrato nelle banche con interessi bassi o azzerati di oltre 1500 miliardi di euro. Nulla di nuovo rispetto all’esperienza maturata in tutti i paesi che fronteggiano una grave crisi. Ma i principi ultraliberisti che regolano l’eurozona, basati sull’esclusività del ruolo dei mercati e della libera concorrenza, escludono categoricamente l’intervento pubblico diretto, così come gli aiuti di Stato a sostegno degli investimenti privati. Ma le regole fallimentari dell’eurozona, il cui risultato è un decennio caratterizzato dalla minore crescita e dal più alto livello di disoccupazione media del mondo sviluppato, lo impediscono. O, per essere più precisi, gli Stati membri si adeguano a questa poltica che privilegia le classi dei detentori dei capitali che operano sui mercati finanziari sovranazionali a danno degli strati più deboli della popolazione. Il governo può ovviamente rovesciare questa situazione. Lo Stato s’indebita, come s’indebitano le imprese private quando attuano gli investimenti necessari alla crescita. Poiché il debito è una quota del reddito nazionale, tenderà ovviamente ad aumentare, per ridursi via via che il reddito nazionale tornerà ad aumentare. In Giappone i nuovi investimenti pubblici porteranno il debito oltre il 250 per cento del reddito nazionale. Ma si ridurrà il rapporto alla ripresa della crescita. In Argentina, il debito calcolato sul PIL è più basso, ma il paese è nuovamente sull’orlo della bancarotta perché l’economia è in recessione. La crisi pandemica del coronavirus comporta enormi problemi economici sociali. Ma i governi in una normale democrazia soni nominati non solo per la gestione ordinaria ma anche, e soprattutto, per intervenire sulle situazioni di crisi e provvedere a porvi riparo. Abbiamo visto che questo succede normalmente, indipendentemente dal loro colore. Se la Commissione europea si oppone e minaccia sanzioni ricordiamo che l’Italia non è la Grecia, ma la terza economia dell’Unione europea. Si tratta di minacce inconsistenti. Il problema non è a Bruxelles ma a Roma. In realtà, il governo contribuisce all’intensificazione della crisi con insopportabili conseguenze sociali per la subalternità della sua posizione nei confronti della tecnocrazia europea, portatrice di un’ideologia ultraliberista che non ammette un confronto democratico. Ma le responsabilità rimangono in capo al governo nazionale. La crisi attuale, come tutte le crisi passate, non è senza soluzioni. Il problema è nel rifiuto di adottarle, irresponsabilmente negandone la necessità e la possibilità. La domanda che dobbiamo porci è: fino a quando? Antonio Lettieri
Editor of Insight and President of CISS - Center for International Social Studies (Roma). He was National Secretary of CGIL; Member of ILO Governing Body and Advisor for European policy of Labour Minister. (a.lettieri@insightweb.it) Insight - Free thinking for global social progress
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