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La ristrutturazione del debito greco è inevitabile, ma la BCE si oppone e l'incertezza aggrava la situazione, mentre non si esclude l'ipotesi di un ritorno alla dracma.
Poco tempo fa Martin Wolf (Financial Times 10 maggio) ha scritto che l’approccio delle autorità europee alla crisi dei debiti sovrani (Grecia, Irlanda e Portogallo) è simile alla storia di un uomo condannato a morte dal sovrano, a meno che non insegni a parlare al suo (del re) cavallo entro un anno. A chi gli domanda perché abbia accettato, risponde: in un anno possono succedere tante cose: il re può morire, o posso morire io, o il cavallo può imparare a parlare.
Nel frattempo il nervosismo dei mercati cresce: quando Der Spiegel è uscito con la notizia di un ritorno della Grecia alla dracma, l’euro ha avuto uno scivolone, e le banche europee hanno subito perdite pesanti, senza distinzioni tra quelle che hanno in portafoglio decine di miliardi di titoli greci, irlandesi o portoghesi e quelli che ne hanno molto pochi.
Il problema è che mai come in questa occasione le autorità europee hanno suonato musiche così dissonanti. La BCE non accetta l’ipotesi non solo di una dichiarazione unilaterale di default, ma neanche di una operazione di “ordinata ristrutturazione” del debito, che è invece prevista (dalla seconda metà del 2013) da parte di ESM (meccanismo europeo di stabilità), cioè del fondo che sostituirà l’EFSF. Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della BCE, è più volte intervenuto sostenendo che per la Grecia una ristrutturazione, con un taglio del valore dei titoli, sarebbe un disastro totale. Le banche perderebbero la possibilità di ottenere finanziamenti da parte della BCE, in quanto quest’ultima non accetterebbe più come collaterale i titoli; questa posizione è stata ribadita di recente da un altro membro del board, il tedesco Juergen Stark. Inoltre la Grecia non ha neppure la possibilità di emettere moneta propria per finanziare le spese pubbliche, come aveva farro ad esempio l’Argentina dopo la dichiarazione di default.
Paul De Grauwe, in un interessante lavoro (1), afferma che “entrando in una unione monetaria, i paesi membri cambiano la natura del loro debito sovrano in modo radicale”; egli mostra come la Spagna, che ha un livello di debito pubblico più basso del Regno Unito, deve pagare tassi d’interessi più alti proprio perché ha perduto la sovranità monetaria.
Il fatto che la Grecia abbia perso tempo con l’ipotesi di ristrutturazione, viene valutato negativamente dalla BCE. La quale non ha peraltro digerito il fatto che il Consiglio europeo a fine marzo non abbia concesso la possibilità all’ESM di operare sul mercato secondario dei titoli pubblici, ma solamente di intervenire direttamente in asta. Ciò vuol dire che ci sono quasi cento miliardi di titoli presso la BCE, sui quali incombe una non indifferente perdita potenziale.
C’è da chiedersi se una ristrutturazione concordata sia in realtà così letale per il debito greco; di fatto il mercato già oggi sconta una perdita sui titoli greci. In un anno i bond hanno perso percentuali variabili dal 24,5% (a due anni) al 39,3% (dieci anni). E’ chiaro che molte banche greche si troveranno in difficoltà, ma un intervento del fondo europeo e delle stesse banche europee possono evitare il collasso del sistema. Del resto Christine Lagarde, in una recente dichiarazione, nella quale parla già come direttore in pectore del FMI, ha aperto ad una ristrutturazione “volontaria”, concordata quindi tra le banche europee creditrici e il governo greco. Ma d’altra parte i messaggi che arrivano dalla BCE sono ben diversi, e questo crea una situazione di particolare incertezza e di fibrillazione sui mercati.
Il problema è che le possibilità di stabilizzare il debito, per poi procedere ad una sua riduzione, sono nulle. Vendere patrimonio pubblico può aiutare, ma ci vuole tempo e non basta. Tagliare le spese pubbliche genera una caduta del reddito con conseguenze negative, e la stessa cosa accade con la deflazione dei prezzi, che dovrebbe servire a recuperare competitività. Un eccesso di medicine non accelera la guarigione del malato. La diminuzione del deficit dal 15,5% del 2009 al 10,5% del 2010 è già un risultato rilevante ottenuto dal governo greco, anche se inferiore al target concordato (9,4%). Ma raggiungere livelli di avanzo primario mai accaduti storicamente è chiedere l’impossibile. Come ha detto Paul Krugman, il ritorno alla dracma è assurdo (adesso), ma in prospettiva potrebbe diventare un’opzione.
Non è a caso che Maria Damanaki, commissario europeo alla pesca, abbia dichiarato che il tema del ritorno alla dracma sia ormai “sul tavolo”. La dichiarazione sembra volta sia all’interno che all’esterno. Da un lato cioè all’opposizione (e a qualche componente dello stesso Pasok) e più in generale ai cittadini greci, invitandoli ad accettare l’ennesimo programma di austerità; dall’altro alle autorità europee, invitandole a rendersi conto che forzare al di là del ragionevole e possibile significa arrivare ad una soluzione che i greci non vogliono e che aprirebbe il vaso di Pandora della moneta unica
Riuscirà il debito greco ha raggiungere il 2013, o imploderà prima? Difficile rispondere, ma quello che sta già accadendo è che continuerà sarà un trasferimento del debito a carico del fondo europeo, versione EFSF (oggi) e ESM (domani). Si tratta di un prospettiva rischiosa, ed esposta alle reazioni delle opinioni pubbliche della Germania e di altri paesi nordici.
[1] “The governance of a fragile eurozone”, 15 march, www.econ.kuleuven.