Italia e Spagna nella crisi dell'eurozona

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La Commissione eruropea é condiscendente verso il governo di centro-destra spagnolo di Mariano Rajoy come premio per la (contro)riforma del mercato del lavoro.

Come è noto, le misure di austerità imposte dalla Germania (e satelliti nordici) a tutto l’Europa hanno causato, nei sette anni 2007-2014, una caduta complessiva del PIL in tutti i paesi euro-sud, con la Grecia che ha avuto la diminuzione più grave (circa un quarto del PIL). Dopo la Grecia è stata l’Italia ha subire la caduta più forte (circa il 10%), mentre i due paesi iberici hanno avuto una diminuzione di circa la metà. Mentre attendiamo di vedere come finirà il braccio di ferro tra Berlino e Atene, può essere interessante confrontare le due maggiori economie dell’euro-sud, Italia e Spagna. Il PIL italiano è il terzo dell’eurozona (oltre 1600 miliardi), quello spagnolo è circa i due terzi, ma il PIL pro-capite spagnolo è l’86% di quello italiano. I due paesi, a differenza della Grecia e del Portogallo, ed anche dell’Irlanda, sono sempre rimasti sui mercati finanziari per finanziare il loro debito pubblico, e i loro spread rispetto alla Germania hanno variato in su e giù con un alto grado di correlazione. In alcuni periodi lo spread italiano era più alto, in altri più basso, ma le evoluzioni sono state sempre sincronizzate; attualmente entrambi gli spread si situano sui cento punti base.

Se mettiamo da parte il 2009, dove la recessione ha riguardato praticamente tutto il mondo, e consideriamo i quattro anni 2010-2014, possiamo notare che entrambi i paesi hanno avuto una complessiva caduta del PIL: Italia -4,3% e Spagna -2,5%. I deficit cumulati nei quattro anni ammontano a 12,3 punti per l’Italia e a ben 32,2 punti per la Spagna. La Spagna ha avuto una media annua di oltre otto punti per anno rispetto a poco più dei tre punti dell’Italia. Come conseguenza il rapporto tra debito pubblico e PIL è cresciuto di quasi 44 punti in Spagna e di 16 punti in Italia. Certo l’Italia ha un debito più alto (132%) ma ora la Spagna sta arrivando al 100%; ciò significa che mentre prima della crisi economica il debito spagnolo (in rapporto al PIL) era il 36% di quello italiano, ora la percentuale è salita al 74%.

D’altra parte il maggior deficit pubblico di cui ha potuto godere la Spagna è stata una delle ragioni per cui il calo del PIL è stato più contenuto rispetto a quello dell’Italia. La domanda che è lecito porsi è per quale ragione Bruxelles sia molto accondiscendente verso i deficit spagnoli. Forse la risposta si può trovare nelle misure sul mercato del lavoro che il governo di destra spagnolo ha preso da quando ha vinto le elezioni. Un dato può sintetizzare gli effetti delle misure: la quota delle remunerazioni dei lavoratori dipendenti sul PIL (comprensive degli oneri sociali) in Spagna era 50,1% nel 2010 ed è scesa a 46,9% nel 2014; una diminuzione veramente notevole del 6,4%. In Italia invece la quota è scesa molto poco: da 40% a 39,7%.

Ecco le ultime previsioni della Commissione Europea (5 febbraio 2015) per i due paesi:

European Economic Forecast Winter 2015

Forecasts for Spain

2013

2014

2015

2016

GDP growth

-1,2

1,4

2,3

2,5

Inflation

1,5

-0,2

-1,0

1,1

Unemployment

26,1

24,3

22,5

20,7

Public budget balance

-6,8

-5,6

-4,5

-3,7

Gross public debt

92,1

98,3

101,5

102,5

Current account balance

 

1,5

-0,1

0,6

0,5


Forecasts for Italy

2013

2014

2015

2016

GDP growth

-1,9

-0,5

0,6

1,3

Inflation

1,3

0,2

-0,3

1,5

Unemployment

12,2

12,8

12,8

12,6

Public budget balance

-2,8

-3,0

-2,6

-2,0

Gross public debt

127,9

131,9

133,0

131,9

Current account balance

0,9

1,8

2,6

2,6

Ecco quindi la maggiore benevolenza verso la Spagna: si tratta dell’allieva più diligente della Germania, sulla strada per divenire un’economia export-led (ma la strada è molto lunga). Effettivamente le esportazioni spagnole sono cresciute molto (+22,8 in quattro anni), ma per la verità la performance di quelle italiane non è stata così negativa: +17,6%. E comunque il saldo positivo delle partite correnti italiano è stato l’anno scorso di 31 miliardi contro il 9,4 di quello spagnolo.

Come si vede le previsioni di crescita per questo anno e per il prossimo sono nettamente migliori per la Spagna; è possibile, come prevede il Documento di Economia e Finanza (DEF) presentato dal governo italiano, che la crescita sia impercettibilmente più elevata (0,7), ma la distanza rimane tutta. D’altra parte tra i due paesi c’è una differenza di quasi due punti di deficit, e quindi maggiori spese (o minori entrate) in Spagna rispetto all’Italia.

La cosa più interessante del DEF è che le differenze, tra l’andamento tendenziale dell’economia (quello cioè senza nessuna nuova misura) e quello programmatico (tenendo conto delle misure), praticamente non ci sono. Nel 2016 è prevista una crescita programmatica del PIL nominale (crescita reale + inflazione) pari a 2,59, lievemente inferiore (-0,38) di quella tendenziale (2,97), plausibilmente per il fatto di disinnescare l’aumento delle imposte indirette previsto dalla manovra di bilancio del 2014. Per quest’anno è previsto un deficit di 2,6 invece che 2,5, che Renzi ha subito usato a fini elettorali (tra poco più di un mese ci sono elezioni amministrative) parlando di un “tesoretto” di 1,6 miliardi. Avrebbe potuto anche aggiungere che nel 2016 la differenza tra i due deficit sarà di 0,4 (1,8 programmatico invece di 1,4 tendenziale) e quindi il tesoretto sale a 6,5 miliardi.

Ma forse è il Ministro Padoan che ha consigliato prudenza; attende prima il via libera di Bruxelles, poiché i governi italiani hanno adottato, vuoi per adesione al fiscal compact, vuoi per paura dello spread, la regola di Ignazio di Loyola “ perinde ac cadaver” verso il Vaticano (nel nostro caso Berlino). Si spera in un atteggiamento benevolo, invocando la clausola delle riforme di Juncker, secondo la comunicazione della Commissione Europea ‘Making the best use of the flexibility within the existing rules of the Stability and Growth Pact’ (13 gennaio 2015).  Il DEF elenca varie “riforme” che dovrebbero dare importanti effetti nel futuro, ma quella che conta agli occhi della Commissione è il Job Act, il quale evidentemente  dovrebbe produrre gli stessi effetti sui salari che si sono avuti in Spagna.

Se si devono prendere per buone le previsioni della Commissione (che sono state quasi sempre eccessivamente ottimistiche) la Spagna tra due anni avrà quasi recuperato il livello del 2007, ma per l’Italia i tempi si preannunciano molto più lunghi. Il tasso di disoccupazione rimarrà a doppia cifra, e va ricordato che in Italia i giovani tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano, i cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training) rappresentano il 26% degli under30, e questo dato, se non fosse per la Grecia (28,9%), sarebbe il record in Europa.

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it