L’età della disgregazione

Sottotitolo: 
"L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo" è il titolo del volume di Alessandro Roncaglia", (Laterza, 2019). Insight pubblica uno stralcio della presentazione dell'Autore  all’Accademia Nazionale dei Lincei..

Il titolo allude al fatto che la ricerca in economia è sempre più frammentata, sia per campi sia per orientamenti di ricerca. Chi si occupa di finanza o di econometria raramente conosce i dibattiti di teoria del valore o dell’impresa; inoltre, in ciascun campo coesistono impostazioni radicalmente diverse: keynesiani, neoclassici, istituzionalisti, e così via, fino agli induttivisti sostenitori di una econometria ateoretica.

Questa duplice frammentazione impedisce una esposizione lineare e complica ulteriormente un compito già reso difficile dalla vastità del terreno da coprire: ogni anno escono migliaia di riviste e migliaia di volumi sui diversi temi dell’economia. Accade così che tanti ricercatori, per affrontare in modo davvero approfondito il tema prescelto, passino la vita a studiare l’ultima falange del dito mignolo, come diceva Becattini. Il problema in realtà non è concentrarsi sul dito mignolo, ma farlo in totale assenza di consapevolezza del corpo umano al quale è collegato. Quindi, proprio la frammentazione rende indispensabile un tentativo di raccordo. Anche perché in moltissimi casi la disgregazione permette agli economisti attivi nei vari campi specialistici di sorvolare sulle debolezze spesso tragiche delle fondamenta della loro ricerca.
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A partire dagli anni Settanta, i filoni micro e macro cui abbiamo accennato perdono terreno rispetto a un insieme di filoni di ricerca, come il monetarismo o le aspettative razionali, la scuola delle scelte pubbliche o la teoria dei mercati finanziari efficienti, che nel loro complesso portano a un cambiamento radicale nell’impostazione della politica economica in direzione neoliberale, che tende ad affidare al mercato la soluzione di tutti i problemi. Tra questi filoni di ricerca, quello delle aspettative razionali appare il più coerente con la concezione di base della teoria tradizionale: l’equilibrio tra domanda e offerta viene raggiunto istantaneamente grazie alla perfetta razionalità e capacità previsiva degli agenti economici; la disoccupazione o è volontaria o è dovuta a errori di politica economica che in sostanza portano a un costo del lavoro troppo elevato; le politiche di austerità favoriscono lo sviluppo.

La quarta parte del libro riguarda filoni di ricerca considerati non pienamente eterodossi, ma che minano aspetti importanti dell’ortodossia tradizionale. Così l’economia comportamentale (behavioural economics) parte dalla constatazione di violazioni ai postulati che esprimono il rigido concetto neoclassico di razionalità per giungere a formulazioni teoriche come la prospect theory di Kahneman e Tversky o la ‘razionalità limitata’ di Herbert Simon che lascia ampio spazio a regole del pollice procedurali. In modo analogo nell’analisi dei mercati monetari e finanziari si passa dalla teoria dei mercati efficienti, perennemente in un equilibrio che riflette lo stato delle conoscenze degli operatori (la teoria per cui le probabilità di vincere o perdere in borsa di un operatore finanziario esperto sarebbero le stesse di chi sceglie lanciando un dado o di una scimmietta che abbassa a caso una leva o un’altra), alla teoria della fragilità finanziaria e delle crisi proposta su basi keynesiane da Hyman Minsky, che dopo un periodo di relativo oblio ha conosciuto un rinnovato interesse in seguito alla crisi finanziaria mondiale del 2007-8.

La quinta e ultima parte del libro riguarda un insieme di filoni eterodossi: i post-keynesiani noti anche come scuola di Cambridge, marxisti, evoluzionisti, istituzionalisti e la teoria delle capabilities di Sen. Si tratta di un insieme variegato di impostazioni che però condividono alcune caratteristiche che mi sembrano essenziali per una ricostruzione della teoria economica. In tutti i casi si considera fondamentale la divisione del lavoro, quindi la presenza di una molteplicità di merci e di agenti economici eterogenei tra loro; si rifiuta la nozione statica di equilibrio tra domanda e offerta (e quindi ad esempio si spiega la distribuzione del reddito non come determinata dall’equilibrio tra domanda e offerta dei fattori di produzione ma come frutto dell’evoluzione di elementi che riguardano il potere contrattuale delle classi e dei ceti sociali) in favore di una concezione storico-dinamica; si rifiuta la nozione monodimensionale di homo oeconomicus perfettamente egoista (un individuo asociale, le cui preferenze sono totalmente indipendenti da quelle di chiunque altro, e totalmente concentrato sul perseguimento del proprio benessere materiale) a favore di quella di un agente complesso, influenzato da un variegato insieme di interessi e passioni, talvolta – come nella tragedia greca – in conflitto profondo tra di loro.

Posso trarre una doppia morale dalla mia fatica. In primo luogo, l’esame del complesso percorso della teoria economica degli ultimi tre decenni di secolo delinea un quadro molto insoddisfacente. Le fondamenta delle teorie mainstream poggiano sulle sabbie mobili di concetti che ben poco hanno a che fare con il mondo reale: agenti economici disumanizzati; dati fondamentali del problema – le preferenze dei consumatori – la cui esatta natura è incerta, oscillando tra la complacibilitas e la virtuositas dei teorici medievali; una trattazione dell’incertezza che oscilla tra il negarla, il ridurla al rischio probabilistico, il considerarla totalmente impenetrabile e quindi impossibile da trattare teoricamente. La stessa teoria è insoddisfacente: quando si abbandonino gli assunti di comodo di una sola merce e un solo agente rappresentativo, unicità e stabilità dell’equilibrio risultano indimostrabili, con la conseguenza che la mano invisibile del mercato viene clamorosamente negata; non a caso il filone della teoria assiomatica dell’equilibrio economico generale, così importante negli anni Settanta, è oggi considerata con il fastidio riservato all’eterodossia.
In secondo luogo, la varietà delle impostazioni – specie di quelle eterodosse – costituisce una ricchezza del dibattito economico contemporaneo, da trattare con interesse e non con il vero e proprio astio che la teoria dominante riserva a chi non è allineato. Un recente libro, edito dalla casa editrice della Bocconi e con la prefazione di un ex rettore della stessa università, parla di “negazionismo” – un termine sprezzante, riservato ai no-vax o ancor peggio ai negazionisti dell’Olocausto – con riferimento alle impostazioni che non condividono il verbo della teoria economica dominante: cosa non solo sbagliata in sé, ma addirittura ridicola se consideriamo le fragili basi su cui poggia la teoria economica dominante.

Alessandro Roncaglia
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