La ruga dello statuto dei lavoratori
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Il male oscuro che affligge la democrazia sindacale in un paese in cui non si sa chi rappresenta chi e con quali responsabilità verso i rappresentati, chi è legittimato a sottoscrivere contratti collettivi e con quale efficacia. C’è chi dice che lo statuto li porta bene i suoi 45 anni. E c’è anche chi dice che li dimostra tutti. Ma io credo che ne reclami la rottamazione perché è prigioniero di un sillogismo. E’ partendo da questa preliminare riflessione che ritengo di poter sostenere che 45 anni non bastano per formulare un giudizio definitivo sullo statuto. Non bastano perché, come dirò, la linea di politica del diritto anticipata dallo statuto non ha avuto gli svolgimenti che meritava. Insomma, c’è un Nuovo Mondo che sta ancora aspettando il suo Colombo. Come dire: lo statuto sancisce la non-espropriabilità anche nel luogo di lavoro di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino. Per questo, lo statuto è la legge delle due cittadinanze. Del sindacato e, al tempo stesso, del lavoratore in quanto cittadino di uno Stato di diritto. Culturalmente preziosa e potenzialmente ricca di sviluppi, l’acquisizione è priva di antecedenti sul piano normativo. Infatti, non era mai successo che il diritto del lavoro legificato pretendesse di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino. “Nella prima modernità”, come ha scritto Ulrich Beck, “dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto piuttosto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore”. Anche (e forse soprattutto) per questo il lavoro dipendente è stato subito oggetto delle mire espansionistiche della mono-cultura gius-privatistica alla quale è familiare misurarsi con la regolazione consensuale dei rapporti di mercato. La stessa autonomia negoziale privato-collettiva, largamente influenzata da una concezione aziendal-economicistica del lavoro, ha interiorizzato l’idea che il lavoro ha potuto rompere un millenario silenzio a patto di non alzare troppo la voce. Anzi, la condivide a tal segno da interpretarla in maniera dogmatica. Il dogma è che la dimensione mercatistica dello stato occupazional-professionale acquisibile per contratto schiaccia la dimensione politico-istituzionale dello status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico. “Per molto tempo”, scrive infatti Vittorio Foa, “abbiamo visto nell’operaio solo un operaio da difendere nel suo rapporto col lavoro e da rappresentare nei suoi soli interessi materiali, e non abbiamo visto gli altri versanti della sua vita”. Per questo, osserva Foa, “non dovevamo stupirci quando non hanno più dato ascolto ai nostri discorsi”: erano discorsi compatibili e anzi solidali con una logica produttivistica che dà per scontato il sacrificio dello status di cittadinanza a vantaggio dello stato occupazional-professionale. Infatti, lo statuto imprime una violenta torsione all’evoluzione del diritto del lavoro. La vuole non più polarizzata sullo scambio contrattuale di utilità economiche. Non più dominata dall’esigenza di disciplinare i comportamenti del lavoratore dipendente in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato. La vuole più attenta ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore. Come dire che nel dopo-statuto avrebbe dovuto generalizzarsi la condivisione della certezza che ripensare il rapporto tra lavoro e cittadinanza è, come scriveva Massimo D’Antona, “una questione di ridefinizione strategica del diritto del lavoro”. Invece, non è andata così. Nient’altro che questa è la ragione di fondo per cui mi sembra saggio sospendere il giudizio sullo statuto. A mio avviso, esso racchiude una virtualità che è rimasta inespressa nella misura in cui ha spaventato l’impresa più di quanto non abbia sollecitato il sindacato. Una virtualità che conserva pressoché intatta la sua carica dirompente, ma è destinata a sparire via via che guadagna consensi la tesi dell’obsolescenza dell’opzione statutaria a scapito della tesi della sua irreversibilità. Finora, impresa e sindacato hanno rifiutato la sfida. Ciascuno a suo modo e per motivi distinti, ma convergenti. Fatto sta che all’avversione dell’impresa si è sommata la freddezza o il disinteresse o la scarsa convinzione o la diffidenza (o tutte queste cose insieme) del sindacato. Per questo, il dopo-statuto non ha conosciuto la generazione dei diritti del lavoratore dipendente più valorizzati da Bruno Trentin nella sua Città del lavoro: a cominciare dal “diritto di essere informato, consultato, abilitato ad esprimersi nella formazione delle decisioni che riguardano il suo lavoro”. Diritti funzionalmente polivalenti e strutturalmente multi-direzionali. Esigibili, perciò, nei confronti non solo dell’impresa, ma anche del sindacato perché entrambi i soggetti vestono i panni di un’autorità privata. Come tale infatti il sindacato è vissuto dai non iscritti, cui si applica il contratto collettivo benché non abbiano conferito alcun mandato con rappresentanza. Come autorità privata il sindacato si atteggia anche nel mondo diritto, ove è configurato a stregua di un soggetto che nei rappresentati vede dei destinatari delle decisioni che prende in qualità di un tutore piuttosto che di un rappresentante in senso proprio, perché anche per gli iscritti il contratto collettivo de facto o de iure generalmente vincolante è un ibridismo che mima la sostanza autoritaria della legge. E’ ancora del sindacato come contro-potere che si occupa ampiamente lo statuto e, allo scopo di attrezzarlo ad agire nell’impresa, obbliga quest’ultima a facilitarne il ruolo. Ciononostante, lo statuto omette di definire la posizione dei rappresentati di fronte al potere del rappresentante. Così, pur prevedendo l’attivazione in azienda di istituti di democrazia diretta come l’assemblea e il referendum, lo statuto non impone alle rappresentanze sindacali aziendali di usarli per verifiche di mandato. Può sembrare una stranezza, dato che lo stesso Giacomo Brodolini aveva annunciato: “il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica alla vita associativa e della formazione di canali democratici tra il sindacato e la base”. Viceversa, l’omissione è coerente con la finalità promozionale dello statuto. In effetti, un legislatore che si propone di sostenere il sindacato come lo ha formato l’esperienza storica, e dunque rispettandone pienamente l’autonomia, non può non astenersi dall’interferire su di esso, anche se animato dal proposito di democratizzarlo. Dal canto suo, un sindacato che predilige il “far da sé” non può accettare una disciplina eteronoma del modo di gestire il rapporto con gli iscritti e i non-iscritti. Pur non essendo priva di giustificazione, questa specie di auto-censura dello statuto è la ruga che ne rivela l’età. Lo statuto è invecchiato non tanto a causa della metamorfosi del lavoro quanto piuttosto a causa del mutamento antropologico-culturale che ha interessato la platea cui si rivolge il sindacato di oggi e di domani. Infatti, le istanze di auto-determinazione di fronte ad ogni potere, anche il più protettivo e benevolo, che percorrono l’universo giovanil-femminil-scolarizzato rendono palese l’inadeguatezza di una normativa che ha premiato un sistema sindacale tenuto insieme da poco più di spago e chiodi, fondato su vincoli di appartenenza identitaria, cresciuto al di fuori di una costituzione lontana dal raffigurarsi il sindacato come una creatura angelicata dotato di intrinseca democraticità. Anzi, proprio perché la nostra costituzione gli attribuisce la funzione di un legislatore privato l’Alta Corte, nel 1990, ne trarrà la conclusione che ai rapporti tra lavoratori e sindacato devono applicarsi “regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia”. Come dire che è costituzionalmente corretto dare per scontato che il livello di democraticità dell’esercizio del potere contrattuale collettivo dipende dall’intensità (continuità, trasparenza, incisività) della partecipazione al processo decisionale assicurata ai destinatari della contrattazione collettiva che, per lo più, sono estranei alla vita associativa del sindacato. Pertanto, solo gli agiografi possono negare il male oscuro che affligge la democrazia sindacale in un paese in cui non si sa chi rappresenta chi e con quali responsabilità verso i rappresentati, chi è legittimato a sottoscrivere contratti collettivi e con quale efficacia. Un paese in cui è motivo di contrasto tra sindacati la validazione consensuale delle decisioni che adottano in nome di intere collettività. Un paese in cui si è dovuto aspettare la performance del trittico confederale firmato il 14 gennaio 2014 per dare un minimo di efficienza normativa al principio secondo il quale i contratti nazionali saranno sottoscritti “previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice”; ma poi è il medesimo documento che sponsorizza il decisionismo dei vertici: i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale “se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu”. Sì, di strada ce n’è ancora tanta da fare. Umberto Romagnoli
Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight. |