Lavoro-merce e salario legale

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Se ci fosse la legge su rappresentanza sindacale ed efficacia generale dei contratti collettivi, non sarebbe necessaria la legge sul salario minimo.

È necessario fissare il «salario minimo» con legge? Al momento certamente sì! Visto che Governo e Parlamento, su lavoro e Welfare , imboccano da anni «scorciatoie sterrate» anziché «strade-maestre». Rese impercorribili e accidentate dall’impreparazione, miopia e scarsa coscienza politica. Ora non c’è né tempo né voglia di fronteggiare l’abbassamento dei livelli salariali con riforme strutturali, come il sostegno di rappresentanza e contrattazione sindacale.

Fare una legge sul «salario minimo» significa ripiegare su un tampone provvisorio, reso necessario e urgente dalla crisi economica, energetica e dall’inflazione. Occorre adesso evitare: l’ulteriore impoverimento del lavoro; l’abbassamento di domanda interna e consumi; la rabbia sociale. Tutte cose nell’interesse anche degl’imprenditori. C’è comunque la lungimiranza del Costituente, che all’art. 36 della Carta dispone: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Nessun altro diritto in Costituzione ha un contenuto così dettagliato.

Si può dire che in Italia esiste una sorta di «salario minimo costituzionale»: se ne fissano precisamente i criteri di determinazione. Pure la recente «raccomandazione» della Commissione Europea — non una «direttiva»: tocca ai paesi decidere modalità adatte all’obiettivo — garantisce meno della Costituzione. Difatti, già dagl’anni ’50, i giudici applicano quest’art. 36 per adeguare le retribuzioni di lavoratori sottopagati utilizzando, come parametro, la retribuzione fissata dai contratti collettivi non applicati spontaneamente dai datori di lavoro.

Il Costituente rinvia la fissazione del «prezzo minimo del lavoro» all’autonoma contrattazione collettiva tra contrapposte associazioni di categoria. Sicché, ponendosi dall’angolo visivo della responsabilità politico-legislativa, risalta l’inadempienza del legislatore nell’attuazione del dettato costituzionale dell’art. 39 ove si prevede l’efficacia dei contratti collettivi nazionali stipulati unitariamente dai sindacati più rappresentativi e vincolanti erga omnes , cioè per tutti i datori e lavoratori d’una determinata categoria.

In realtà, se ci fosse la legge su rappresentanza sindacale ed efficacia generale dei contratti collettivi, non sarebbe necessaria la legge sul salario minimo. La quale, sia chiaro, risolverà solo in piccola parte il problema dei bassi salari, perché il minimo salariale cambia concretamente secondo la categoria e l’azienda, oltre che secondo qualifiche e mansioni dei dipendenti. Se viene stabilito, con legge generale e astratta, un salario minimo (poniamo 9-10 euro all’ora) uguale per tutti, il risultato sarà la diseguaglianza tra lavoratori di settori, categorie e aziende diverse.

Forse il discorso è molto tecnico, ma la serietà decisionale d’un Parlamento — e direi di singoli parlamentari — non esige almeno un po’ di studio e preventiva preparazione tecnica? Certo ora i partiti — senza prospettive ideali e forza politica e in perenne campagna elettorale — non pensano ad altro che ad attrarre voti con misure d’accatto (i famosi 80 euro o sostegni sociali occasionali, tipo bonus per bollette o sussidi per i figli).

Non pensano invece di fornire allo Stato gli attrezzi necessari alla gestione di sistemi ordinati delle relazioni di lavoro, d’assistenza sociale e di rigorosi controlli incrociati. Lo stesso «reddito di cittadinanza» — ripetiamo — è misura utile di assistenza sociale, incentrata però sull’ambigua illusione di legare sussidio e lavoro. Due aspetti diversi della povertà diffusa che vanno tenuti distinti.

Al riguardo il Presidente campano Vincenzo De Luca ha proposto l’altro ieri al Governo un provvedimento: i lavoratori potrebbero conservare il reddito di cittadinanza con l’aggiunta però d’un incentivo, a carico dei datori di lavoro, di 500 euro per evitare che preferiscano il reddito al lavoro. E con la previsione che chi rifiuta perde il reddito. Anzi, la Regione potrebbe farsi carico pure del trasporto gratuito per lo spostamento dei lavoratori. Proposta interessante per fronteggiare, nell’immediato, l’alta domanda delle imprese e la scarsa offerta dei lavoratori, specie stagionali (in agricoltura, turismo ecc.).

Non sfugge però all’ambiguità di confondere assistenza e lavoro. Senza dire che in pratica finisce coll’essere un indiretto sussidio alle imprese. Il salario dei lavoratori, in sostanza, sarebbe in parte a carico della collettività (il reddito di cittadinanza) e in parte (forse minore) di chi utilizza il lavoro. Viene naturale, a questo punto, ricordare che il problema cruciale dell’economia capitalistica affonda le radici nel conflitto immanente sulla distribuzione degl’utili dell’attività produttiva tra profitto e salario: come e quanto remunerare equamente il lavoro umano da parte di chi ne utilizza le energie psicofisiche nel proprio interesse.

Si sa che, nella logica neo-liberista, il lavoro è una merce come le altre, soggetta alle leggi del libero mercato. Si può pure essere d’accordo, a patto d’abbracciarne l’idea fino in fondo: per la legge di mercato, quando c’è molta domanda e poca offerta — come nel caso dei lavori stagionali — il prezzo sale. Significa cioè che le imprese, anziché lamentarsi di non trovare personale, devono promettere salari più alti ai lavoratori: che peraltro, in questi settori, spesso lavorano al limite dello sfruttamento. Il salario alto attira eccome. Altro che salario minimo legale o reddito di cittadinanza!

(Da  "Corriere della Sera - Corriere del Mezzogiorno)")

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.