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La divergenza fra politiche macroeconomiche e istituzioni del mercato del lavoro.
Nella loro violenta campagna contro il presidente Barack Obama, i repubblicani non hanno presentato una politica alternativa per affrontare la crisi economica. Nonostante questo, hanno conseguito un dilagante successo elettorale. In poco più di due anni il panorama politico americano è radicalmente mutato. Colpito dalla peggiore crisi economica dagli anni Trenta, il mondo occidentale aveva sperato nell’avvento del nuovo presidente degli Stati Uniti. Perché un così radicale capovolgimento? In che cosa ha sbagliato Obama?
Una volta alla Casa Bianca, Obama aveva messo mano a due importanti operazioni politiche. Da un lato, ha lanciato un pacchetto di stimolo economico, comprendenti investimenti e tagli fiscali per i ceti medi, per circa 800 miliardi di dollari. Dall’alto, ha avviato la riforma del sistema sanitario, per eliminare la vergogna di quasi cinquanta milioni di cittadini senza assicurazione sanitaria nel paese più ricco del pianeta.
Poteva Obama fare di più per promuovere la ripresa economica e combattere la crescente ondata di disoccupazione? Non vi è dubbio che lo stimolo fiscale doveva essere significativamente maggiore, come molti economisti keynesiani e democratici progressisti hanno sostenuto. Così come, mantenendo al centro della riforma sanitaria l’ "opzione pubblica", la riforma sanitaria avrebbe potuto essere più coerente ed efficace nel ridurre il peso delle compagnie di assicurazione che spingono i costi complessivi della sanità a livelli incomparabili.
Una politica più audace sarebbe stata certamente possibile su questi due temi. Tuttavia, i repubblicani, pur impostando la campagna elettorale sul tema della disoccupazione e contro la riforma sanitaria, non hanno presentato proposte alternative né sul tema dell’occupazione, né su quello della sanità, salvo una politica di bilancio più restrittiva per la prima e l’accusa di “socialismo” per la seconda. Ma, nonostante l’inconsistenza delle loro posizioni, hanno trionfato.
Torna perciò la domanda: cosa non ha funzionato sul versante dell'amministrazione Obama? La politica monetaria ha portato i tassi di interesse vicini allo zero, e un massiccio intervento è stato messo in campo dalla Fed per salvare le banche, mentre un nuovo pacchetto di 600 miliardi di dollari è stata annunciato da Bernanke destinato a "monetizzare" una parte del debito pubblico. Per quanto riguarda la spesa pubblica, il pacchetto deciso dall’amministrazione destinato alla ripresa economica e al sostegno dell’occupazione, per quanto considerato insufficiente, è stato il più consistente fra quelli messi in campo tra i paesi OCSE.
Perché, nonostante l’ampiezza di queste misure monetarie e fiscali, la disoccupazione degli Stati Uniti è raddoppiata tra il 2007 e il 2009, passando da sette a quasi quindici milioni di lavoratori, dal 4,6% al 10% della forza lavoro? La risposta dei conservatori è che una parte della nuova disoccupazione ha cause strutturali: il "mismatch", la non corrispondenza tra le competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori disoccupati. Il solito ricorrente, metafisico, argomento usato per rigettare la responsabilità della disoccupazione sull’inadeguatezza della forza lavoro.
Per trovare una risposta, dobbiamo guardare alle istituzioni del mercato del lavoro. La crescita drammatica della disoccupazione negli Stati Uniti non può essere vista solo come una conseguenza della crisi. La deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro si rivela un fattore essenziale del violento incremento della disoccupazione, che un’esclusiva terapia keynesiana, sulla base di rimedi monetaria e fiscale, non può da sola curare.
Facciamo un confronto con l'Unione europea. Fra il 2008 e il 2009 il calo cumulativo del PIL è stato del 4,2% nell'UE contro il 2,6% negli Stati Uniti. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione medio è aumentato tra il 2007 e il 2009 dell’ 1,7% nell'UE contro il 4,7 negli Stati Uniti.
I dati tedeschi sono ancora più significativi. Nel 2009, al vertice della crisi, il PIL è crollato di circa il 5%, quasi il doppio della cifra per gli Stati Uniti, ma la disoccupazione, tra il 2008 e il 2009, è aumentata in Germania quasi impercettibilmente dal 7,3% al 7,5%. E se guardiamo a tutto il periodo, l'OCSE calcola che in Germania, la disoccupazione è sorprendentemente scesa dall’ 8,4% (media 2007) al 6,8% nel terzo trimestre del 2010.
Questo risultato nettamente diverso non deriva da una politica espansiva nell’Unione europea o in Germania, ma da dalla diversità delle norme che regolano il mercato del lavoro. In Germania e in Europa, il mercato del lavoro offre diversi livelli di protezione ai lavoratori, mentre in America le imprese possono, in generale, assumere e licenziare liberamente. Le imprese hanno approfittato della crisi per eseguire licenziamenti di massa ben oltre la caduta dell’attività. Questo ha permesso una straordinaria crescita della produttività del lavoro del 3,8 per cento tra il 2007 e il 2009 negli Stati Uniti contro, nello stesso periodo, un calo del 1,3% in Germania.
In questo quadro non può sorprendere che i profitti le 500 società più importanti quotate in borsa, registrate da Standard & Poor, abbiano raggiunto, secondo Fortune, uno dei più alti livelli nel corso degli ultimi cinquant'anni. Nello stesso tempo, insieme con la massiccia crescita della disoccupazione è aumentata la povertà e, secondo il Wall Street Journal (4 novembre 2010) il 14% degli americani, 45 milioni di persone, dipendono per sopravvivere dai “food stamps”, gli aiuti alimentari previsti per i poveri.
Si deve mettere in conto che con la perdita del lavoro la tutela del reddito dei disoccupati è generalmente più elevata in Europa. Ad esempio, la spesa dello Stato per le indennità di di disoccupazione è pari all'1% del PIL negli Stati Uniti, mentre tocca in media l’1,4% nei paesi OCSE ed è quasi doppia (1,9%) in Germania, secondo le stime OCSE.
Negli ultimi decenni gli economisti neoliberisti hanno elogiato il modello americano di deregolamentazione del mercato del lavoro, mentre gli istituti di protezione del lavoro in Europa sono state considerati fonte di paralizzante rigidità e inefficienza. La crisi racconta una storia diversa. La liberalizzazione totale del mercato del lavoro statunitense ha portato conseguenze disastrose, mentre la molto criticata rigidità del lavoro in Europa ha limitato il tasso di disoccupazione e, da questo punto di vista, l'impatto sociale della crisi.
In questo quadro il ruolo dei sindacati è particolarmente rilevante. La partecipazione sindacale nell'Unione europea è fortemente diminuita nel corso degli ultimi due decenni, anche se ancora raggiunge livelli elevati - intorno al 60 per cento della forza lavoro - nei paesi nordici. Tuttavia, anche in presenza di un calo della rappresentanza sindacale, la negoziazione sindacale riguarda in generale la maggioranza della forza lavoro. In Germania, ad esempio, la sindacalizzazione è scesa negli ultimi due decenni intorno al 20% della forza lavoro, ma la contrattazione collettiva copre direttamente oltre il 50 per cento della forza lavoro e svolge una funzione di riferimento per i non sindacalizzati. Negli Stati Uniti il sindacato copre circa il 12% della forza lavoro e la copertura scende all’ 8% nel settore privato.
Paradossalmente, nell'Unione europea, le autorità monetarie e finanziarie considerano la regolamentazione del mercato del lavoro e la "generosità" del welfare, che fanno parte del modello sociale europeo, un male da combattere. L’asse Francoforte-Bruxelles, cioè, la Banca centrale europea e la Commissione europea, hanno imposto agli Stati membri, rigidi programmi di "austerità" , basati sui vincoli fiscali di Maastricht, che inevitabilmente rallentano, quando non paralizzano, la ripresa. E, al di là dell’obiettivo ufficialmente diretto all’ abbattimento dei deficit di bilancio, i piani di austerità impongono una più ampia deregolazione del mercato del lavoro e ulteriori tagli allo Stato sociale. Una politica che paradossalmente si muove in direzione di Herbert Hoover, il presidente americano che ancora nel 1932, a tre anni dall’inizio della grande crisi, e alla vigilia dell’avvento di Franklin Roosevelt, considerva il disavanzo pubblico come la maggiore minaccia.
Siamo così di fronte a due orientamenti molto diversi. Negli Stati Uniti la lotta per ridurre la disoccupazione attraverso una politica macroeconomica espansiva è stata in larga misura vanificata da istituzioni del lavoro fondate sui principi di una selvaggia deregolazione. Nell'Unione europea, dove la disoccupazione è stata contenuta, i piani di “austerità” puntano allo smantellamento dei paradigmi di regolazione e tutele che simbolicamente si riassumono nel “modello sociale europeo”.
In conclusione, le forze progressiste, per evitare la triste prospettiva di un prossimo decennio perduto, sono confrontati, sulle due sponde dell'Atlantico, con compiti diversi ma convergenti. Negli Stati Uniti, l'impegno dell’ amministrazione Obama per promuovere i necessari cambiamenti economici e sociali, respingendo la “via bassa” di un illusorio compromesso con l'opposizione repubblicana. In Europa, la capacità dei partiti di sinistra e dei sindacati di guidare il malcontento e la protesta di massa contro la rovinosa politica neo-conservatrice dell’asse Francoforte-Bruxelles