La crisi dell’Unione europea tra guerre e migrazioni
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Le migrazioni "economiche" sono stati storicamente un motore di sviluppo, rimanendo distinte dalle migrazioni motivate da specifiche circostanze politiche. Ma ora le devastazioni delle guerre del Medio Oriente hanno creeto un intrccio che rende astratta e distorcente l'opposizione tra le due tipologie. Una delle bizzarrie più sorprendenti di Donald Trump, ormai sicuro candidato repubblicano alla Casa Bianca, è stata l’impegno di erigere un muro di 3000 km fra gli Stati Uniti e il Messico, dall’oceano Atlantico al Pacifico, per arginare il flusso migratorio fra i due paesi. Una proposta analoga risale a George Bush, ma fu abbandonata perché giudicata troppo costosa. Trump, per rassicurare i suoi potenziali elettori, ha spiegato che il muro dovrà essere eretto a spese del Messico. Tutto questo può apparire surreale. Ma in Europa i muri e le barriere di filo spinato sono all’ordine del giorno. Con una differenza non secondaria. Negli Stati Uniti la proposta di Trump è considerata concretamente inattuabile, e politicamente ripugnante. E, non a caso, Barack Obama contrappone alla linea della deportazione verso i paesi d’origine degli immigrati ”irregolari” la concessione della cittadinanza a una grande parte degli undici milioni di migranti che sono giunti, o si sono trattenuti, negli Stati Uniti senza un valido permesso. Gli Stati Uniti sono diventati nel XX secolo la maggiore potenza economica del pianeta in virtù di un flusso pressoché ininterrotto di immigrazione innanzitutto dall’Europa, poi dall’Asia e dall’America latina. La Germania è diventata la maggiore potenza economica europea aprendo le porte prima ai migranti del sud dell’Europa, poi a milioni di migranti dell’est dopo la caduta del muro di Belino. L’unica grande potenza industriale chiusa alle migrazioni è il Giappone che vive ormai da un quarto si secolo in un clima di sostanziale stagnazione economica e di drammatico squilibrio demografico dovuto all’invecchiamento della popolazione. I grandi flussi migratori non sono casuali. Il movimento è orientato da ragioni che riflettono la situazione economica e del mercato del lavoro: in altri termini,la possibilità effettiva o percepita per i migranti di migliorare la propria condizione di vita, sia pure sottoponendosi ai sacrifici e alla durezza che la condizione di migrante comporta. Non a caso, gli immigrati, se si esclude un’élite di intellettuali e uomini d’affari, occupano i segmenti del mercato del lavoro meno qualificati e peggio pagati, dall’agricoltura alle costruzioni, ai lavori più pesanti dell’industria, ad alcuni tipologie di servizi e alle collaborazioni domestiche.L’Ocse pone l’accento su un aspetto spesso dimenticato o percepito in termini rovesciati. Essendo in misura prevalente giovani ed economicamente attivi, gli immigrati forniscono “sotto il profilo delle tasse e dei contributi previdenziali più di quanto ricevono sotto forma di benefici sociali” (1). 2. Ma le migrazioni per ragioni economiche non sono l’unico modello storico. La storia europea ha conosciuto processi migratori dovuti non a ragioni economiche ma politiche: migrazioni forzate, originate alle persecuzioni religiose e politiche. La diaspora degli ebrei ha una storia antica. Il primo ghetto, un’area espressamente destinata agli ebrei, fu istituito nella Venezia dei Dogi. Gli esempi di migrazioni politiche si sono moltiplicati nel XX secolo, inizialmente con la dissoluzione dei vecchi imperi austro-ungarico e ottomano, poi con l’instaurazione dei regimi fascisti. Possiamo oggi operare – come si propone a livello istituzionale e da parte di alcuni esperti ed economisti.(2) - una distinzione altrettanto netta rispetto ai processi migratori che hanno messo in crisi l’Unione europea? Per molte ragioni, la contrapposizione si presenta, nelle condizioni presenti, ingannevole e fuorviante. Vediamo perché. E’ ancora appropriata, è applicabile, in questo quadro, la distinzione fra le classiche tipologie delle migrazioni? Fino alla deflagrazione della guerra civile, i siriani non si caratterizzavano affatto come un popolo di migranti. Era vero il contrario. La Siria ha ospitato grandi masse di palestinesi, scacciati dalla Palestina, di libanesi e oltre un milione di iracheni, messi in fuga dalla più lunga guerra dell’era moderna. Di fronte al drammatico esodo biblico di intere famiglie, quando non donne sole, rimaste vedove, o minori, orfani (secondo i dati riportati dalla stampa americana, cinquecentomila morti sono finora il tragico prezzo della guerra in Siria), la distinzione fra una tipologia e l’altra di migrazioni rischia di essere una pura astrazione intellettuale.
4. Ma non basta. L’accordo con la Turchia è ora considerato un modello da replicare nei confronti dei paesi africani. In cambio di “aiuti” in denaro, il “Migration compact”, secondo la raffinata terminologia inglese tipicamente privilegiata da Matteo Renzi, dovrebbe consentire ai paesi dell’Unione di rispedire nei paesi d’origine i migranti approdati, a rischio della vita, sulle coste europee (in questo caso, principalmente sulle coste italiane). A quali paesi, infatti, si dovrebbe proporre un accordo di questo tipo? Alla Somalia, uno stato fallito? All’Eritrea, paese dominato da un’oscura dittatura, dal quale è difficile anche uscire? O alla Nigeria, con la quale si cerca di trattare, mentre le sue regioni del nord sono fuori controllo e in preda alla ferocia di Boko Aram, un movimento ispirato all’Isis? La retorica politica dei patti con governi spesso aguzzini di molti paesi africani non può mascherare i dati segnalati da un Rapporto dell’Onu del 2014, secondo il quale la regione sub-sahariana fa registrare un tasso di "povertà estrema" (intendendo un reddito di 1,25 dollari al giorno) fra i più alti del pianeta. In ogni caso, vale la pena di ricordare che l’immigrazione dall’Africa è nei primi mesi del 2016 in riduzione. ”Gli arrivi di migranti in Italia per il 2016, secondo l’OIM, sono circa 32.000 contro i 47.500 nei primi cinque mesi del 2015”. Non c’è un’emergenza migratoria generale, se non nella propaganda xenofoba della destra che estende la sua presa in un’Europa senza bussola. In effetti, la questione migratoria, che spaventa l’Unione europea in crisi per ragioni più profonde, coincide con la questione mediorientale, e oggi più propriamente, siriana. 5. C’è una soluzione? L’Unione europea non ne ha finora offerta nessuna. La partita è passata nelle mani degli Stati Uniti e della Russia. Non possono sorprendere il rammarico e la critica, dura e venata di ironia, di Barack Obama nei confronti dei più bellicosi e irresponsabili fra i paesi dell’Unione europea. Ma ciò che rileva non sono le difficoltà oggettive di una soluzione dell’intrico dei conflitti mediorientali, dove i due maggiori contendenti, l’Arabia saudita insieme con gli emirati del Golfo, e l’Iran si contendono l’egemonia. L’aspetto più sconcertante è nell’autoemarginazione dell’Europa, dopo aver contribuito ad alimentare o essersi assunta la responsabilità diretta del magma mediorientale, con la pretesa insensata di esportarvi la democrazia. La questione delle masse disperate di migranti e di profughi richiedenti asilo, provenienti dalla più tormentata regione del pianeta, com’è oggi il Medio Oriente, non può essere fronteggiata senza porre come obiettivo primario la soluzione del conflitto siriano. La liquidazione di Assad, che tanto sta a cuore a Francia e Gran Bretagna, non è la premessa di un negoziato di pace (in corso fra molte difficoltà a Ginevra), quanto un possibile risultato a più lunga scadenza. Oggi le masse disperate di migranti e rifugiati pongono una questione umanitaria, e non dovrebbe essere solo Francesco a ricordacelo. Quando la guerra che ha devastato la Siria, ultimo anello della catena di guerre portate dall’Occidente nel Medio Oriente, troverà una soluzione, è del tutto prevedibile che molti migranti rientreranno nei paesi d’origine, dai quali la guerra, le distruzioni e la miserabilità delle condizioni umane li hanno scacciati.
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