La globalizzazione a rovescio

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La globalizzazione sta rimbalzando indietro nei mercati ricchi dei paesi “maturi”. 

Il livello molto alto, e crescente delle esportazioni di capitali dai paesi “maturi” a quelli “emergenti” nell’anno corrente (si veda Insightweb, The flow of capital going into the Emerging Countries ) è così grande da provocare qualche considerazione sullo stato dell’economia mondiale. Le cifre dell’esportazione di capitale privato nell’anno 2011sono salite a un livello mai raggiunto prima, cioè, 1.041 miliardi di dollari. Di questa cifra, 574 miliardi di dollari sono investimenti in Equity, 423 sono Investimenti Diretti e 151 investimenti di Portafoglio. I Creditori Privati contano per 467 miliardi di dollari. Un tale livello di esportazione di capitale dev’essere considerato sia dal punto di vista delle sue conseguenze ma anche da quello delle sue origini. 

Di solito, la semplice spiegazione è “la globalizzazione “ un trend cominciato parecchi anni fa.  Tuttavia, l’attuale dimensione dei movimenti di capitale deve necessariamente significare qualcosa di più di quello che semplicemente era la globalizzazione, cioè la ricerca di aree a basso costo del lavoro. Fra l’altro, vi è la crescente sensazione che questo tipo di globalizzazione sta rimbalzando indietro nei mercati ricchi dei paesi “maturi”.

Il semplice meccanismo può essere spiegato come segue. Un imprenditore che produce qualcosa che gli costa, supponiamo, $10 e si vende a $20, è ovviamente molto interessato a delocalizzare la sua produzione in paesi dove il costo totale è di $5. Egli importerebbe il prodotto nel suo mercato, e lo venderebbe a un piccolo sconto . diciamo a $18, con un margine di $13 per ogni prodotto, un aumento del margine del 30%. Il bassissimo costo unitario del trasporto per containers lo rende possibile.  Tuttavia, col tempo, sorgeranno imprenditori locali con un costo non di $5, ma, diciamo, di $3, che venderanno sul mercato  ricco a $6, pronti a prezzi anche minori. Nessun produttore con i costi fissi di un paese “maturo” può resistere a questa concorrenza. I produttori che hanno delocalizzato, vengono cacciati dal mercato, a meno che non si adattino a vendere in perdita, o a comprare la produzione dei concorrenti per venderla, con dei margini molto minori. 

La produzione delle industrie "labour intensive", quelle che hanno la forza lavoro più numerosa, tende a sparire dai paesi “maturi”, e gli originali de-localizzatori sono in gravi difficoltà . L’industria europea delle confezioni sembra star attraversando una fase di questo genere. Ovviamente, la globalizzazione riduce l’occupazione nei paesi “maturi”.La risposta a tutto ciò è spesso che questi ultimi producono ad alta tecnologia e con grandi capacità tecnologiche... una risposta che scompare non appena si guarda alle origini geografiche dei più sofisticati prodotti elettronici. Questo problema ha anche un altro aspetto. La grande uscita di capitale vuol dire sostanzialmente che il capitale da investimento prodotto nei paesi ricchi è investito altrove. L’investimento ristagna nei paesi “maturi” il che ha un effetto depressivo sull’occupazione. Le imprese e i cittadini ricchi dei paesi “maturi” tendono a non investire nei loro paesi e l’industria riduce la sua forza lavoro e il livello d’innovazione. L’enorme volume del capitale esportato fa supporre che il sotto- investimento sia molto comune in tutte le economie  dei paesi ricchi. L’enorme flusso di capitale in uscita ha origini molto diverse fra loro. 

La prima origine è probabilmente da cercare nelle risorse che il Governo Americano offre a basso costo – o a costo zero- per incoraggiare gli investimenti e che finiscono invece nei paesi “emergenti”, che offrono maggiori tassi d’interesse e maggiori profitti. Forse, questa è la ragione per cui l’industria americana non si avvantaggia di queste eccellenti offerte. Sembrerebbe quindi che non vi
sia alcun modo di uscire da una crisi o dalla stagnazione incoraggiando l’investimento dei privati. Il vecchio rimedio, l’investimento pubblico, sembra di essere l’unico che può avere un effetto reale sull’economia, attraverso l’aumento della domanda. La seconda origine è la delocalizzazione della produzione, comunemente nota come globalizzazione, che lentamente riduce la capacità di competere dei paesi “maturi” sul mercato mondiale.

L’investimento all’estero non offre solo il vantaggio sul costo di produzione. La domanda è molto più forte, ad esempio, in Cina, che negli Stati Uniti e in Europa, probabilmente perché la classe media cinese ha più denaro da spendere che i loro corrispondenti in Occidente. In un’area in cui l’industria ha cominciato quasi da zero, è più facile sperimentare tecnologie nuove prodotti nuovi. La produzione cinese che “invade” i mercati occidentali è, in effetti, la produzione degli investimenti fatti colà dalle grandi compagnie industriali dell’Occidente: non è, in effetti, cinese ma americana o europea. Infine vi è una ragione strutturale per così grandi investimenti all’estero. La produzione di beni, la “vecchia industria” è necessariamente influenzata dalle relazioni sociali. Ha grandi gruppi di lavoratori, che devono essere preparati e controllati, un’operazione complessa e rischiosa.

La via maestra del capitale di oggi non è l’industria ma la finanza, un’area aperta a tutte le possibili innovazioni, senza nessun rapporto con masse di lavoratori, né con il Governo centrale o locale. Il denaro viene direttamente dal denaro, una situazione assolutamente perfetta.  Comunque, tutti questi flussi in uscita di capitale hanno un effetto negativo, e producono articoli come quello di Paul Kennedy “Crossing a Watershed “ su International  Herald Tribune del 6 ottobre 2011, che parla di un rapido processo di decadenza dell’Occidente “mentre i paesi dell’Asia afferrano il futuro del mondo”.

Marcello Colitti

Economist. He was President of Enichem. His last book is "Etica e politica di Baruch Spinoza". Member of the Editorial Board of Insight