Lavoro - leggi da adguare

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La propaganda governativa enfatizza l’aumento dell’occupazione ma ignora la realtà del lavoro. Al Mezzogiorno il l governo  regala l’autonomia regionale differenziata che divide e devasta l’intera nazione.

L’azione del Governo Meloni è davvero rivolta, come dichiarato, a persone disagiate e ai lavoratori? Può darsi, ma gl’interessati non se ne sono accorti. I disagiati perdono alcuni sostegni di welfare: insufficiente l’assegno d’inclusione; sanità allo sbando; stenti per i disabili. Soffrono pure i lavoratori: niente “salario minimo legale” millantando l’importanza di sindacati e contrattazione, verso cui però c’è totale indifferenza.

La propaganda governativa enfatizza l’aumento dell’occupazione ma ignora la realtà del lavoro. Che esige il benessere di chi lavora e la sicurezza di non morire sul lavoro. Sul Mezzogiorno meglio tacere: alta disoccupazione; smantellamento di aziende; aumento di cassintegrati. Intanto il Governo ci regala l’autonomia regionale differenziata che divide e devasta l’intera Nazione. Ma davvero l’occupazione aumenta? Il Governo l’afferma genericamente senza specificarne tipi di lavoro e settori produttivi. Inserisce nell’aumento lavoratori d’ogni sorta: temporanei; occasionali; a termine; a part-time involontario ecc.

Cioè quanti oggi lavorano, domani chissà. Per i “contratti stabili” poi non precisa settori e aree geografiche. E’ strano strombazzare l’aumento dell’occupazione mentre s’agevolano appalti e subappalti e si degrada la condizione degli occupati (financo del ceto medio). Troppi vivono affannosamente con salari talmente bassi da ritrovarsi poveri.

Duole che la politica del Governo sul lavoro non faccia alcunché per mettere a riparo l’ordinamento dal rischio di diventare l’abito d’Arlecchino a discapito dei lavoratori. Occorrerebbe invece risistemarne organicamente misure sparse nei provvedimenti più disparati, almeno dell’ultimo trentennio. Influenzati dall’andamento fluttuante dei fattori che incidono sulle leggi: congiunture economico-sociali e mutamenti organizzativi aziendali. Norme che – spesso frutto della cultura del neoliberismo – disordinatamente s’innestano sui fondamenti dell’ordinamento: Costituzione; Codice civile; Statuto dei lavoratori.  

Certo i mutamenti organizzativi dipendono soprattutto dall’enorme trasformazione delle tecnologie informatiche, della robotica e della digitalizzazione. Che richiedono nuove competenze, irreperibili sul relativo mercato del lavoro. Difatti gl’imprenditori lamentano di non trovare profili professionali adatti all’innovazione. Anche perché, specie nel Mezzogiorno, i giovani di talento, provvisti delle nuove sofisticate competenze, scappano dal Sud verso il Nord o all’estero. Dove vivono e lavorano meglio e guadagnano di più. Difficile, per i pochi che restano, specializzarsi dall’oggi al domani col sistema di formazione professionale: afflitto in Italia da ritardi e carenze.

Logicamente la risistemazione normativa del lavoro richiede eccezionale impegno. Pregiudiziale è l’individuazione d’un metodo; poi contenuti e tempi. Poiché ogni riforma giuridica nasce dallo studio della realtà sociale, occorre anzitutto chiarezza d’obiettivi. Che a sua volta presuppone la visione complessiva della crescita del Paese, cui rapportare la produttività del lavoro. Richiede cioè un piano di strategie industriali e occupazionali di medio-lungo termine: nel quale convergano – valorizzando tecnologie avanzate – specifiche misure sul lavoro e misure generali di sicurezza sociale (sanità e scuola pubbliche; assistenza sociale; trasporti; ricerca ecc.).

Si tratta in pratica di programmare investimenti pubblici e privati e allestire, nello stesso tempo, progetti di formazione delle relative competenze. “Vasto programma”, si direbbe. Tanto vasto da non poter essere inventato e gestito dal solo Governo – nemmeno nel fantasioso regime di “premierato” – e da esigere invece un confronto serrato e leale tra Governo e rappresentanze d’imprenditori e lavoratori. Mai come in quest’epoca è indispensabile un grande “Patto sociale”: da non chiamare “concertazione” – per non irritare la Presidente Meloni – ma semplicemente “partecipazione”. Termine preferito dalla Cisl, la Confederazione dei lavoratori più moderata e, rispetto a Cgil e Uil, meno rigida col Governo. Il quale però stenta a capire che, senza lavoratori ben trattati e fortemente motivati, il Paese non progredisce. Figuriamoci il Mezzogiorno.

Insomma, se l’Italia vuole arrestare il pericoloso declino industriale, invertendone la rotta, occorre una legislazione del lavoro all’altezza dei tempi. Non c’è scelta: senza un disegno ambizioso da grande paese industriale, che apprezzi l’apporto dei lavoratori, la crescita sarà marginale, modesta, diseguale, comunque contraria alla Costituzione “fondata sul lavoro”. Soltanto un’articolata intesa tra Governo e parti sociali consente l’equilibrato contemperamento tra produttività dell’impresa e valorizzazione del lavoro, sicura garanzia di pace sociale.

Pur riconoscendo l’importanza d’ogni tipo di lavoro, è difficile pensare all’aumento dell’occupazione scommettendo soltanto su bassa professionalità, bassi salari, precarietà nei settori terziari (turismo; ristorazione; servizi privati di domestici, commessi e badanti ecc.). Ma se questo fosse l’orientamento del Governo, Giorgia Meloni dovrebbe dirlo apertamente scontando il paradosso che nella nuova era industriale ci s’accontenti. Almeno però dovrebbe risparmiarci il trionfalismo della vittoria di Pirro. 
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Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, 26 maggio 2024,      

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.