Il velo tecnocratico nelle poltitiche di bilancio *.

Sottotitolo: 
Le conseguenze del grado di arbitrio nelle stime di bilancio nella definizione degli obiettivi di politica fiscale e dell'  occupazione.  Le ambiguità circa il suo carattere tecnico e politicamente neutrale nel quadro normativo dell'’Unione Europea.

Come oracoli moderni, i numeri e le statistiche esercitano il fascino dell’oscuro, che ha il potere di generare una verità la cui logica sfugge ai più. Così è anche per la stima di bilancio strutturale, che evidenzia il legame tra le finanze pubbliche e la congiuntura economica. Si tratta di un esercizio statistico condotto dalla maggior parte dei governi e delle organizzazioni internazionali, con notevoli conseguenze sulle politiche e su come esse vengono percepite pubblicamente.                                                        

Questa, come ogni altra stima, dovrebbe essere utilizzata con cautela. Eppure la maggioranza delle persone sembra inconsapevole dei suoi limiti di applicabilità e del notevole grado di arbitrio che essa racchiude nel definire gli obiettivi di politica fiscale, come ad esempio il livello “ottimale” di disoccupazione.

D’altra parte, una certa opacità riguardo alle implicazioni contenute già nella sua formula e ambiguità circa il suo carattere tecnico e politicamente neutrale sembrano essere proprio gli elementi essenziali della sua nascita e fortuna.

Pertanto non sorprende che nel corso del tempo la sua formula sia cambiata notevolmente, adattandosi alle circostanze storiche e alle preferenze politiche dominanti. La trasformazione più significativa avvenne nel corso degli anni Settanta, quando da strumento di sostegno alle politiche di pieno impiego, diventò un strumento di sorveglianza del processo di riduzione della spesa pubblica. È infatti in quest’ultima forma che nel 2005 è entrato nelle procedure fiscali dell’Unione Europea, diventando progressivamente lo strumento principale di definizione delle linee guida europee per gli stati membri.

La sua nascita e fortuna risalgono al momento tra gli anni Trenta e Quaranta in cui emerse la consapevolezza che la composizione del bilancio pubblico può essere un fattore fondamentale di mediazione politica, tramite il quale definire il rapporto stato-mercato. Assieme a questa consapevolezza venne la scoperta che la rigida osservanza di restrizioni di bilancio riferite a grandezze stimate possono veicolare una notevole ma nascosta flessibilità verso interessi specifici.

Fu a quel tempo, infatti, che le élite americane cominciarono a scoprire i vantaggi della spesa pubblica in deficit. Non di qualsiasi tipo di spesa, naturalmente, ma di quella specifica combinazione che garantisse un alto tasso di crescita e tasse ridotte per le grandi società.

Dato che si trattava del tardo New Deal, questo significava camminare lungo uno stretto valico, oltre il quale da un lato stava la sinistra socialdemocratica – favorevole a una forte tassazione del capitale, nazionalizzazioni e uguaglianza sociale – e dall’altro le simpatie autoritarie, nonché protezioniste, di larga parte dell’industria.

Un gruppo in particolare, il Committee for Economic Development, era molto attivo e influente nel trovare questa terza via, fin dalla sua creazione nel 1942. Nello sforzo di liberare le politiche per il pieno impiego dallo stigma del socialismo e, al tempo stesso, svuotandole del loro potenziale rivoluzionario, il Committee  sviluppava popolari progetti di riforma, finanziava e diffondeva i risultati di rilevanti lavori di ricerca e interveniva direttamente nel dibattito pubblico. Fu così che giunse ad abbracciare una parte, accuratamente selezionata, delle idee di Keynes, contribuendo a formare la dottrina ufficiale del Keynesianismo americano.

Questa efficace operazione per l’egemonia produsse un longevo insieme di strumenti e pratiche per istituzionalizzare e assicurare il successo a preferenze minoritarie.

Tra questi vi è la stima di bilancio strutturale, chiamata High Employment Budget nel progetto originale del 1944 e Full Employment Surplus nella seguente versione sviluppata dal Council of Economic Advisers di John F. Kennedy, i suoi consiglieri economici ufficiali.

L’idea di fondo consiste nel separare la componente strutturale del saldo di bilancio, che corrisponde al valore che quest’ultimo assumerebbe in una condizione ideale di reddito, chiamata reddito potenziale, e la componente ciclica, che dipende dalla distanza del reddito da quella condizione ideale. In tal modo, l’effetto sul saldo di bilancio dello sforzo fiscale “netto” del governo (delle misure prese attivamente) può essere stimato separatamente dalla variazione del gettito fiscale e delle spese sociali per effetto della congiuntura. Ma il risultato di questa stima dipende enormemente da come viene definito il reddito potenziale. Com’è ovvio pensare, nel tempo e nelle diverse scuole di pensiero questo è avvenuto in modo assai diverso ma semplificabile in due tendenze: come target, o come un ottimo naturale cui l’economia viene attratta automaticamente. Nella prima opzione, un deficit strutturale può risultare da un’espansione fiscale troppo ridotta, nel secondo da una contrazione fiscale troppo tiepida.

La prima definizione si applica alla versione del Committee for Economic Development e a quella Keynesiana. Quest’ultima in particolare, negli anni Sessanta, si basava su un tasso di disoccupazione target del 4%. La seconda definizione invece è prevalsa a partire dagli anni ottanta quando un consenso è emerso riguardo al suo metodo di calcolo, basato essenzialmente su tecniche di scomposizione della variazione congiunturale come il filtro di Hodrick-Prescott. Tutte queste tecniche si riducono essenzialmente a medie ex-post del reddito, che peraltro seguono quest’ultimo molto da vicino (Palumbo, 2013). Quindi, non solo il reddito potenziale diventa il reddito “normale”, ma esso rispecchia una definizione di normalità che giustifica a posteriori l’andamento dell’economia, ignorando come questo sia anche effetto della politica fiscale.

Questa implicazione è condivisa da un altro famoso metodo oggi utilizzato, tra gli altri, dall’OECD e dalla commissione europea: il metodo della funzione di produzione.

Questa formula rimane fortemente influenzata dagli stessi filtri statistici, che vengono applicati per ottenere molte delle variabili potenziali che entrano nella funzione. Inoltre, anch’esso si basa sull’idea che la crescita economica è guidata dall’offerta. Tuttavia, si differenzia dal metodo puramente statistico perché permette che si considerino esplicitamente gli effetti ipotetici di misure o condizioni istituzionali, come il grado di sindacalizzazione, la struttura di mercato, le riforme delle pensioni e degli ammortizzatori sociali, riforme politiche e persino elettorali.

Il primo risultato di questo metodo è che, come dice Alain Parguez, siamo sempre in pieno impiego, per decreto. Il secondo è che specifiche misure e riforme possono essere presentate come le uniche in grado di aumentare il potenziale dell’economia. (Questo in UE significa fornire legittimo spazio di spesa ai governi).

L’opacità dello strumento è perciò intensificata da questa costruzione ad hoc, che appare rigida, oggettiva e inflessibile ma nasconde un notevole e non esplicito spazio di azione.

Questo pone in modo ancor più urgente il problema del controllo democratico su politiche che hanno immense ripercussioni sociali e politiche, ma che non sono adeguatamente rappresentate nella narrativa ufficiale e nei modelli utilizzati dalle nostre istituzioni.

Alcuni nella UE chiedono una ridefinizione della formula in modo da giustificare maggior libertà fiscale ai governi. Si tratterebbe tuttavia di una lieve ri-calibrazione degli interessi di cui si tiene conto e quindi delle politiche, che potrebbero talvolta essere anti-cicliche ma sempre con un orizzonte temporale limitato e perciò non espansivo.

Recentemente, pare che il desiderio dei governi di aumentare la sicurezza e la potenza militari possa effettivamente generare tale ri-orientamento. Tuttavia, questo non porterebbe affatto ad un’emancipazione della politica fiscale dai dictat pseudo-tecnocratici, che invece implicherebbe l’ammissione che l’azione economica dei governi può e deve servire ogni priorità politica una comunità decida di darsi, dando a queste uguale dignità. In altre parole, bisognerebbe che le istituzioni dismettessero il velo tecnocratico e si assumessero la responsabilità politica di – ad esempio – ignorare le richieste dei disoccupati e dei precari per maggiori uguaglianza e sicurezza economiche, o degli studenti per un’educazione pluralista e accessibile a tutti.

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* Il tema di quest'articolo è stato originariamente trattato nel Paper The Cyclically Adjusted Budget: History and Exegesis of a Fateful Estimate (Institute for Nnew Economic Thinking).http://ineteconomics.org/ideas-papers/research-papers/the-cyclically-adjusted-budget-history-and-exegesis-of-a-fateful-estimate

Orsola Costantini

Senior Economist, Institute for New Economic Thinking; ocostantini@ineteconomics.org