La crisi catalana
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L'irrisolta questione dell'identotà mazionale Quello che sta avvenendo in Catalogna attorno al referendum per l’indipendenza del 1 ottobre prossimo induce a riflessioni più generali su temi che, si può dire, siano presenti in Europa fin dalla conclusione della prima guerra mondiale, con la cosiddetta “dottrina Wilson”, ma che, se si vuole, si possono far risalire fino alla pace di Augusta (1555), con la quale venne sancito il principio del cuius regio, eius religio e con esso l’inizio del declino dell’impero medievale e la nascita degli stati-nazione. Dopo il 1918, con l’applicazione, in diversi casi ad usum delphini, della wilsoniana “autodeterminazione dei popoli”, si vollero creare stati-nazione omogenei per lingua, cultura e religione (una d’armi, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue, di cor”, per dirla con l’Italia di Alessandro Manzoni in “Marzo 1821”) e annientare i grandi imperi dell’epoca, tedesco, austro-ungarico e ottomano, per dare spazio al nascente, nuovo impero americano, desideroso e capace di sostituirsi ai suoi omologhi britannico e francese, ormai in declino, nonostante la vittoria. La nascita dell’URSS e gli esiti della seconda fase della Guerra Europea hanno poi condotto, dopo il 1945, all’instaurarsi di un equilibrio imperiale bipolare est-ovest, che, fino alla caduta del Muro di Berlino e alla scomparsa dell’Unione Sovietica, ha tenuto a bada le spinte nazionalistico-identitarie presenti all’interno dell’Europa. In questi ultimi tempi si è molto parlato nel main stream della inattualità, se non della pericolosità dei nazionalismi, della negatività del cosiddetto “sovranismo”, individuando invece nell’irenistico orizzonte di una società senza confini, senza distinzioni di razze, di religione, di sesso (sintetizzata dalla celebre frase attribuita a Einstein, il quale, interrogato sulla razza di appartenenza al suo ingresso negli Stati Uniti ad Ellis Island nel 1933, rispose “razza umana”), la buona via da seguire. Tale prospettiva di stampo illuminista, che ha prodotto la pervicace utopia della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, ha tratto forza e giustificazione dalle ceneri di un’Europa distrutta dai nazionalismi. Tuttavia, se essa era comprensibile negli anni della ricostruzione di un intero continente annientato da un unico immane conflitto (la seconda guerra dei Trent’anni europea, dal 1914 al 1945), quando erano ancora vivi e operanti coloro i quali avevano direttamente patito quella rovina, a valle del crollo del sistema imperiale sovietico e del bipolarismo globale nei primi anni ‘90, la stessa prospettiva si è ossificata in proclami europeisti di maniera, rivelandosi nel contempo affatto irrealizzabile se non, addirittura, controproducente. Basti considerare la Brexit, la crescita generalizzata dei partiti nazionalisti identitari (vedi le ultime elezioni tedesche) e leggere le statistiche sulla disaffezione crescente dei cittadini europei per le attuali istituzioni comunitarie. La rottura di quell’equilibrio bipolare, scaturita dalla conclusione della Guerra Fredda (fredda sì, ma pur sempre guerra) avrebbe dovuto indurre a cercare un nuovo progetto di Europa, che tenesse conto delle grandi e radicali novità apparse sul teatro europeo e mondiale. Ma così non è stato. La spinta ideale e politica di Schumann e di Monnet, capaci di “inventare” istituzioni all’altezza delle circostanze, si è esaurita nella genesi di un governo europeo di profilo essenzialmente contabile, che patisce un forte deficit di controllo democratico e, cosa ancora più importante, nella rinuncia a elaborare un’identità europea adatta ai tempi nuovi del post ’89. Recitando il vuoto mantra del “no al sovranismo, no al nazionalismo”, senza indicare la direzione verso la quale avviarsi per risolvere la questione, sempre aperta e irrinunciabile, dell’identità dei popoli, si sono aperte ferite profonde e sanguinose nel cuore stesso del Continente. Consideriamo la Jugoslavia e la sua dissoluzione, iniziata anch’essa agli inizi degli anni ’90. Morto Tito (1980), la fragile costruzione statuale degli slavi del sud comincia a vacillare. Crollato l’equilibrio imperiale bipolare, ecco che si riaffaccia di nuovo alla ribalta il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Nel caso jugoslavo, l’Occidente (USA e UE) hanno ritenuto valide le ragioni dei “separatisti”, ragioni fatte poi valere con una guerra sanguinosissima (oltre duecentomila morti, massicci bombardamenti aerei, enormi distruzioni), i cui esiti sono ancora oggi malcerti (vedi la situazione della Bosnia-Erzegovina), ma che ha comunque condotto alla creazione di microstati, immediatamente riconosciuti dalla comunità internazionale (da ultimo persino l’evanescente Cossovo) e, in taluni casi, ammessi rapidamente nell’Unione Europea (Slovenia, Croazia). Viene da dire: perché, nel caos jugoslavo post URSS, si sono appoggiati gli stati scissionisti, si è sostenuta e finanziata la nascita di stati-nazione assai piccoli (la Slovenia arriva appena a due milioni di abitanti), si è promossa la distruzione di un Paese internazionalmente riconosciuto? Certo, si può ribattere che la Jugoslavia era uno stato recente, nato con una debole identità, voluto anche in funzione anti-italiana, per fare da contrappeso, dopo il 1918, alle aspirazioni plurisecolari dell’Italia post e preunitaria (Venezia, ma anche il regno di Napoli) a un’egemonia nell’area balcanica e sull’oriente mediterraneo europeo in generale. La Spagna invece è uno tra i più antichi stati d’Europa (risalente almeno alla Reconquista del 1492 e all’unione dinastica dei regni di Castiglia e di Aragona). Eppure, anche nella genesi dello stato unitario spagnolo ci sono elementi “imperiali”, cioè a dire che sovrastano e schiacciano le singole identità nazionali e culturali della penisola iberica. La Catalogna in particolare, avendo parteggiato per gli Asburgo nella guerra di successione spagnola, dovette subire il rigore dei decreti borbonici del 1716 (Decretos de Nueva Planta), con cui Filippo V toglieva ai catalani ogni forma di autonomia, ivi compreso l’uso della lingua loro propria. La politica “imperiale” castigliana continuò negli anni ’20 del secolo scorso, con la dittatura di Miguel Prima de Rivera e poi con quella di Francisco Franco, morto nel 1975, con la quale la repressione madridista toccò il suo vertice. La monarchia spagnola post-franchista non si è data una struttura federale, paragonabile a quella della Germania o a quella della defunta Jugoslavia titina, anche se ha concesso regimi diversificati di autonomia a talune realtà regionali particolarmente centrifughe, come la Catalogna o i Paesi Baschi. Essa ha mantenuto in buona sostanza un impianto centralista (il re è garante dell’unità del Paese. La Spagna resta Una, Grande y Libre, come recitava un noto slogan franchista). Arriviamo al punto: perché la Slovenia sì e la Catalogna no? Risalendo indietro nel tempo, c’è stato in verità nel cuore dell’Europa un modello politico-statuale cui guardare per trarne ispirazione per una nuova Europa: il Con un’Europa davvero forte e davvero democratica, governata da una Dieta confederale (non da un pallido scimmiottamento dei parlamenti nazionali, come è l’attuale, pressoché inutile e costosissimo parlamento europeo), eletta dai cittadini europei su base continentale e non più regional – nazionale e dotata di poteri autentici e trasparenti, ma limitati alle materie di comune interesse (commercio internazionale, armonizzazione economica e fiscale, difesa dei confini esterni, politica estera), la questione delle identità nazionali si potrebbe riaprire e risolvere senza demonizzazioni e senza invocare, quando fa comodo, l’intangibilità di stati-nazione, di cui peraltro e a ogni piè sospinto, si parla come di istituzioni superate e pericolose. Claudio Salone
Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/ |