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Il fallimento economico delle politiche dell’eurozona è solo un lato della medaglia. Le conseguenze più gravi riguardano la faccia che rimane in ombra: i danni profondi inflitti alle regole della democrazia.
La vittoria di Syriza, guidata da Alexis Tsipras, nelle elezioni greche del 25 gennaio ha creato un grande sconcerto nell’eurozona. La cosa non sorprende trattandosi della prima vera crisi politica dell’eurozona dopo la sua nascita quindici anni fa. Finora eravamo, infatti, abituati a discutere solo di difficoltà economiche.
Eppure la vittoria di Syriza era prevedibile. E’ normale che in un paese sconvolto da una crisi economica e sociale che dura da sette anni, alla prova delle elezioni i partiti di governo possano essere sconfitti a favore di chi non ha avuto responsabilità di governo.
Syriza ha vinto le elezioni con un programma coraggioso quanto arduo: liberare la Grecia dalla politica di austerità e dal controllo asfissiante della Troika, l’arrogante gruppo di tecnocrati in rappresentanza della Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale.
Ma che significava ripudiare la politica dell’austerità imposta dalle autorità dell’eurozona? La Grecia ha la corda al collo di un debito gigantesco: 320 miliardi di euro, il 175 per cento del PIL. La maggior parte degli economisti è convinta che, considerata la sua entità, il debito non è rimborsabile. Alan Greenspan è stato brutalmente netto sull’impossibilità per la Grecia di ripagare il debito e, alla fine, sulla sua uscita dall’euro: “Credo che la Grecia alla fine uscirà (dall’euro)…E’ solo questione di tempo perché tutti si rendano conto che uscire è la migliore strategia”(1).
Il governo Tsipras è certamente consapevole delle difficoltà, ma si muove in una direzione contraria a quella vaticinata da Greenspan. Non a caso, il programma del nuovo governo si articola lungo due linee principali: la prima riguarda, per l’appunto, il riassetto del debito; la seconda è centrata su una profonda revisione della politica economica e sociale imposta al paese dalle autorità europee negli anni della crisi.
Sul primo punto, il nuovo ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha presentano alle autorità dell’eurozona una proposta complessiva che, assumendo la chiara volontà di rimborsare il debito, chiede di rinegoziarne le condizioni. In sostanza, il nuovo governo avanza la proposta di una ristrutturazione basata sull’indicizzazione degli oneri relativi al debito in rapporto all’andamento del PIL. Un modo per garantirne ai creditori il rimborso e, al tempo stesso, di evitare il peggioramento delle condizioni finanziarie del paese debitore nelle fasi di recessione o ristagno dell’economia. In ogni caso, l’avanzo primario – la quota del bilancio destinata al pagamento degli interessi - dovrebbe essere limitata all’1,5 per cento del PIL (contro l’attuale previsione del 4,5), in modo da lasciare spazio agli investimenti e ai consumi collettivi necessari per rilanciare la crescita, in mancanza della quale il debito stesso diventa insolvibile. I mercati finanziari hanno mostrato di apprezzare la proposta del governo Tsipras che, per la prima volta, affronta apertamente il problema della solvibilità del debito e avanza una soluzione che ne rende credibile l’impegno a rimborsarlo.
Il secondo punto del programma Tsipras si concentra sulle misure di carattere interno, dirette a modificare le condizioni strangolatorie che la troika ha imposto al paese negli anni della crisi, provocandone il dissesto economico e una catastrofe sociale. I dati sono eloquenti. La cura dell’austerità ha provocato l’aumento del debito dal 110 per cento del PIL, all’inizio della crisi, al 175 per cento attuale. Nel frattempo, il redito nazionale è diminuito di un quarto e la disoccupazione ha superato il 25 per cento della forza lavoro. In un paese ridotto alla povertà, le famiglie che non sono più riuscite a pagare la rate del mutuo hanno visto mettere all’asta la casa di abitazione. Molte sono rimaste al buio e senza riscaldamento per il taglio della corrente elettrica. Gli ospedali pubblici sono rimasti senza farmaci, e la cura dei pazienti, quando possibile, affidata alle associazioni di volontari. Una catastrofe sociale che non si era più vista dal tempo della Grande Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti.
Il nuovo governo Tsipras ha chiesto di concordare un programma- ponte di sei mesi durante i quali negoziare un nuovo accordo complessivo. In questa fase intermedia, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FEFS) avrebbe mantenuto l’impegno di erogare l’ultima tranche del prestito di 7,2 miliardi di euro.
Una persona normale farebbe fatica a considerare irragionevole una proposta che prevede, nel quadro di una ristrutturazione concordata, il rimborso di 240 miliardi di euro, corrispondenti all’80 per cento del debito complessivo, in larga parte dovuto alle istituzioni e ai governi dell’eurozona. Ma non è così. Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze del governo tedesco, rigetta in toto la proposta presentata da Varoufakis. Il governo greco deve prolungare il programma di austerità e di riforme imposto dalla troika. II fatto che quel programma abbia messo in ginocchio il paese, e che il governo di coalizione di Samaras sia stato clamorosamente ripudiato dal voto popolare non conta nulla. La democrazia del voto è un lusso che non può appartenere a una piccola, periferica, provincia dell’impero.
Senza un accordo, la Grecia rischia il default, la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i risparmi, la fuga dei capitali all’estero, e l’inevitabile ricorso al controllo dei movimenti di capitale: una sequenza che prelude, in ultima analisi, all’uscita della Grecia dall’euro. . Cercare di individuare vincitori e perdenti, come fa una grande parte della stampa italiana ed europea, è un esercizio ingannevole. Tsipras dice: “Abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra”. E’ un giudizio cautamente realistico. E’ stato guadagnato tempo, e la Grecia è impegnata a utilizzarlo per negoziare un accordo complessivo. Ma per le autorità europee il tempo dovrà servire a piegare la resistenza della Grecia, riconducendo le pedine al punto di partenza.
I rapporti di forza rimangono squilibrati. L’eurogruppo sospende fino ad aprile l’erogazione dell’ultima tranche del prestito. La BCE e l’FMI prendono le distanze dal compromesso. Nelle settimane successive Draghi ribadisce che la Grecia è esclusa dai nuovi scenari che si aprono col quantitative easing. Le banche centrali dei paesi dell’euro sono autorizzate ad acquistare sul mercato secondario obbligazioni emessi dai rispettivi governi, ma alla Banca centrale greca questa possibilità è negata. La parola d’ordine sembra essere chiara: nessuna via d’uscita a un governo che rompe la disciplina.
La partita rimane aperta, non ostante gli annunci precoci di una resa fatale del governo greco. I commentatori non pregiudizialmente allineati prendono posizione a favore delle proposte greche. Scrive Wolfgang Münchau sul Financial Times: “ Il mio consiglio a Yanis Varoufakis è di ignorare le minacce più o meno velate, rimanendo fermo sulle sue posizioni. E' membro del primo governo della zona euro dotato di un mandato democratico per opporsi a una politica totalmente priva di senso. Una politica che si è dimostrata economicamente analfabeta e politicamente insostenibile”.(2)
Indipendentemente dal suo esito finale, il confronto ha il merito di chiarire i termini del conflitto che agita non solo la Grecia ma l’intera eurozona. La ribellione del governo greco porta alla luce del sole i paradossi e le contraddizioni delle politiche imposte da Bruxelles con il sostegno determinate di Berlino.
E’ diventato definitivamente lampante che, paradossalmente, il vero centro dello scontro non riguarda la questione del debito, ma l’altra faccia della medaglia: le riforme strutturali. Per il debito, come abbiamo visto, il governo greco ha presentato una chiara proposta, ed è pronto a negoziarne i termini. Il dissenso esplode, prima ancora di aprire un negoziato, sul capitolo delle riforme strutturali, la faccia oscura dell’austerità.
Non a caso, le autorità europee pretendono il pieno controllo della politica economica e sociale degli Stati membri. E’ una questione di disciplina imposta dall’alto sulla quale le autorità dell’eurozona non transigono. L’elenco delle riforme e delle misure anche di dettaglio comprende tutti gli aspetti della politica interna. Ma il cuore delle famigerate riforme strutturali è per le istituzioni dell’eurozona nelle politiche di privatizzazione, di taglio dei sistemi di welfare e di deregolazione del mercato del lavoro. .
Il capitolo delle privatizzazioni risale alle prime fasi della crisi greca, quando la Commissione europea chiede come contropartita degli aiuti finanziari l’impegno a un vasto piano di privatizzazioni. L’aspetto più intrigante è che i prestiti accordati al governo sono destinati al rimborso dei debiti contratti dalle banche greche nei confronti delle banche tedesche, francesi e olandesi. Un modo di trasferire i debiti privati delle banche a carico del bilancio pubblico, secondo uno schema che si ripete in Irlanda e in Spagna. Le privatizzazioni diventano uno strumento di ripianamento di una parte del debito pubblico, aumentato a dismisura a vantaggio delle banche creditrici straniere.
Nelle prime versioni, si tratta di un piano di privatizzazioni gigantesco che dovrebbe portare nelle casse dello stato 50 miliardi di euro. In sostanza, tutto ciò che è pubblico deve passare in mani private: elettricità, gas, l’acqua di Atene e Salonicco, le ferrovie, i porti, gli aeroporti, le Poste, le strade, gli edifici pubblici più importanti, senza tralasciare i casino. Il piano, amministrato da un nuovo ente di natura privatistica dovrebbe essere attuato nel giro di un triennio, entro il 2015. L’Economist, pur tradizionalmente incline a valutare positivamente le politiche di privatizzazione, scrive: ” Con un target di 50 miliardi di euro (72 miliardi dollari) entro il 2015, il piano di privatizzazione della Grecia mira a raccogliere più denaro come quota del PIL di quanto abbia mai attuato qualsiasi altro governo nell’ambito dell’ OCSE…un progetto di privatizzazione di beni e servizi da mettere in atto in un tempo assurdamente stretto”.(3)
In ogni caso, il punto cruciale delle riforme strutturali non è quello delle privatizzazioni, ma si concentra intorno alle riforme del lavoro e dei sistemi di welfare. Qui si manifesta in tutta la sua pienezza il fondamentalismo ideologico delle politiche economiche e sociali dell’eurozona. Le principali proposte di intervento del governo greco dirette ad alleviare lo stato di malessere e di povertà di una grande parte della popolazione sono bocciate, o comunque sottoposte a una severa verifica di compatibilità con i vincoli di bilancio posti dalla Commissione europea.
Le riforme strutturali, nella specifica versione delle istituzioni europee, rivestono un carattere strategico. Prima o dopo le misure di austerità avranno esaurito il loro compito. Ma i cambiamenti apportati dalle riforme avranno introdotto un radicale cambiamento nel modello di rapporti sociali. Gli obiettivi di lungo termine delle riforme sono il drastico ridimensionamento dell’intervento dello stato nell’economia, la compressione e la tendenziale privatizzazione dei sistemi di welfare, l’emarginazione del potere dei sindacati e della contrattazione collettiva.
In altri tempi, questa politica sarebbe stata definita reazionaria. In effetti, è diventato il paradigma dominante nell’eurozona. La particolarità sta nel fatto che in tutti i paesi democratici questa politica ha una connotazione di destra, e i governi che la praticano devono misurarsi con un’opposizione che ha i colori più o meno pronunciati della sinistra. Nell’eurozona la differenza tra destra e sinistra è invece sbiadita fino a scomparire del tutto quando si tratta dipartiti al governo.
L’opinione dominante è che l’eurozona manchi di un governo politico. Questa affermazione è parzialmente vera, se ci riferisce specificamente alla politica estera e di difesa. Ma è infondata se ci si riferisce alle scelte che orientano, guidano e controllano le politiche economiche e sociali degli stati membri Con la progressiva modifica dei trattati e della loro interpretazione, l’iniziale vigilanza sulle politiche di bilancio si è estesa a tutti gli aspetti della politica economica e sociale, sottoposta al controllo preventivo, alla verifica, e al potere sanzionatorio della tecnocrazia di Bruxelles.
Bisogna aver presente questo quadro, per cogliere pienamente la caratteristica politicamente“sovversiva” del governo Tsipras. Il conflitto più appariscente è parso quello che ha opposto Tsipras e il ministro delle finanze Varoufakis al superfalco tedesco Schäuble. Ma questa è una visione monca. In effetti, l’opposizione al nuovo governo greco ha messo insieme tutti i governi dell’eurozona, con sfumature più tattiche che di sostanza. E’convinzione generale dei governi dell’eurozona che la Grecia debba essere ricondotta nel quadro della disciplina collettiva. L’ostilità al nuovo governo greco ha ragioni profonde che toccano da vicino anche i principali governi di centro sinistra. Mostrando tolleranza nei confronti delle posizioni del governo Tsipras, rischierebbero di vedere sconfessate le proprie scelte politiche.
Siamo di fronte all’ennesima prova di una politica che, dietro lo schermo dell’austerità, punta in effetti al rovesciamento finale di quello che, al tempo di Jacques Delors, era considerato il “modello sociale europeo”. La moneta unica doveva aiutare i paesi aderenti a confrontarsi da una posizione di forza con le dinamiche della globalizzazione. L’operazione è miseramente fallita. Le politiche neoliberiste, adottate nell’eurozona per reagire alla crisi globale scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, hanno avuto come risultato un netto arretramento dell’eurozona rispetto a tutte le altre regioni sviluppate o in via di sviluppo del pianeta.
Il fallimento economico è, tuttavia, solo un lato della medaglia. Le conseguenze più gravi riguardano la faccia che rimane in ombra: ci riferiamo ai danni profondi inflitti agli assetti democratici dei singoli paese. La Grecia rende esplicito ciò che prima era mascherato. Nessun governo può rivendicare una propria autonomia politica. Il consenso popolare e democratico è un orpello ridondante, sostanzialmente inutile. I programmi politici sono quelli stabiliti al centro dell’euro-impero. Gli stati membri hanno meno autonomia e potere di regolazione interna su rilevanti aspetti della vita economica e sociale di quanto possa averne un piccolo stato degli Stati Uniti d’America.
La Grecia non può, nemmeno gradualmente, riportare il salario minimo al livello pre-crisi di 750 euro che, per inciso, è meno della metà di quello tedesco, francese o belga. Non può ripristinare una normale contrattazione collettive dei salari e delle condizioni di lavoro attraverso la contrattazione nazionale. Non può decidere quali servizi cedere alla speculazione privata nazionale e internazionale. Non può decidere gli standard minimi vitali per i pensionati più poveri. E non può decidere, una volta ridotti da 16 a 10 i ministeri, secondo il programma di riorganizzazione dell’ amministrazione pubblica, come debbano essere riequlibrati gli organici e le gerarchie salariali. Insomma, un governo ingabbiato.
Con lo scivolamento progressivo dell’eurozona verso un implicito regime autoritario, che ha il suo centro egemonico a Berlino e il suo braccio esecutivo a Bruxelles, si è creata una situazione nuova. L’eurozona ha non solo aggravato con la sua politica deflazionista la crisi economica e sociale; ha profondamente logorato il tessuto democratico nei paesi membri, ridotti al ruolo di province. Le élite economiche e finanziarie hanno utilizzato il binomio austerità-riforme strutturali per far avanzare le politiche neoliberiste che nella maggior parte dei paesi europei si aggiravano da trent’anni come un fantasma senza trovare un ancoraggio stabile. Ha trovato il modo di condurre la sua lotta di classe senza proclami ideologici, allontanandone anche il sospetto, utilizzando la mediazione della tecnocrazia europea. istituzionalmente irresponsabile, che governa secondo regole tecnicamente astruse ed oscure.
Il 25 gennaio del 2015, con la vittoria di Syriza, il sepolcro imbiancato dell’eurozona è stato violato. Era grottesco immaginare che il nuovo governo greco, potesse rovesciare con un solo colpo il regime neo-imperiale dell’eurozona. Gli ha dato tuttavia una scossa poderosa. La stessa richiesta di apertura di un negoziato generale è un’eresia che corrode la teologia fondamentalista dell’eurozona. La Grecia ha aperto una partita coraggiosa quanto difficile. Nei prossimi quattro mesi molte cose possono succedere in un senso o nell’’altro. Ma una cosa è già successa. E’ stata fornita la prova concreta di una possibilità: dichiarare che il re è nudo, la politica dell’eurozona è fallimentare dal punto di vista economico e – quel che è ancora più grave - perniciosa per il funzionamento della democrazia.
Il governo Tsipras ha oggettivamente aperto una partita destinata ad allargarsi su molti fronti. Non a caso, Il suo contagio è ciò che più temono nelle alte sfere del’eurozona. Temono, in primo luogo, il contagio spagnolo con la probabile vittoria di Podemos nelle elezioni di fine anno.
Ma è, soprattutto, la rete delle complicità dei governi di diverso colore che la sfida della Grecia, quali che ne siano i risultati, minaccia di incrinare. L’omertà dei governi che accettano, o subiscono, le politiche insensate e rovinose imposte dalle istituzioni dell’eurozona potrà essere sempre più difficilmente dissimulata. E’ difficile oggi prevedere quale possa essere l’esito finale del provvisorio compromesso greco. Ma una breccia è stata aperta nelle possenti mura dell’eurozona, e sarà difficile richiuderla.
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1. Alan Greenspan - Greece: Greenspan predicts exit from euro inevitable (Intervista alla BBC - 8.2.2015)
2. Wolfgang Münchau Athens must stand firm against the eurozone’s failed policies (Financial Times, 15.2. 2015)
3. The Economist The privatisation illusion (15 luglio, 2011)
4.Fintan O’Toole – The Irish rebellion over water (International New York Times,20-21 dicembre 2014)