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Commissione europea e Corte di Giustizia si muovono in direzione di un mercato del lavoro sempre più libealizzato, disarticolando le garanzie del "modello sociale europeo"
La crisi in corso con le sue pesanti conseguenze viene riproponendo il tema delle politiche sociali nei paesi a capitalismo avanzato, dagli Stati Uniti all’Europa. In questo quadro vale la pena di provare a formulare qualche riflessione sullo ‘stato dell’Unione’, cercando di rispondere alla domanda (non nuova, ma più che mai attuale): a che punto è l’ ‘‘Europa sociale”?
Si potrebbe ricordare, in primo luogo, limitando l’analisi agli eventi più significativi degli ultimi anni, il pervicace tentativo della Commissione europea, sostenuta da diversi governi nazionali, di far saltare le regole relative agli orari di lavoro e rendere ancor più elastici i criteri, già alquanto flessibili, tracciati dalla direttiva del 1993. La direttiva in parola stabilisce un tetto massimo di 48 ore di lavoro settimanali, sia pure calcolabili come media su un periodo quadrimestrale (ulteriormente ampliabile dai contratti collettivi). Essa, peraltro, contiene una norma molto insidiosa, fortemente voluta dal governo britannico dell’epoca, in forza della quale è consentito ai legislatori nazionali derogare al limite settimanale affidando ad accordi individuali la fissazione in concreto del limite settimanale massimo. Si pensava che questa clausola (c.d. di opting out) avrebbe dovuto essere rivista e, infine, cancellata: tanto più che la direttiva è stata adottata avendo come obiettivo primario non tanto la regolazione degli orari come tale, quanto la protezione della salute dei lavoratori, su cui notoriamente i regimi di orario di lavoro sono suscettibili di incidere in maniera molto rilevante.
Le cose sono andate diversamente. Messa sotto pressione da numerosi Stati membri, a partire da quelli dell’est europeo recentemente entrati a far parte della Comunità, e suggestionata dal modello americano degli orari lunghi, la Commissione, ormai da anni, sta cercando di far passare una modifica delle regole vigenti, in maniera da rendere strutturale e non più revocabile in discussione la possibilità di definire, su base individuale, orari settimanali di 55-60 ore. Il Parlamento europeo, grazie all’opposizione di socialisti e sinistra che è riuscita a coinvolgere anche parte dei popolari, ha fatto muro, ostacolando sinora con successo il tentativo di riportare le regole in materia di orario di lavoro a criteri ottocenteschi.
Vero è che oggi, nel pieno della crisi economica, le autorità comunitarie hanno riscoperto l’opportunità di contrarre gli orari per salvare l’occupazione. Ma c’è da scommettere che, quando la situazione si sarà assestata, le vecchie ricette per rilanciare produttività e competitività riprenderanno a circolare. E’ fin troppo facile prefigurare quale sarebbe lo scenario che si profilerebbe, nel caso in cui la manipolazione della direttiva sugli orari, prima o poi, andasse in porto: ampi spazi per politiche basate sul dumping sociale, come temono i socialisti europei, da parte dei paesi che si mostreranno pronti a sfruttare le nuove regole; oppure, alternativamente, una pressione irresistibile su tutti i legislatori nazionali per livellare verso il basso le regole oggi in vigore.
Con buona pace della retorica sul ‹‹ modello sociale europeo ››, del resto, il dumping sociale è già oggi ampiamente presente nel mercato integrato dell’Europa comunitaria. Chi non ricorda la discussione attorno al progetto di direttiva Bolkestein? Si trattava, appunto, di un tentativo di sancire come regola generale il principio del paese d’origine, che avrebbe avuto come effetto, fra l’altro, di legittimare una concezione della concorrenza fra imprese fondata sulla compressione di salari e diritti. La libertà di prestazione transnazionale di servizi stabilita dal Trattato, in altre parole, per essere davvero effettiva avrebbe dovuto essere liberata da ogni sorta di ostacolo, in particolare da quello rappresentato, per le imprese dei paesi dove il lavoro è low cost (quelli dell’est europeo in primo luogo), dall’obbligo di rispettare gli standard protettivi più elevati di altri paesi, allorché esse vi si spostino con i propri dipendenti per eseguire una determinata prestazione di servizi.
Quel tentativo non è passato. Fatto è che il dumping sociale, cacciato dalla porta (del progetto Bolkestein), rischia di rientrare dalla finestra, attraverso l’interpretazione di un’altra, precedente, direttiva del 1996, che riguarda specificamente il distacco di lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi transnazionale. Questa direttiva, per la verità, era stata a suo tempo approvata proprio per contrastare il rischio di dumping sociale, recependo le indicazioni di una famosa sentenza della Corte di giustizia, che aveva sostenuto che ‹‹ il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi o dei contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali a chiunque svolga un lavoro subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio, indipendentemente dal paese in cui è stabilito il datore di lavoro ››. Le regole della direttiva sono poi state nel complesso interpretate in maniera equilibrata dalla Corte. Negli ultimi tempi, però, la musica è cambiata.
Fra la fine del 2007 ed il 2008, le forti pressioni della Commissione per un’interpretazione minimalista delle regole del 1996 hanno fatto breccia presso i giudici comunitari, i quali, con una serie di sentenze che ha scatenato un’aspra discussione in tutta Europa, hanno fatto sapere che lo sciopero, quantunque diritto sociale fondamentale, non può intralciare oltre misura le libertà di mercato stabilite dal Trattato e, dunque, che la legittimità delle singole azioni di lotta sindacale, atte ad ostacolare quelle libertà, può essere affermata solo previa verifica della proporzionalità rispetto al fine perseguito; che non si può imporre per legge alle imprese di altri paesi, nel settore degli appalti pubblici, il rispetto dei livelli salariali fissati dalla contrattazione collettiva applicabile nel luogo di esecuzione dell’appalto (legittimando, nella specie, un caso macroscopico di dumping sociale da parte di un’impresa edile polacca, che versava ai suoi dipendenti attivi in Germania salari inferiori al 50% di quelli altrimenti dovuti in applicazione del contratto collettivo territoriale); che non è consentito, infine, ad un legislatore nazionale, neppure facendo appello a ragioni di ordine pubblico, estendere ai prestatori di servizi provenienti da altri paesi dell’Unione l’obbligo di rispettare un sistema di indicizzazione applicabile all’intera scala delle retribuzioni. E’ questo, dunque, il retroterra di vicende come quella che, nel febbraio del 2009, ha visto contrapposti i sindacati britannici all’impresa italiana Irem. Non conta qui ritornare sulla particolarità del caso specifico. Conta piuttosto ribadire che, se non interverranno ripensamenti (sul piano giurisprudenziale e/o normativo), vicende del genere, ed il fenomeno del dumping sociale che vi è connesso, nei prossimi anni rischiano di allargarsi a macchia d’olio.
La terza questione sulla quale vale la pena di spendere qualche parola riguarda la piega presa dalla Strategia europea per l’occupazione (Seo). La Seo fu inaugurata nel 1997, subito dopo la stipula del Trattato di Amsterdam, per venire incontro all’esigenza di alcuni governi nazionali, in particolare di quelli socialisti dell’epoca, di dimostrare che il processo d’integrazione non fosse centrato esclusivamente sugli aspetti economico-monetari. Essa si è espressa attraverso un insieme di indicazioni non vincolanti (il c.d. soft law) sulla base delle quali i singoli paesi avrebbero dovuto conformare le proprie politiche del mercato del lavoro. Nell’insieme si è trattato di suggerimenti eterogenei e persino contraddittori (in tema di servizi di collocamento, formazione continua, lavori atipici, flessibilità degli orari, non discriminazione e conciliazione fra lavoro e vita familiare, ecc.), costruiti apposta perché ciascun governo nazionale potesse attingervi la ricetta di maggiore gradimento. Sebbene sin dall’inizio gli Orientamenti e le Raccomandazioni formulati dalle autorità comunitarie nell’ambito della Seo siano risultati condizionati dall’idea che gli squilibri dei mercati nazionali del lavoro dipendano essenzialmente da rigidità sul versante dell’offerta di lavoro, per parecchio tempo si è andati avanti con cautela, senza preoccuparsi più di tanto dell’efficacia della Seo, ma anche senza calcare più di tanto l’accento sulla flessibilità del lavoro.
Dal 2006 in avanti il liberismo della Commissione guidata da Barroso è venuto allo scoperto anche su questo fronte. Dapprima con il Libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro, poi con le proposte sulla flexicurity, è stato esplicitato ciò che prima si poteva solo intravedere sullo sfondo, enfatizzando la necessità di spostare l’equilibrio delle tutele dal rapporto di lavoro (ovvero dalla protezione nei confronti dei licenziamenti) al mercato del lavoro (politiche attive e sussidi di disoccupazione). La ricaduta pratica di simili proposte è agevolmente immaginabile. Dal momento che, a prescindere da ogni considerazione sulla loro desiderabilità e/o equità, le politiche di flexicurity (per essere serie, alla “danese” per intendersi) sono molto costose, comportando oneri per le finanze pubbliche che proprio le stringenti regole europee (i ben noti parametri di Maastricht) impedirebbero a molti paesi di sostenere (a cominciare dal nostro: non sarà un caso se i governi di ogni colore si limitano a parlare della riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, senza mai tradurre le buone intenzioni in scelte conseguenti),
La flexicurity patrocinata dalla Commissione potrebbe con certezza essere attuata per la parte che riguarda le regole del rapporto di lavoro, lasciando i lavoratori nella più ampia insicurezza e precarietà economica nella fase di passaggio da un’occupazione all’altra. Naturalmente le autorità di Bruxelles si guardano bene dal sottolineare queste scomode controindicazioni. Né, a fronte di un numero di disoccupati che, nel pieno di una devastante crisi economica, ha superato nell’Unione europea la cifra di ventitrè milioni (con il tasso di disoccupazione schizzato al 9,6% nel dicembre 2009, 10% nell’Eurozona), alcun segno di ripensamento vero (a parte le indicazioni congiunturali sulla riduzione degli orari) si è sinora manifestato sulla bontà di strategie occupazionali (e di politiche economiche) come quelle seguite negli anni che ci stanno alle spalle.
La posta in gioco, come si vede, è altissima. Oggi, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e in presenza del nuovo Parlamento europeo e dell’istituzione della nuova Commissione, si tratta, né più né meno, di scegliere la direzione da dare al processo d’integrazione: se l’Europa debba essere niente più che un grande mercato basato sul dumping sociale o, al contrario, possa avviarsi a diventare una comunità sopranazionale fondata sulla coesione sociale ed il rispetto dei diritti del lavoro.