La paralisi del giuslavorismo progressista

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La cultura giuslavoristica di sinistra sembra colpita da afasia, mentre quella di destra guadagna spazi.

Conosco molti giuristi che hanno sempre saputo, né hanno mai perduto di vista, che quello del lavoro è un diritto che dal lavoro ha preso convenzionalmente il nome, ma soltanto in parte anche le ragioni, e dunque è del lavoro non più di quanto sia contemporaneamente del capitale. Hanno sempre saputo, né hanno mai perduto di vista, che l’ambivalenza è una sua insopprimibile caratteristica strutturale nella misura in cui il diritto del lavoro è uno strumento di emancipazione ed insieme di repressione. Hanno sempre saputo, né hanno mai perduto di vista, che proprio per questo i compromessi via via raggiunti sono modificabili: la contesa rimane costantemente aperta, probabilmente non si esaurirà mai e l’ultimo compromesso sarà rinegoziato.

Gérard Lyon-Caen diceva che il diritto del lavoro “c’est Pénélope devenue juriste”. Pertanto, non può essere l’arretramento della tutela del lavoro che la cultura giuridica contemporanea dà in un certo senso per scontato ciò che la mette in forte disagio. Le cause sono diverse e si riallacciano all’autunno di una democrazia stanca. Così, è traumatizzante il fatto che, come si mette in giusta evidenza nell’odg deliberato nella recente assemblea nazionale della Fiom, “il governo in carica abbia deciso senza avere alcun mandato politico esplicito – perché eletto con una manovra di palazzo – e, in sede parlamentare, ricorrendo più volte al ricatto del voto di fiducia”. Pertanto, è comprensibile che la medesima Assemblea abbia impegnato la Fiom a consultare “le persone che non hanno mai potuto dire la loro né sono mai state ascoltate” per verificarne il consenso ad avviare iniziative referendarie per l’abrogazione delle innovazioni legislative meno tollerabili.

E tali sono senza dubbio quelle disseminate nei vari decreti attuativi assemblati sotto un anglicismo di dubbio gusto e ingannevole significato che è stato scelto come chaperon della legge delega dello scorso anno. Esse hanno lo scopo di proteggere l’aspettativa del datore di lavoro di poter contare su una manodopera non solo docile e ubbidiente, ma anche pronta a identificare il proprio interesse in quello dell’impresa.

Si dirà che è un’aspettativa di derivazione proprietaria e dunque rispecchia l’etica degli affari delle origini. Malgrado il suo primitivismo, però, non ha perduto la centralità che una compatta elaborazione giurisprudenziale di lungo periodo le ha assegnato nell’impianto del diritto del lavoro. E’ noto infatti che la giurisprudenza corporativa diede il meglio di sé fertilizzando il terreno, arato peraltro dalla giurisprudenza probivirale, nel quale affondano le proprie radici alcuni concetti-base ad elevato rendimento emotivo dei quali si sarebbe appropriato il codice civile del ’42: il lavoratore ha l’obbligo di collaborare con l’imprenditore, di non tradirne la fiducia e di essergli fedele. Nondimeno, l’aspettativa tutelata dal corrispondente nucleo normativo non solo non si è affievolita; si è acuminata.

Pochi anni fa, l’ha manifestata senza falsi pudori l’amministratore delegato di una multinazionale in una lettera indirizzata agli occupati negli stabilimenti italiani in occasione di una vicenda aziendale destinata a sconvolgere il quadro delle relazioni industriali. Nell’informarli che, a causa della spietatezza della concorrenza internazionale, il loro datore di lavoro è in guerra col resto del mondo, li esortava a considerarsi nel medesimo stato d’eccezione dei soldati in trincea e li avvertiva che, proprio per questo, non avrebbe potuto tollerarne atteggiamenti critici né a fortiori atti di indisciplina.

Accertato che l’aspettativa comune alla generalità degli imprenditori è senza tempo, sarebbe una deplorevole reticenza limitarsi ad osservare che è figlia di un sogno proibito nell’accezione accolta dal linguaggio corrente. In effetti, non è l’innocuo prodotto di una fantasia desiderante od anche farneticante. Tutt’al contrario, il sogno ha trovato un principio di materializzazione nella legislazione emanata in epoca fascista sotto l’egida della Carta del lavoro pubblicata nel 1927 sulla Gazzetta Ufficiale, alla quale i giuristi di regime assegnavano il rango di una super-legge.

E adesso? adesso che – con buona pace della Carta di Nizza e persino delle dichiarazioni dei diritti universali dell’uomo – la legislazione degli Stati membri dell’Ue ha ri-mercificato il lavoro e ripristinato il potere di comando unilaterale in azienda sia restituendo la licenza di licenziare sia emarginando la tutela giudiziaria dei diritti, il sogno proibito se ne è giovato in termini di legittimità giuridica e, stavolta, senza la necessità di confiscare la libertà sindacale e di criminalizzare lo sciopero, bensì nel rispetto delle forme democratiche. Un rispetto soltanto formale, però.

Infatti, nelle condizioni date nessuno può possedere affidabili certezze in ordine alla sussistenza, ed all’ampiezza, di una effettiva condivisione dell’idea di diritto del lavoro trasmessa dalla legislazione vigente. Dopotutto, poco meno della metà degli elettori in quanto cittadini non va a votare e molto di più della metà dei cittadini in quanto lavoratori non può o non sa farsi ascoltare dai soggetti della contrattazione collettiva; moltitudini di giovani intrappolati nella precarietà e di irregolari dispersi nell’economia sommersa non hanno mai potuto stabilire contatti con la legislazione che tutela le condizioni di lavoro. Anzi, è anche per questo che la gestione politica della crisi economica esplosa nella seconda metà della prima decade del terzo millennio ha potuto trasformarla in un episodio della lotta di classe che, anche stavolta, vede chi sta in alto dirigerla verso chi sta in basso: per ora vittoriosamente – perché gli argini di contenimento sono crollati e gli spiriti animaleschi del capitalismo hanno straripato.

Come dire che, non appena la situazione lo permette, il legislatore è lesto a tradurre in modelli vincolanti di comportamento l’ideal-tipo del lavoratore dipendente e dunque, per proibito che possa essere, il sogno non è illegittimo.

Ecco perché è involontariamente umoristico che sia accusata di arcaismo la cultura giuridica avversa al recupero, da parte dei decisori politici dell’Ue del giorno d’oggi, di un’idea di diritto del lavoro molto simile a quella che sopravviveva sottotraccia nelle profondità degli ordinamenti giuridici del lavoro nazionali, a cominciare da quello italiano che non si è mai potuto né voluto de-fascistizzare sul serio.

Ormai, è un luogo comune che, dopo aver suscitato le più grandi speranze, il diritto del lavoro del ‘900 le ha soddisfatte solo parzialmente. Per questo, pur essendo turbati dalla rottura del suo paradigma, abbiamo l’obbligo di elaborarne uno nuovo. Al tempo stesso, però, saremmo degli irresponsabili se alimentassimo l’illusione di cambiamento immediato: è nota la risposta della sentinella del profeta Isaia interpellata su “quanto resta della notte”. La sentinella risponde che il mattino verrà, ma intanto è notte, notte fonda.

Viceversa, è proprio in frangenti del genere che entrano in scena, e con successo, i facilitatori.
Ricordate Pulp fiction? E’ un celebre film di Quentin Tarantino. Dove, in un momento di drammatica incertezza, compare un enigmatico personaggio che ad uno spaventato Johnny Travolta si presenta così: “sono il signor Wolf e risolvo problemi”.Diciamo la verità: quanti ne abbiamo incontrati di personaggi così?

Magari, arrivano senza essere stati richiesti. Spesso, però, sono ricercati e profumatamente pagati. Penso, per fare un solo esempio, all’esponente di spicco della cultura giuridica che cinque anni fa suggerì a Sergio Marchionne di approfittare del dictum di un disinformato legislatore popolare che, all’insaputa degli stessi proponenti di un referendum (non solo) abrogativo dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, nel 1995 trasmise un velenoso messaggio. Con un po’ di faccia tosta e una buona dose di malizia, poteva essere interpretato come un’incitazione a premiare il sindacato aziendale “che col padrone ci sta” e, per converso, ad espellere dall’azienda il sindacato dissenziente. Certo, l’Alta Corte ha ritenuto che l’interpretazione letterale della versione referendaria della norma statutaria fosse aberrante per contrasto con la garanzia costituzionale della libertà sindacale. Tuttavia, con la complicità di sindacati accomodanti (ma non “di comodo”, come quelli demonizzati dall’art. 17 dello Statuto), l’apartheid della Fiom non è cessato dentro gli stabilimenti italiani della Fca. Il fatto è che la sentenza non è che una scheggia della legge sulla rappresentanza sindacale che non c’è.

E’ possibile trarre una morale dalla vicenda? direi proprio di sì ed è la seguente: ripensare il diritto del lavoro è un atto dovuto, sta bene; però, bisogna resistere alla tentazione di servirsi di facilitatori sub specie di devoti della rottamazione, capacissimi di proporre l’abolizione del semaforo perché gli incidenti stradali non calano quanto sarebbe auspicabile.

Parlavo, in apertura, di un sogno proibito e tuttavia legittimo. Mi si potrebbe obiettare che, nel 1945, era spuntata l’alba che, come poetizza una canzone di successo, a molti sembrò capace di portarselo via con sé, il sogno. Sennonché, non basta affermare che, una volta che col suo art. 1 la Carta costituzionale ne ha fatto il fondamento dello Stato, il lavoro ha visto il suo diritto entrare nell’età adulta. Resta il fatto che gli è stata negata la chance di dimostrare cosa poteva dare da grande. Come dire che, sebbene la nostra Costituzione abbia segnato un nuovo inizio del diritto del lavoro, è un errore enfatizzare l’evento.

La verità è che il nuovo inizio ha avuto una fine precoce. Infatti, il diritto del lavoro non ha mai cessato di soggiornare in territori assiduamente frequentati dalla mono-cultura della giusprivatistica, secondo la quale il lavoro avrebbe bussato alla porta della storia giuridica per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie tecnico-concettuali del diritto dei contratti tra privati. Anzi, lo stesso Statuto dei lavoratori – che pure rappresentava l’esordio del diritto del lavoro maggiorenne – sarà generalmente interpretato come la conferma della bontà di una linea di continuità culturale, che – invece – era già logora: sta lì a documentarlo lo smantellamento in atto della normativa statutaria.

Per questo, i giuristi – mica tanti, peraltro – che nel dopo-guerra si aspettavano un diritto del lavoro al passo con la Costituzione, e alla sua altezza, l’hanno condannato a consegnarsi alla storia come un diritto "con un grande futuro alle spalle", pur essendo certi del contrario. Questa è una contraddizione di fondo ed è su di essa che bisogna interrogarsi per spiegare come mai seguitassero ad attribuirgli la dirompente potenzialità che non possedeva né poteva possedere in ragione della sua matrice compromissoria – oltretutto in una situazione di persistente (tranne brevi tratti) squilibrio dei rapporti di forza.

La contraddizione era dovuta ad una imperfezione ottica generata dalla loro formazione culturale e anzi dalla loro stessa biografia. Era infatti una specie di strabismo che li portava a guardare altrove, e pensare ad altro, sebbene parlassero di diritto del lavoro. Come dire: l’oggetto stesso dei loro discorsi li sollecitava a valorizzarne la connessione con l’azione, che essi giudicavano benefica, dei suoi artefici e garanti e – per effetto di un transfert, non solo né sempre subliminale – attribuivano al diritto del lavoro la valenza di segno positivo che, invece, a loro avviso era l’attributo dell’azione dei partiti di massa della sinistra e dei sindacati. Erano questi i soggetti che, assicurando al lavoro la rappresentanza a struttura binaria idonea a metterlo nella condizione di competere col capitale, avevano sponsorizzato e avviato alla maturità il “suo” diritto.

Un diritto la cui prossimità con l’ambiente esterno, nell’impossibilità di esercitare un’actio finium regundorum in grado di tracciare netti confini, magari non sospinge l’interprete alla militanza, però gli impedisce di occultare la sua collocazione politica, sia essa di sinistra o di destra. Così, non è un dettaglio che a Gino Giugni, il quale diceva spesso di sé: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”, nel 2000 io abbia dedicato uno scritto col titolo Elogio del compagno professore. Né è secondario che, nel tentativo (peraltro, riuscito) di tracciare l’orizzonte di senso di un’intera esperienza esistenziale, un intellettuale dell’area giuridica come Luigi Mariucci abbia rilasciato alla sua rivista una confidenza d’inusuale franchezza: “per me, il diritto del lavoro ha costituito un succedaneo della mia inclinazione alla politica”, anche se “ha funzionato come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente”.

Adesso, ad ogni modo, la sinistra politica ha fatto la mesta fine del giovane partito per il fronte e mai tornato a casa: di lui si dice di tutto, tranne che sia caduto combattendo eroicamente. Mentre dalla residua rappresentanza sociale giunge – non solo per limiti propri, ma (come in Italia) anche a causa della sua interna rissosità – un confuso vociare intraducibile in un’idea capace di illuminare il cammino della transizione che stanno compiendo il lavoro e il suo diritto.

Per questo, la cultura giuridica di sinistra teme che le sue parole non parlino più e sembra colpita da afasia, mentre la cultura giuridica di destra è ridiventata loquace e le dimensioni della platea da cui può farsi ascoltare crescono a vista d’occhio. E’ naturale che ne tragga motivi di soddisfazione. Ma non può esagerare nell’auto-stima, perché non è ascrivibile a suo merito che il fideismo di ieri della cultura giuridica di sinistra si sia tramutato nel semi-paralizzante catastrofismo di oggi. Il fatto è che la stessa cultura giuridica di destra troverebbe meno ascolto, e forse non esisterebbe nemmeno, se non ci fosse stato l’ostruzionismo della maggioranza (per dirla con Piero Calamandrei) che legittimò il blocco sine die della Costituzione della Repubblica, riducendo così la percezione popolare della bontà dei suoi principi e del suo sistema di valori.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.