L’immaginario perbenista nella giurisprudenza del lavoro

Sottotitolo: 
Sommario: 1. Ricordare gli inizi. – 2. Una giurisprudenza neurovegetativa. 3. – La micro-discontinuità come costante evolutiva. – 4. Il big-bang dello statuto dei lavoratori.
  1. Ricordare gli inizi.

Interpretare - argomentare – decidere. La sequenza delle tre parole ha il pregio di sintetizzare, nella sua sobrietà, l’intima essenza dell’attività dell’operatore giuridico. Ma, riportata in cima ad una pubblicazione sulla giustizia del lavoro [1], mi ha dato la netta sensazione di possedere involontariamente anche una straordinaria forza evocativa: permette di misurare a colpo d’occhio l’evoluzione compiuta da un intero settore dell’ordinamento giuridico. 

Cent’anni fa, le regole del lavoro dipendente non esistevano.

Erano ancora in fase di gestazione. Una fase che si sviluppò nelle forme del volonteroso bricolage ascrivibile ad una magistratura speciale, istituita da una legge di fine ‘800 ad imitazione dei proud’hommes francesi, per gestire una conflittualità che, come quella operaia, era senza precedenti e trovava completamente impreparati tanto il ceto professionale dei giudici ordinari quanto i governanti. 

Se cent’anni fa i probiviri non potevano avere il compito di interpretare formule legali, nemmeno erano tenuti ad argomentare le decisioni che adottavano. 

In effetti, argomentavano poco; o, più esattamente, non sentivano il bisogno di argomentare più di quanto facessero perché corrispondeva alle aspettative del legislatore che funzionassero da sensori o antenne della “comune coscienza” in uscita dall’età pre-industriale e, per tacita convenzione, si presumeva che si rispecchiasse nel “tipo di contratto di lavoro praticamente in uso fra galantuomini” [2]. La presunzione non era arbitraria. Anzi, era da ritenersi verosimile. Ma, stante la disparità di potere contrattuale tra le parti che impediva (come tuttora impedisce) anteriormente all’assunzione lo svolgersi di un’autentica trattativa, a condizione di dare onestamente per scontato che il tipo di contratto preso a modello dai decisori fosse quello adottato dall’imprenditore che, secondo la valutazione datane dall’ambiente sociale circostante, si asteneva dall’abusare della sua supremazia.  

In conclusione, la sola vera incombenza dei probiviri era quella di decidere, andando alla ricerca del “diritto dell’avvenire”.   

Malgrado le numerose difficoltà di varia natura che la intralciavano, la ricerca è stata tutt’altro che infruttuosa.  Sta lì a documentarlo il formarsi di orientamenti decisionali compatti e costanti su temi cruciali come la libertà di licenziare. Nell’insieme, essi rivelano la presenza di quello che i commentatori dell’epoca definivano un “convincimento” diffuso. Forse, sarebbe preferibile dire: nazional-popolare, pur tenendo conto che il numero delle giurie effettivamente operanti in maniera soddisfacente sia stato per svariati motivi inferiore a quello auspicato. Ad ogni modo, la cosa più importante che oggi si possa fare è interrogarsi su cosa significa il fatto che nella disciplina del lavoro dipendente contenuta nel codice civile del 1942 sia riconoscibile, come scriverà uno storico del diritto [3], “il portato dell’umile giurisprudenza probivirale”. 

A mio avviso, è l’inconfutabile testimonianza che collegi giudicanti a base elettiva, e di composizione paritetica, si sono discostati il meno possibile dall’immaginario perbenista ove le esigenze di produttività ed efficienza, regolarità e disciplina dell’impresa industriale si conciliano con l’etica degli affari. 

Era l’etica che, come insegnava Cesare Vivante [4], vedeva nell’imprenditore uno speculatore sul lavoro, cioè un intermediario che si arricchisce lucrando sulla differenza di prezzo delle merci comprate e vendute. Era l’etica che, al tempo stesso,  non vedeva motivo di differenziare il contratto di lavoro dal contratto di vendita se non per la peculiare qualità della res negoziata e s’interpellava su come e quanto tenerne conto nella costruzione del regolamento giuridico. 

E’grazie alla visibile tensione a materializzarla – avvalendosi del proprio sapere e consultando le raccolte di usi aziendali effettuate dalle Camere di commercio dei maggiori centri manifatturieri – che dei giudici improvvisati hanno finito per guadagnarsi il nostro rispetto. E ciò benché quello di cui avevano la paternità fosse un diritto piccolo piccolo. Piccolo come l’élite che lo elaborò. Un diritto che, slegato dalla dimensione collettiva e distante dalla sfera pubblica, era per ciò stesso bisognoso di innesti, allora impossibili. Per il momento, insomma, un diritto paragonabile ad un’insula in flumine nata; sulla quale sbarcheranno con l’intento di esplorarla (salvo poi andarsene in fretta) i gius-privatisti più giovani e anche per questo più curiosi e meno conformisti, ma che diventerà la stabile dimora di un gius-privatista ligio alla tradizione pandettistica.    

2.- Una giurisprudenza neurovegetativa. 

Può sorprendere che la trama fondativa di questo diritto sia sopravvissuta all’ abolizione dell’istituzione probivirale. Ma la cosa non ha del sensazionale.

Il fatto è che il regime fascista aveva tolto ai giudici la responsabilità di risolvere i problemi d’ordine pubblico suscitati dalle dinamiche dell’incipiente associazionismo sindacale, restituendoli alla competenza di questori e prefetti.

Così, mentre le avanguardie dottrinali del diritto corporativo si stressavano lungo percorsi in apicibus e senza approdi verificabili, la popolazione forense ritrovava la possibilità di operare in un ambiente rilassato. La litigiosità giudiziaria, infatti, non era qualitativamente diversa da quella occasionata dall’esecuzione di tutti i contratti tra privati. Per certo, era de-politicizzata e assolutamente fisiologica.

 E ciò perché, una volta demonizzato il conflitto collettivo e addomesticato il sindacato nelle forme prescritte dalla “fascistissima” legge del 1926, il diritto del lavoro veniva automaticamente svuotato dell’aggressiva progettualità che soltanto la libera misurazione dei rapporti di forza è in grado di sollecitare. Infatti, in cambio dell’inderogabilità se non in melius degli standard protettivi fissati da leggi e contratti collettivi, diventata nel frattempo il principale connotato del diritto del lavoro, quest’ultimo garantiva l’insindacabilità del potere aziendale, anzitutto prevedendo la licenza di licenziare. 

Pertanto, quel che i giudici avevano imparato all’Università, seguendo corsi e studiando testi dove il diritto del lavoro si esauriva nel diritto del contratto individuale di lavoro, era sufficiente per amministrare la giustizia che è lecito aspettarsi da un giudice di pace (o giù di lì): un decisionismo equitativo incline alle mediazioni di basso profilo piuttosto che a bilanciamenti tra valori (non negoziabili) e diritti (non monetizzabili).

Come accennavo poc’anzi, la riaffermazione del primato della giurisdizione ordinaria imposto dal regime nel 1928 non determinò brusche lacerazioni della tela giurisprudenziale. Chissà se i giudici togati si mantennero in un rapporto di tendenziale continuità con la giurisprudenza probivirale perché le riconoscevano l’autorità di creare precedenti in qualche misura vincolanti o perché credevano sul serio che l’imprenditore fosse un operatore economico che agisce esclusivamente in vista della massimizzazione del profitto; che i suoi dipendenti avessero un cuore a forma di salvadanaio e, più in generale, che il lavoro avesse bussato alla porta della storia giuridica per farsi incartare col cellophane delle categorie logico-concettuali del diritto dei contratti più esposti alle vicende del mercato dei beni. 

Sta di fatto che, aderendo alla concezione gius-privatistica che privilegia l’aspetto patrimoniale del rapporto di lavoro, si sottrassero alle suggestioni dell’ideologia giuridico-politica del fascismo, con la conseguenza di non farsi sedurre dalle icone più reclamizzate dal fascismo che rompevano deliberatamente con la tradizione del pensiero giuridico proto-liberale. Anzitutto, li lascia pressoché indifferenti l’icona che raffigura l’imprenditore come un servitore della sua stessa impresa: “amministratore di interessi altrui. Gli interessi della più vasta comunità di lavoro della quale egli è soltanto uno dei membri” [5]; e sia pure quello che conta di più. 

Vero è che l’icona era immediatamente ricavabile dalla Carta del lavoro pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale nel 1927. Tuttavia, l’autore della più significativa monografia sul contratto di lavoro pubblicata nel ventennio, inserita nella collana di un prestigioso Trattato di diritto civile [6], considera la Carta come un contenitore di principi generali cui l’ermeneutica assegna solitamente un rilievo secondario, mentre attribuisce alla casistica giudiziaria un’importanza costruttiva superiore persino a quella dei contratti collettivi.

D’altra parte, giudici educati al più rigido positivismo difficilmente potevano essere persuasi dall’apologetica di giuristi adoranti che fa della Carta una “super-legge” e non potevano non prestare ascolto ai più realisti (o più pessimisti?) corporativisti. Secondo loro,  la Carta  non arrivava neanche a sfiorare il rapporto di lavoro: “questa struttura”, dicevano, “resta sempre privata e contrattuale”. 

Pertanto, la giurisprudenza corporativa diede il meglio di sé fertilizzando il terreno nel quale affondano le proprie radici alcuni concetti-base ad elevato rendimento emotivo dei quali si approprierà il codice civile del ’42: il lavoratore ha l’obbligo di collaborare con l’imprenditore, di non tradirne la fiducia e di essergli fedele. 

In definitiva, l’influenza culturale più profonda esercitata sulla giurisprudenza dal corporativismo fascista è l’implicita assimilazione del contratto di lavoro ad un ticket staccato nelle biglietterie di Stato per consentire l’accesso allo status di cittadino in quanto produttore. Sul punto dovrò ritornare in chiusura. Intanto, però, non posso trattenermi dal segnalare che il luogo comune secondo cui lo status occupazional-professionale acquisibile per contratto è il prius e lo status di cittadinanza il posterius, se è coerente col disegno di una società di produttori pacificata, la costituzione repubblicana vorrebbe rigettarlo come un’eresia; ma è un’eresia che nemmeno lo statuto dei lavoratori del 1970 è riuscito a sconfiggere.

3.– La micro-discontinuità come costante evolutiva.

La bozza di affresco fin qui tratteggiata suggerisce che il diritto del lavoro ha l’abitudine di evolvere con la medesima modalità con cui è nato: mediante giudizi piuttosto che mediante leggi. I giudizi pronunciati dai soggetti istituzionali cui spetta risolvere controversie. I giudizi, formulati con valenze prescrittive anche quando assumono un’intonazione descrittiva, dai professionisti dell’interpretazione giuridica – a cominciare dai componenti dello star-system accademico. Infine, i giudizi provenienti dall’universo degli operatori d’ogni ordine e grado che, ciascuno nel proprio ambito e col potere di cui dispone, contribuiscono a formare il clima culturale dei discorsi giuridici [7]

Non è un’anomalia, dato e non concesso che sia tale. In ogni caso, non è circoscritta ad una porzione dell’ordinamento. Tutt’al contrario, si riconnette all’esigenza di sviluppare l’attitudine omeostatica di cui l’intero diritto positivo è geneticamente provvisto, e non può fare a meno, per rimuovere le sue oscurità espressive, colmare le sue lacune, correggere le sue imperfezioni, adeguarsi ai mutamenti di contesto; in breve, per esistere e assicurarsi un futuro.

Tuttavia, è innegabile che in materia sindacale e del lavoro il fenomeno ha contorni vistosi, specialmente nel nostro paese. Infatti, da noi può correttamente dirsi che il processo di formazione delle regole sindacali e del lavoro è stato presidiato da una cabina di regia affollata da un’infinità di interpreti il cui nome è destinato a rimanere sconosciuto. 

In altra occasione [8], per cercare di far capire che – nonostante i gap generazionali e i differenti contesti di appartenenza – ciò che li accomuna è la propensione a riannodare piuttosto che a tagliare i fili dei discorsi giuridici, ho voluto chiamarli tessitori. Infatti, le ricerche svolte nell’arco di poco meno di mezzo secolo, come mi hanno consentito di mettere in luce che la micro-discontinuità è la costante evolutiva dell’intera disciplina, così mi hanno persuaso che la sua l’interiorizzazione da parte degli interpreti-tessitori condiziona gli svolgimenti del diritto vivente [9].

Non che la percepiscano come un valore in senso proprio; però, la considerano un vincolo di sistema – più sotterraneo che segreto. Diversamente, si stenterebbe a comprendere pienamente la ragione per cui gli effetti dirompenti concentrati in un solo evento non si manifestano se non ad esito di un prolungato filtraggio che li seleziona, li stempera, ne ritarda o rallenta il prodursi, favorendone così la metabolizzazione.Nell’immediato, infatti, né la prassi delle relazioni sindacali e di lavoro né la giurisprudenza subiranno contraccolpi apprezzabili in seguito all’entrata in vigore della costituzione repubblicana che – in ragione dei suoi contenuti, tra i più avanzati – avrebbe obbligato a ricominciare tutto daccapo.

Paradigmatico è l’insuccesso dell’istanza di defascistizzare i codici. La richiesta di far risultare per tabulas che si era consumato un passaggio d’epoca affinché gli interpreti ne fossero testualmente vincolati aveva il difetto dell’infantilismo massimalista. Infatti, venne respinta e si optò per il mantenimento in vita del pre-esistente diritto del lavoro. Come dire: la minaccia di accendere falò si allontana in fretta e la Repubblica accetta il ruolo dell’erede senza beneficio d’inventario, malgrado la pessima reputazione del de cuius – un ruolo che gli interpreti svolgono come possono o sanno finché non interverrà il legislatore o non avrà la possibilità di pronunciarsi la Corte costituzionale, che s’insedierà soltanto nella seconda metà degli
anni ’50. 

Maturata in un clima prossimo alla rassegnazione dei rinunciatari, la scelta è permissiva ed insieme temeraria. Permissiva perché la Repubblica implicitamente esorta i più distratti, ma anche i più interessati al restauro conservativo, ad imparare l’astuzia di buttare via l’acqua sporca e non il bimbo che ci sta dentro. Contemporaneamente, la scelta è temeraria nella misura in cui espone la costituzione al rischio di essere delegittimata; e non tanto perché la costituzione sarà prevedibilmente circondata dal vuoto quanto piuttosto perché la sua inattuazione sarà caratterizzata dal falso pieno degli scenari tirati su da una giurisprudenza che rifà il maquillage del diritto collettivo del lavoro, lasciando sostanzialmente inalterato quello individuale.   

Per questo, con una contrattazione collettiva che è costretta a camminare su di una distesa di cocci di diritto corporativo, il formante del diritto del lavoro nel dopo-costituzione, e sino agli anni ’60 inoltrati, è – in misura massiccia, una misura che non ha equivalenti nelle coeve esperienze di paesi omogenei al nostro – meno legislativo che dottrinale e più giurisprudenziale che dottrinale. Di fratture o cesure se ne contano poche e, comunque, la logica dominante s’ispira al moderatismo della giurisprudenza corporativa che si era distaccata da quella probivirale soprattutto per una buona dose di formalismo che era, per l’appunto, la cifra stilistica del fascismo giuridico. I nostri giudici, si osservava, sono “pronti ad intenerirsi e andare praeter legem quando si tratta di problemi che toccano il lavoratore singolo, (…) ma al contempo inclini, come prova la giurisprudenza sullo sciopero, a vedere tuttora nel sindacato un fatto eversivo dell’ordine sociale” [10].

4. – Il big-bang dello statuto dei lavoratori. 

Diciamo allora la verità: senza il maggio del ‘68, senza l’autunno caldo del ‘69, senza lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio del ’70, difficilmente i giuristi si sarebbero accorti che si stava riproducendo l’eguale nel diseguale. 

Per i giuristi del lavoro, ovviamente la novità più rumorosa è stata sprigionata dal protagonismo del legislatore statutario non solo per il sostegno prestato al sindacato, ma anche perché vietava al datore di lavoro di perquisire il dipendente che sospettava di avere rubato, di impadronirsi dei suoi stili di vita e dei suoi stessi pensieri, di discriminarlo per qualunque motivo. Come dire: perché concedeva al lavoratore in quanto tale più di ciò che può dargli un contratto di scambio tra utilità economiche. 

Per questo, il riconoscimento dell’esigibilità dei diritti di cittadinanza nell’ambito del rapporto di debito-credito instaurato da un contratto di diritto comune non poteva non mettere in discussione la legittimità dell’immaginario perbenista che si auto-determina all’interno dell’orizzonte di senso connaturale al medesimo. Infatti, l’immaginario perbenista ha potuto aleggiare sull’esperienza gius-lavoristica dai primordi perché si fondava su apriorismi edificati con la pietra dura del dogma: postulando che non potesse stabilirsi una correlazione biunivoca tra stato occupazional-professionale acquisibile per contratto e status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico, se ne traeva la conclusione che la loro coabitazione non potesse non tradursi in un dualismo competitivo in cui si sa a priori quale dei due vada sacrificato a vantaggio dell’altro.

Tutto ciò, invece, nel dopo-statuto non è consentito, perché il contratto di lavoro non è più l’invalicabile collinetta che preclude al diritto del lavoro di vedere quel che c’è dietro ed esserne condizionato. Anzi, lo statuto si propone proprio di riscrivere grammatica e sintassi dell’etica degli affari nel presupposto che lo Stato non garantisce illimitatamente la libertà d’iniziativa economica privata. E’, al contrario, costituzionalmente tenuto a sottometterla a limiti e vincoli attinenti alla salvaguardia dei valori che il suo libero svolgimento può deteriorare. 

Pertanto, è una banalità sostenere che lo statuto ha i giorni contati perché il suo referente era la fabbrica fordista; la circostanza che quest’ultima sia stata superata in seguito alla trasformazione dei modelli di organizzazione del lavoro nulla toglie al fatto che essa fosse ormai il paradigma della fragilità dei diritti di sicurezza, libertà e dignità umana e della loro vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa.

Irreversibile, piuttosto, è lo spostamento del centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore in modo da far cadere l’accento più sul primo che sul secondo – ossia, più sul cittadino che sul debitore di lavoro. Per questo, a chi oggi mi chiede cosa penso dello statuto a 45 anni di distanza dalla sua emanazione sono solito rispondere con un apparente paradosso: rispondo che è passato troppo poco tempo per esprimere un giudizio definitivo.

 
Infatti, la cultura giuridica (come quella sindacale, peraltro) non si è resa conto della virtuale ricchezza del nuovo inizio; e ciò anche perché nello statuto quella linea di politica del diritto è più accennata che sviluppata. Tuttavia, la sua incompiutezza non ha impedito il generalizzarsi della percezione che si tratta della punta di un iceberg di grandezza inusitata che bisogna disintegrare prima che produca danni.

Diversamente, non si spiegherebbe la resistenza che un significativo settore del ceto degli operatori giuridici [11] oppone alla prospettiva seccamente contraria in cui si sta muovendo da una decina di anni la legislazione e che, nell’arco degli ultimi quattro, ha accelerato l’inversione della tendenza a demercificare il lavoro e tornare al nanismo del suo diritto. In effetti, una situazione che, come quella tuttora in atto è caratterizzata dalla drastica contrazione degli investimenti produttivi e dalla conseguente espansione della disoccupazione, si presta ad essere gestita promuovendo, direbbe Stefano Rodotà, la riduzione del diritto del lavoro a variabile dipendente dell’economia. 

Gli snodi della road map per rendere il più innocuo o il più ineffettivo possibile quel che ne resterà, del corpus normativo più gagliardo del ‘900, sono molteplici. In sintesi, la strategia rivolta a riportare indietro le lancette dell’orologio si articola su due piani, l’uno complementare all’altro. 

Primo: restituzione della regolazione del lavoro all’autonomia contrattuale dei privati, con l’obiettivo di annientare la vocazione novecentesca del lavoro ad intercettare l’evoluzione del costituzionalismo moderno, interagire con essa ed orientarla in direzione della rifondazione dello Stato. In fin dei conti, i più incalliti reazionari – da sempre convinti che al lavoro sia stato consentito di rompere il suo millenario silenzio a patto di non alzare troppo la voce – ogni volta che possono puniscono con durezza le trasgressioni.

Così, la più significativa manifestazione della volontà di punire il lavoro per la promessa non mantenuta è la disposizione di una legge del 2011 che attribuisce alla contrattazione collettiva periferica (“di prossimità”, nel linguaggio legislativo) la facoltà di derogare in peius non solo alla contrattazione nazionale, ma anche a gran parte dello stesso diritto del lavoro legificato. Clamorosamente incompatibile con uno Stato di diritto, l’eccezionale facoltà è concessa in un periodo in cui il ricatto occupazionale mortifica l’autonomia privato-collettiva e, soprattutto a livello d’impresa, la spadroneggia. Con tutta evidenza, dell’autonomia privato-collettiva il legislatore ha una concezione volgarmente e cinicamente strumentale:  per lui, il consenso prestato dalla rappresentanza sindacale non è che un veicolo di legittimazione sociale del peggioramento dei trattamenti economico-normativi. 

Secondo: emarginazione della tutela giurisdizionale dei diritti [12]. La necessità di deflazionare il contenzioso fornisce al legislatore un facile e comodo alibi. Troppo facile e troppo comodo. Il primo a smontarlo, del resto, è un legislatore che ha il protervo candore di dichiarare apertamente la sua sfiducia nei confronti dei giudici [13] e coltiva un’idea delle “buone pratiche” che ne privilegia la dissociazione dalla legalità. Infatti, anziché imporre ai governanti di investire risorse per migliorare il rendimento di una scassata organizzazione giudiziaria, il legislatore preferisce inventarsi organismi para-amministrativi, come le Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro, adibite alla confezione di salvacondotti giudiziari di clausole derogatorie [14] e manifesta il suo favore per gli strumenti alternativi della composizione delle controversie di lavoro. Dalla conciliazione stragiudiziale all’arbitrato, che anzi si ritrova al centro delle politiche del lavoro senza merito alcuno,vista la deplorevole modestia che finora ha esibito di sé. Ma i ripetuti tentativi di valorizzarlo si spiegano. Per sua natura, l’arbitrato è il mezzo più elegante che ci sia per attenuare e, se autorizzato a decidere secondo equità, ad elidere le conseguenze più acuminate del più importante diritto di attuazione costituzionale, come voleva qualificarsi il diritto del lavoro.   

Stando così le cose, bisognerebbe concludere che, malgrado gli slogan che lo descrivono catapultato verso il futuro, il legislatore sta correndo verso il passato. 


* Questo articolo è destinato agli studi in onore di Antoine Lyon-Caen.

[1] E’ il fascicolo 2/3 del 2014 di Lavoro e diritto, curato da valenti giuristi come Maria Vittoria Ballestrero e Oronzo Mazzotta.

[2] E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Roma, 1906, p. 25.

[3] E’ Severino Caprioli; v. la sua densa introduzione alla ristampa (Torino, 1992) del massimario cit. alla nota prec., sul quale si è tenuta nel 1994 una Giornata Lincea i cui atti sono stati pubblicati l’anno successivo a cura dell’Accademia naz. dei Lincei col titolo Enrico Redenti. Il diritto del lavoro ai suoi primordi.

[4] Trattato di diritto commerciale, Torino, 1893.

[5] F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica. Società per azioni, Stato e classi sociali, Bologna, 1980, p. 224.

[6] P. Greco, Il contratto di lavoro, Torino, 1939. Il trattato era diretto da F. Vassalli.

[7] R. Guastini, Teorie dell’interpretazione. Lo stato dell’arte, in Lav. dir., 2014, spec. p. 235-236.

[8] Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto, Roma, 2009.

[9] Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, Bologna, 1995.

[10] F. Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes (1963), in Costituzione e movimento operaio, Bologna, 1976, p. 146.

[11] Vi appartengono molti di quanti  hanno partecipato all’iniziativa editoriale cui mi richiamavo in apertura.

[12] V. da ult. C. Ponterio- R. Sanlorenzo, E lo chiamano lavoro, 2014, spec. p. 83 ss.

[13] M.V. Ballestrero, Tra confusioni e sospetti. Clausole generali e discrezionalità del giudice del lavoro, in Lav. dir., 2014, p. 389 ss.

[14] M. Novella,Certificazione in materia di lavoro e tutela giurisdizionale, in Lav. dir.,2014, p. 347 ss.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.