L’Euro di Ionesco
Sottotitolo:
La crisi dell'eurozona è il segreto meglio nascosto della campagna elettorale. 1. Nel 2018 ricorre il decimo anniversario dall’inizio della crisi con il collasso della Lehman Brothers, la grande banca d’investimenti americana. Da allora l’economia mondiate è completamente mutata. L’eurozona è l’unica area del pianeta che, considerata nel suo insieme, stenta a uscire dalla crisi, facendo segnare i minori tassi di crescita e più alti tassi disoccupazione. L’Italia ne è stata, nel 2017, un tipico esempio con uno dei più bassi tassi di crescita e uno dei più alti tassi di disoccupazione dell’eurozona. Il paradosso è che l’euro doveva rappresentare all’inizio del secolo, quando fu istituito, un paracadute rispetto alle possibili crisi sulla scena internazionale. Le cose sono andate in senso contrario. Gli Stai Uniti hanno ritrovato un ritmo di crescita sufficiente, e ridotto la disoccupazione al 4 per cento, il livello più basso da due decenni. Il Giappone soffre di una mancanza di mano d’opera che rischia di bloccarne la crescita. Al contrario, nell’eurozona la disoccupazione oscilla intorno al dieci per cento, in Italia all'11, in Spagna al 16, per non citare la Grecia ridotta in brandelli. Questo è il quadro generale che prospetta l’eurozona nel confronti economici con le altre aree del mondo. Ma il quadro generale è ingannevole, come capita sempre quando ci si ferma alle medie. L’eurozona presenta un panorama economico variegato e lo scenario tedesco si presenta profondamente diverso. La Germania non partecipa delle sofferenze dell’eurozona. Al contrario, l’euro ne ha rafforzato la posizione in Europa e nel mondo. Il suo tasso di crescita è stabilmente al di sopra della media dell’eurozona e il tasso di disoccupazione, pari al 3,6 per cento, è il più basso della sua storia da molti decenni a questa parte, e tra i più bassi a livello globale. Ora, Emmanuel Macron si è assunto l’arduo compito di rivitalizzare la vecchia e gloriosa partnership promuovendo un’audace politica di riforme, la prima delle quali, non a caso, è la riforma del lavoro. Conviene guardarla da vicino, utilizzando un recente editoriale del Financial Times, che ne propone una sintesi. “La maggior parte delle imprese – scrive il giornale della City - potrà negoziare i salari e le condizioni di lavoro direttamente con i lavoratori e potrà più facilmente assumere e licenziare” (5/1/2018). Mentre Macron smantella la contrattazione collettiva, è significativo che contemporaneamente in Germania, la IG Metall, il sindacato che affilia oltre due milioni di metalmeccanici, negozia una piattaforma rivendicativa che comprende un aumento del salario di sei euro l’ora, e la riduzione dell’orario di lavoro da 35 a 28 ore settimanali, con una perdita di salario parzialmente compensata dall’intervento pubblico, per i lavoratori che ne facciano richiesta per ragioni personali o familiari – una piattaforma evidentemente consentita a un paese che si colloca con buone ragioni al centro dell’eurozona, mentre nelle province dell’impero diventa un’innovazione esemplare la liquidazione della contrattazione collettiva. E’ su questa base che Macron ritiene di avere le carte in regola per ottenere dalla Germania una riforma politica e istituzionale degli assetti dell'eurozona. In particolare, Quanto all’istituzione di un ministro delle finanze europeo - dobbiamo supporre francese – potrebbe essere accettato dalla Germania come contropartita alla nomina di un presidente tedesco alla testa della Banca centrale europea come successore di Draghi. Né dovrebbe incontrare particolari ostacoli l’istituzione di un Fondo monetario europeo, dopo il conflitto con l’FMI al tempo della crisi greca. ll documento congiunto di CDU-CSU e SPD non lascia adito a equivoci. Su richiesta di Martin Schulz, l’Europa compare al primo posto nella Dichiarazione congiunta ma, pur con l’impegno di espandere il bilancio dell’UE, rafforzando il “Meccanismo europeo di stabilità”, non s’intravvedono cambiamenti significativi. A Schulz rimane la soddisfazione di aver annunciato la costituzione degli “Stati Uniti d‘Europa” entro il 2025, magro, quanto illusorio, conforto per un partito che sotto la sua guida ha ottenuto il peggiore risultato elettorale degli ultimi 70 anni. 3. Che l’Italia sia l’anello debole della catena dell’eurozona non ha bisogno di molte spiegazioni. Proprio per questo, si poteva immaginare che la scadenza elettorale di marzo ne avrebbe fatto un punto centrale del dibattito. Niente di più sbagliato. Con una specie di “Gentlemen agreement”, i partiti sono progressivamente allontanati dal tema. Ultimo nella lista Di Maio, candidato simbolico alla direzione del governo per conto delle “Cinque stelle”. Il timore è che il semplice alludere a dei dubbi sull’euro comporti il rischio di essere” ostracizzati”, privati della cittadinanza, e allontanati dalla città, come usava nell’Atene di Pericle. Il punto è che si non possono ridurre i debiti se la crescita rimane soffocata. E non si può attendere il pareggio del bilancio prima di adottare le misure indispensabili per rimettere in moto la crescita. Il pareggio del bilancio è in sé un obiettivo astratto. L’assetto del bilancio varia da un paese all’altro per ragioni strutturali e per il variare delle circostanze. Basta confrontare i dati correnti: la Germania ha un avanzo di bilancio pari allo 0,6 del PIL, l’Italia un disavanzo del 2,3 per cento, la Francia del 2,9; la Spagna del 3 per cento, e così via. Se si allarga lo sguardo all’intera Unione europea, i divari sono ancora più marcati: per esempio, la Svezia ha un avanzo dell’1,0, mentre la Polonia un disavanzo del 3,3. E non ostante queste differenze, si tratta di paesi con un tasso di crescita variabile fra il 3 e il 4,5 per cento. In altri termini, i disavanzi hanno una propria dinamica che riflette un'ampia quantità di fattori, e produce effetti profondamente diversi. Per l’eurozona tutte le vacche sono nere nell’oscurità delle sue regole e se non lo sono devono diventarlo nel più rapido tempo possibile. Fuori di metafora, tutti debbono azzerare i disavanzi di bilancio, per raggiungere il Sacro Graal del pareggio nel più breve tempo possibile. Si tratta di dati di fatto che testimoniano i paradossi dei vincoli che imprigionano l’euro. Ma vale la pena di ricorrere alla sintesi che ne offre Barry Eichengreen, professore di economia a Berkeley e a Cambridge. L’argomento è chiaro. L’euro è la moneta condivisa, ma ciascun paese deve essere responsabile della propria politica di bilancio. Questo non significa che si possa godere di pasti gratuiti. Poiché ogni paese è soggetto al giudizio dei mercati, i livelli di disavanzo entrano a far parte dell’insieme degli elementi che determinano i tassi d’interessi. I quali sono diversi sulla base della complessiva condizione di solvibilità di ciascun paese, con o senza la presenza della moneta unica. Se guardiamo all’emissione di titoli di stato con durata decennale vediamo, a titolo d’esempio, le seguenti differenze: la Germania corrisponde un interesse annuo pari a 0,45; la Francia 0,76; la Spagna 1,50; l’Italia 2,07. e così via. In estrema sintesi, la partecipazione all’euro offre il vantaggio della stabilità del cambio, ma questo non implica necessariamente la paralisi della politica fiscale che ricade sotto la responsabilità di ogni singolo stato insieme con gli oneri che ne derivano per il suo finanziamento. Da dove deriva l’ostinata resistenza a un discorso aperto senza pregiudizi sull’euro e l’eurozona? Perché sottoporre il paese a regole di politica economica che l’esperienza dimostra inefficaci e controproducenti? In un recente articolo Dani Rodrik, professore di economia internazionale a Harvard, prova a darne una spiegazione convincente. Dopo le elezioni di marzo, il governo, ammesso che ce ne possa essere uno in grado di arrivare al prossimo autunno prima di nuove elezioni, dovrà misurarsi con l' incompatibilità fra le conseguenze rovinose delle regole imposte da Bruxelles e una politica di responsabilità nazionale in ordine alle politiche di crescita, di occupazione, di spesa sociale. O, per porre la questione in termini positivi, la definizione di nuove compatibilità. A condizione di svelare l’incognita meglio nascosta della campagna elettorale: la crisi dell’eurozona. E, al tempo stresso, la possibilità di risolverla, senza uscire dall’euro, ma cambiandone le regole d’ingaggio. Antonio Lettieri
Editor of Insight and President of CISS - Center for International Social Studies (Roma). He was National Secretary of CGIL; Member of ILO Governing Body and Advisor for European policy of Labour Minister. (a.lettieri@insightweb.it) |