L’Italia di Renzi e l’Europa del 25 maggio
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La novità è nella sconfitta di quei governi che storicamente sono state alla base dell'Unione europea e dell'eurzona, che hanno pagato il prezzo della complicità delle élite nazionali con le poltiche europee di ausrterità. Le origini e le contraddizioni dell' "eccezjone" elettorale del governo Renzi. 1. Quindici anni fa l’euro nacque sotto i migliori auspici. L’Unione europea stava attraversano la fase di più alto sviluppo degli ultimi decenni. Il ritmo di crescita dell’occupazione aveva superato perfino gli Stati Uniti della New economy. Dopo la conferenza straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea di Lisbona dell’inizio del 2000 dedicata allo sviluppo dell’occupazione, la Commissione europea calcolò che alla fine del decennio i paesi dell’Unione avrebbero raggiunto il pieno impiego. Sotto questi favorevoli auspici iniziò il nuovo secolo dell’euro. Sappiamo che gli anni che seguirono non furono all’altezza delle promesse. In ogni caso, la fase critica dell’economia europea iniziò con la crisi del 2008, simboleggiata in America dal collasso della Lehman Brothers. L’Unione europea e, in particolare, l’eurozona reagirono alla crisi con la politica dell’austerità. Un controsenso, i cui risultati sono sotto i nostri occhi. 2. E’ in questo quadro che meritano di essere letti i risultati delle elezioni per il Parlamento europeo. Nei passati trentacinque anni queste elezioni hanno avuto un carattere più rituale che sostanziale. Non è stato così, questa volta. Il Parlamento europeo era stato finora caratterizzato, con eccezioni marginali, da una sorta di partito unico, formato da popolari e socialisti, teologicamente filoeuropeo. Ora, circa il 30 per cento dei nuovi eletti appartiene alla schiera degli “euroscettici”, quando non apertamente a favore dell’uscita dall’Unione europea. Se si fosse votato in 27 paesi sui 28 che compongono l’Unione, i due partiti che formano la maggioranza storica del Parlamento europeo sarebbero per la prima volta in minoranza. Solo con l’aggiunta dei rappresentanti dei due partiti tedeschi che sono alla base della Grande coalizione - CDU-CSU e socialdemocratici – i due partiti storici del Parlamento europeo – popolari e socialisti - recuperano un’esigua maggioranza. Ma, al di là della nuova composizione del Parlamento, la novità è nella fragorosa sconfitta subita da quei governi che sono alla base della costruzione europea e dell’eurozona. I risultati elettorali in Gran Bretagna e Francia cambiano la geografia politica dell’Unione europea. L’esito delle elezioni in Francia è stato, dal punto di vista dell’eurozona, ancora più dirompente. Il Front National di Marine Le Pen ha scavalcato sia il partito socialista del presidente Hollande che guida il governo, sia l’opposizione dell’UMP. La patria dei padri fondatori dell’Unione e poi degli artefici dell’euro, da Monnet a Schuman fino a Mitterand e Delors, ora vede i suoi storici partiti europeisti ridotti a eleggere, insieme, un terzo dei parlamentari europei. E il partito socialista di Hollande, due anni dopo la conquista della maggioranza e della presidenza, ridotto a un misero 14 per cento del voto europeo. 3. I risultati delle elezioni di maggio sono apparsi, per molti versi, sorprendenti. In realtà, confermano clamorosamente l’effetto micidiale della politica dell’asse Berlino-Bruxelles sui governi di un gran numero di paesi membri. In Spagna, il Partito popolare di Mariano Rajoy che aveva vinto le elezioni alla fine del 2011 con una larga maggioranza del 45 per cento ha visto crollare il consenso elettorale di quasi venti punti. Nell’insieme, le elezioni europee riflettono con i loro risultati non solo il fallimento delle politiche economiche e sociali che l’Unione e, in particolare, l’eurozona hanno messo in atto per fronteggiare la crisi. Non meno grave si rivela la crisi politica dei regimi democratici, che proprio la costituzione dell’Unione europea avrebbe dovuto rafforzare e indicare come un modello di democrazia. Una crisi che il dibattito corrente si sforza di oscurare attribuendone la responsabilità all’insorgenza dei “populismi” di destra e di sinistra, e alle degenerazioni estremistiche che vi s’intrecciano, rifiutando di soffermarsi sulle cause profonde della loro insorgenza. Un successo inaspettato e intrigante. E, tuttavia, non inspiegabile rispetto allo scenario di massacro di un gran numero di governi in carica disegnato dal risultato elettorale europeo. In meno di tre anni, dall’autunno del 2011, tre governi italiani sono stati spazzati via dal vento della crisi. Il primo a cadere, con inestimabile beneficio per l’igiene politica del paese, fu il governo Berlusconi. Ma il senso di sollievo che accompagnò la sua caduta ebbe breve durata. Il governo tecnocratico di Mario Monti significò un implicito e duro commissariamento per conto della Commissione europea. Le elezioni del 2012 ne decretarono il fallimento, non diversamente da quanto era successo agli altri governi dell’eurozona. Il governo di Enrico Letta ha avuto una vita ancora più breve, questa volta esautorato da Renzi, una volta conquistata la segreteria del Pd, e deciso ad assumere direttamente la direzione del governo. Si è così manifestata l’eccezione italiana che ha visto l’unico governo della mappa europea trionfalmente premiato dal voto di maggio. La domanda che si pone è: come intende impiegare Renzi questo successo? La risposta dipenderà, al di là di tutte le promesse di riforma, o dei “compiti a casa” di montiana memoria, dal cambiamento che sarà in grado di promuovere nel rapporto con le devastanti politiche europee. Che si tratti di un impegno arduo è fuori discussione. Finora nessun governo è riuscito a spostare l’asse politico dell’austerità del binomio Berlino-Bruxelles. Ma il risultato elettorale ha aperto o, se si vuole, reso obbligatoria la ricerca di un’alternativa. Innanzitutto, questo cambiamento rientra nel progetto improntato al “cambiare verso” di Renzi? E, in caso positivo, con quali possibilità di manovra e di riuscita? La cosa certa è che difficilmente si può imprimere una svolta significativa, un cambiamento di segno, alla politica dell’eurozona in una condizione di isolamento o, per contrasto, di corteggiamento di Angela Merkel, abile timoniera della corazzata tedesca. L’hanno già fatto gli altri governi, di diversi colori, senza alcun apprezzabile risultato. Il quadro macroeconomico col quale il governo è chiamato a confrontarsi è chiaro, e non basta la retorica del cambiamento a mascheralo. Non a caso, a corredo delle sue “Raccomandazioni”, la Commissione europea delinea le prospettive economiche italiane del 2014-15. Basta dare uno sguardo. La crescita reale del PIL dovrebbe essere pari allo 0,6 per cento nel 2014 e all’1,2 nel 2015; calcolando un livello d’inflazione, secondo la Commissione, rispettivamente dello 0,7 e dell’1,2, la crescita nominale del PIL raggiunge nella soma dei due anni il 3,7 per cento. Ammettendo che la previsione si realizzi pienamente - ma la BCE indica un minore valore dell’inflazione, con la conseguente riduzione dei valori ipotizzati dalla Commissione - il PIL nominale aumenterebbe nei due anni di circa 60 miliardi, e le entrate fiscali pressappoco della metà. Nello stesso periodo di due anni – è bene ricordarlo - l’Italia dovrà sborsare circa 170 miliardi per il servizio degli interessi. Attingendo a quali risorse? Poi a partire dal 2016 dovrebbe osservare il Fiscal compact che impone la riduzione del debito di un ventesimo l’anno nel corso di venti anni. Il che equivale a un’aggiunta di risparmio di altri svariati miliardi, da sommare alla spesa per gli interessi. Questo è quello che ci impongono le autorità europee. Si tratta di decidere se si tratti di una posizione irragionevole o semplicemente grottesca. Sulla base della crescita prevista, l'avanzo primario, che era nel 2013 al 2,2 per cento del PIL, pari a circa 36 miliardi di euro, dovrebbe aumentare fino a totalizzare nel corso di due anni circa il 90 miliardi di euro, da utilizzare per ottenere una riduzione accelerata del deficit mirata al pareggio del bilancio ne 2016 verso il pareggio del bilancio. L'impegno a un avanzo primario in progressiva crescita in un quadro di bassa crescita è significa sterlizzare un’enorme quantità di risorse che altrimenti potrebbero essere finalizzato alla ripresa degli investimenti pubblici, assolutamente necessarie per rilanciare la crescita economica. Consideriamo l’ alternativa, di una riduzione alla metà dell’ avanzo primario previsto, prolungando il periodo previsto per il pareggio del bilancio: le risorse liberate, pari a circa 50 miliardi potrebbero dare un colpo di frusta agli investimenti pubblici come motore essenziale della crescita. Questa linea dovrebbe essere adottata fin quando la crescita del PIL, sostenuta anche dal moltiplicatore degli investimenti pubblici, avrà raggiunto un tasso di crescita del PIL di almeno il cinque per cento.. In ogni caso, vale la pena sottolineare che il disavanzo di bilancio che rimarrebbe fermo intorno al 3 per cento del PIL, è la più bassa tra i grandi Stati membri dell'UE, ad eccezione della Germania. Non è un caso che la Spagna, indicata come un modello di successo da parte della Commissione Europea, è previsto ancora nel 2014 al 5,8 per cento del PIL. Un consistente rilancio di investimenti pubblici, particolarmente concentrati in lavori di manutenzione, che sono la leva più immediata ed efficace per accelerare la crescita e l'occupazione, è l’unica strada per rovesciare la tendenza autodistruttiva degli ultimi anni che ha comportato, insieme, l’aumento del debito e della disoccupazione, in un infernale circolo vizioso. 6. L’alternativa è nel mostrare che il re è nudo. E se lo è agli occhi dell’Italia, lo è anche per la Francia (e, come abbiamo visto, per molti altri paesi). Non a caso, a Hollande la Commissione europea ha raccomandato di accelerare il rientro del disavanzo -significativamente più alto di quello italiano – aumentando il prelievo fiscale e accelerando le famigerate riforme di struttura, tra le quali spiccano la riduzione della spesa pensionistica e del sistema sanitario – che, per inciso, è considerato per la sua efficienza e qualità a uno dei più alti livelli di eccellenza tra i sistemi sanitari pubblici. Insieme, Francia e Italia (e certamente con il consenso di altri paesi in condizioni simili, se non peggiori) potrebbero arrestare la spirale di una politica economica insensata e autodistruttiva. Potrebbero, ma i primi segnali del dopo-elezioni di maggio non vanno in questa direzione. Il governo italiano si propone di ottenere modifiche marginali di flessibilità di bilancio dal punto di vista di alcune tipologie di investimenti in cambio delle proclamate riforme di struttura. La Francia si muove in una direzione analoga col rinvio di un anno del pareggio del bilancio, e la promessa di tagli alla spesa pubblica. La necessità di una svolta non dovrebbe ragionevolmente lasciare adito a dubbi. Il pareggio del bilancio non può essere perseguito in un clima di deflazione e disoccupazione montante. Ancora meno può essere ridotto il rapporto debito/Pil secondo le indicazioni del Fiscal compact. Le “Raccomandazioni” della Commissione europea tendono perpetuare la condizione già sperimentata nel dopo-crisi. Senza il preventivo rilancio di una crescita sostenuta e duratura, è insensato continuare a inseguire il pareggio del bilancio e la riduzione del debito. Ma nessuna crescita è possibile nelle condizioni attuali senza il rilancio di massicci investimenti pubblici, che sono a loro volta la premessa indispensabile per ridare fiato agli investimenti privati. 7. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha rilanciato con l’annuncio delle nuove misure il ruolo della politica monetaria. Indubbiamente, le banche e i mercati finanziari si gioveranno dell’ampliamento della liquidità e di una nuova riduzione dei tassi - fino a prevedere una penale dello 0,1 per cento per i fondi depositati presso la Banca centrale, col proposito di stimolare una maggiore erogazione del credito alle imprese e alle famiglie. Rimane il fatto che l’offerta di liquidità non può spingere gli investimenti, a cominciare dalle piccole e medie imprese, se la domanda dei loro prodotti ristagna, quando non continua a diminuire. Draghi ha anche affermato che altre misure non convenzionali potranno essere adottate, se l’approfondirsi della deflazione lo richiederà. Ancora una volta la cura del malato è rinviata all’aggravamento della malattia, come se già oggi non fosse spaventosamente grave. In ogni caso, la politica monetaria può essere un utile complemento, ma da sola non può curare la crisi e indurre le imprese, in un contesto deflazionistico, a investire, aumentare la produzione e l’occupazione. Non c’è bisogno di professare una particolare fedeltà keynesiana per comprendere che la chiave è negli investimenti pubblici. Si è paragonata la crisi del 2008 a quella del 1929, ma se ne sono oscurati gli insegnamenti. Il New Deal fu una combinazione di grandi interventi pubblici e riforme sociali che hanno cambiato per il resto del secolo la fisionomia delle democrazie occidentali. Oggi tutto sembra convergere verso una sorta di anti-New Deal. La crisi è stata affrontata dalle autorità che guidano l’Unione e particolarmente l’eurozona con politiche sbagliate e disgraziatamente controproducenti. Le elezioni di maggio hanno avuto il merito dell’unica ribellione democratica possibile espressa con un massiccio voto di dissenso. Quei risultati potrebbero essere l’ultimo segnale d’allarme per le elite di governo dei tre principali paesi dell’Unione dopo la Germania. Raccogliere quei segnali e imprimere un cambiamento radicale di politica alla nuova Commissione europea che sarà eletta col necessario consenso degli stessi governi, è oggi una possibilità concreta e al tempo stesso ardua poiché implica uno scontro con la Germania che è il vero dominus dell’eurozona e indirettamente dell’Unione europea. |