La sinistra ai piedi di Marchionne
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L'amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler ha adottato la linea del ricatto nei confronti dei lavoratori Fiat. La sinistra e i sindacati italiani si sono divisi, portando alla sconfitta i lavoratori nel referendum di metà gennaio. Vi è qualcosa di tristemente paradossale nel modo come Marchionne ha diviso il PD, oltre ai sindacati. Per Susanna Camusso (Segretario generale della CGIL), Marchionne ha rivelato un atteggiamento autoritario e antidemocratico, in altre parole, ricattatorio. Per una parte del PD si tratta, al contrario, di un richiamo alla realtà della globalizzazione e alla necessità di adeguarvi la strategia del sindacato. L’unica obiezione per questa posizione è l’esclusione della FIOM dalla rappresentanza dei lavoratori. Obiezione sacrosanta – sarebbe stupefacente il contrario – ma insufficiente. Questa è solo la punta dell’iceberg. Ma per le ambizioni di Marchionne si trattava di un’occasione imperdibile. La Chrysler era ceduta a titolo gratuito con una dotazione del 20 per cento delle azioni e la possibilità di acquisire prima il 35 per cento, e poi la maggioranza del pacchetto azionario (ora nelle mani del sindacato dell’auto), una volta ripagato il debito di oltre sette miliardi di dollari ai governi americano e canadese. Non è difficile comprendere come per Marchionne riuscire a rilanciare la “Terza grande” di Detroit, acquisendone il controllo è l’impresa della sua vita. E come la Fiat vi gioca un ruolo complementare e, per alcuni aspetti, residuale. Proviamo a riassumere alcuni dati. Nel 2010 la Chrysler ha prodotto all’incirca un milione di auto (e veicoli leggeri). A metà di questo decennio ne aveva prodotte più di due milioni. Marchionne si è fissato l’obiettivo di arrivare a 2.800.000, poco meno del triplo della produzione corrente, entro il 2014. Per gli analisti più scettici è un traguardo velleitario. Ma nello schema strategico di Marchionne è un obiettivo essenziale per raggiungere il traguardo di cinque milioni e mezzo/sei milioni di unità fissato per l’alleanza Fiat-Chrysler. Se i due terzi del piano produttivo sono affidati alla Chrysler e al ramo brasiliano della Fiat, all’Europa non può che spettare un ruolo di supporto con diverse variabili. La Polonia consoliderà la sua posizione con una produzione di 600.000 unità a Tychy. Il “progetto Serbia”, per il quale esiste un accordo col governo serbo che conferisce i due terzi della proprietà a Fiat e un terzo allo Stato, prevede a regime la produzione di 200.000 unità negli stabilimenti ristrutturati della vecchia Zastava. Altre 100.000 unità sono in produzione a Bursa in Turchia. Ciò che rimane del grande progetto “globale” Chrysler-Fiat (a partire dalle 600.000 unità attuali, ma l’Alfa Romeo dovrebbe passare alla Volkswagen) potrà essere distribuito fra gli stabilimenti italiani, a seconda delle circostanze e delle convenienze . Nel 2010 il gruppo Fiat avrà collocato sul mercato dell’Unione europea all’incirca un milione di auto, i due maggiori gruppi francesi tre milioni e i produttori tedeschi sei milioni. Dobbiamo questo scarto drammatico all’ingordigia dei sindacati italiani – in particolare, della Fiom – ignari dell’avvento della globalizzazione? Al rifiuto di adeguare i salari italiani a quelli polacchi e –perché no? – cinesi? Ma il “Sole 24 ore” (28 ottobre) onestamente ci ricorda che alla Volkswagen Il salario lordo di base degli operai della linea di montaggio è di 2.700 euro al mese e quello degli operai della manutenzione di 3.300-3.500 euro. E non si tratta solo di salario. I rappresentanti dei lavoratori occupano il 50 per cento dei seggi del Consiglio di sorveglianza (come in tutte le grandi imprese tedesche), dove si discute la strategia dell’impresa, gli investimenti e le garanzie dell’occupazione. Quando un’impresa sostituisce un diktat alla pratica di un normale negoziato e al sindacato che dissente è negata la cittadinanza in fabbrica, il problema non è la globalizzazione, ma l’americanizzazione delle relazioni industriali. Ma vi è qualcosa di più, qualcosa di tristemente grottesco. Tra la Germania, punta di diamante dell’industria europea e gli USA in piena crisi, una parte della sinistra e del sindacato sceglie il modello americano di Marchionne. Il modello della contrattazione aziendale che ha messo in ginocchio l’AFL-CIO, quello che fu il potente sindacato americano ridotto all’otto cento di iscritti nel settore privato. L’America dove, dopo Reagan e non ostante Barack Obama, chi sciopera può essere sostituito a tempo indeterminato dai crumiri. Dove, si può lavorare nello stesso posto di lavoro con la metà del salario. Maurizio Landini (Segretario generale della FIOM-CGIL): ha detto: provate voi a lavorare alla catena di montaggio prima di parlare di ritmi, cadenze, pause, turni. Una questione banalmente demagogica per chi ragiona secondo i grandi paradigmi della globalizzazione e della modernizzazione. Eppure questo è il mestiere del sindacato. In ogni caso, basterebbe chiedersi se Marchionne avrebbe potuto presentare il suo progetto di marginalizzazione, se non di definitiva distruzione, della Fiat e di smantellamento del sistema di relazioni industriali, a un normale governo di destra come quello tedesco o francese, o a un sindacato come l'IG Metall, senza essere sbeffeggiato e considerato un semplice provocatore, bizzarro e arrogante. In Italia assume, invece, le sembianze di un “modernizzatore” e di un riformatore lungamente atteso. |